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l'Ospite

Yemen, Libano, Israele

Il 4 novembre le forze ribelli yemenite houti hanno lanciato un missile contro la capitale dell’Arabia saudita Riyad. Il fatto di per sé non costituirebbe una notizia, visto il sanguinoso conflitto che da più di due anni affligge il paese (cf. Regno-att. 2,2016,22; 4,2016,106) in contrapposizione all’Arabia saudita. Il missile non ha raggiunto l’obiettivo poiché è stato neutralizzato prima. Ciò che interessa è il fatto che il suo lancio (uno dei più precisi di questo conflitto) è avvenuto assieme a una serie di altre circostanze piuttosto inusuali, l’insieme delle quali definisce un quadro regionale nuovo.

Nello stesso giorno il principe saudita Mohammed Bin Salman ha messo agli arresti domiciliari 11 principi, 4 ministri e alcuni ex ministri che una sedicente commissione anti-corruzione, nata poche ore prima, ha messo sotto accusa. In mattinata, mentre era in visita nel paese, il primo ministro del Libano, Saad Hariri, appoggiato da tempo dai sauditi, si è dimesso denunciando ingerenze iraniane nel proprio paese.

Domenica, infine, Mansour bin Muqrin, figlio dell’ex principe ereditario, Muqrin bin Abdulaziz, è morto insieme ad altri funzionari di stato in un misterioso incidente in elicottero avvenuto al confine con lo Yemen.

Secondo quanto scrive l’International Crisis Group, il think tank con sede a Bruxelles, vi è il rischio che i conflitti locali e regionali si intersechino ancor di più e si amplifichino vicendevolmente, aggravando ulteriormente il panorama proprio mentre va spegnendosi il conflitto siriano. In particolare, date le crescenti tensioni esistenti tra Arabia Saudita e Iran e l’ansia dell’amministrazione USA di contrattaccare Teheran, il lancio del missile è un innesco da non sottovalutare.

Ancora conflitto in Yemen. Secondo April Longley Alley, direttrice del progetto Penisola arabica dell’ICG, il missile rispondeva principalmente a motivi interni. Innanzitutto di guerra, come risposta ai recenti bombardamenti della coalizione guidata dall’Arabia. Poi di coalizione: a dimostrare che la via dell’ala più militarizzata ha buoni motivi per non andare al negoziato.

In teoria la coalizione saudita avrebbe dovuto ridurre i bombardamenti per favorire l’ala houti più disponibile a mediare. Ma così non è stato, anzi. L’Arabia assieme agli USA ha addossato pubblicamente la colpa del lancio a Iran ed Hezbollah; ha chiuso tutte le frontiere del paese (6 novembre) per frenare il flusso di armi – che comunque entrano –, aggravando invece la situazione umanitaria anche nelle regioni del Sud dove il governo e la popolazione sarebbero politicamente meno ostili ai sauditi. Oggi in Yemen vi è la più grave crisi alimentare del mondo, con 17 milioni di persone colpite dalla fame. E in più l’ala militare del Nord ne è uscita rafforzata.

«Cresce la consapevolezza che nessuno potrà vincere»: lo ha ribadito ad Asianews anche mons. P. Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale, ma ben pochi sono oggi disponibili a mettersi attorno a un tavolo negoziale. 

Il Libano. Le dimissioni di Hariri, durante la visita a Riyad, hanno reso bene l’idea di chi detenga effettivamente le leve del potere. La domanda è: perché ora? Secondo Heiko Wimmen, direttore per l’area Iraq, Siria e Libano dell’ICG, è legittimo domandarselo visto che Hariri è entrato come capo del governo nel 2005, in base alla ripartizione del potere libanese in quota sunnita, assicurando di essere in grado di tenere «sotto controllo» Hezbollah.

Quest’ultimo ha tutto da guadagnare dal vuoto di potere nel paese, visto che gli sciiti sono circa il 30% della popolazione e visto che il suo rivale (sunnita) appare prigioniero di Riyad: il leader Hassan Nasrallah, infatti, ha subito dichiarato ai media che il suo partito è in grado di garantire «sicurezza e stabilità al Libano».

Le dimissioni sono anche un tentativo di Riyad di approfittare della linea dura manifestata dagli USA contro l’Iran e delle nuove sanzioni imposte a Hezbollah per fare pressione e isolare il suo nemico regionale, aprendo a possibili azioni punitive contro il Libano e il movimento sciita.

Nell’immediato, però, le dimissioni di Hariri non avranno un impatto drammatico sulla situazione politica libanese. La principale ricaduta sarà invece di natura economica. Tenendo a mente il precedente del Qatar – dove nel giugno scorso si consumò una crisi tuttora irrisolta allorché Arabia Saudita, Emirati arabi uniti ed Egitto, e poi Bahrein, decisero di isolare il paese, anch’esso sunnita ma accusato di sostenere il terrorismo e d’essere troppo filoiraniano – e la mossa saudita che di fatto bolla il Libano come un nemico, il rischio d’isolamento economico è molto forte.

Già 7 paesi del Golfo hanno chiesto ai propri connazionali di lasciare il paese dei cedri; l’ulteriore mossa potrebbe essere quella di espellere i libanesi dai propri confini: le mancate entrate dovute alle rimesse dei migranti (si parla di miliardi di dollari) potrebbero avere un impatto drammatico sulla già fragile economia libanese. Mentre il Qatar ha ricchezze e riserve a sufficienza per far fronte alla crisi, per il Libano la situazione è molto diversa.

E Israele? Secondo Ofer Zalzberg, senior analyst dell’ICG, le dimissioni di Hariri non porteranno nell’immediato a uno scontro diretto con Hezbollah, per quanto Israele sia sempre più preoccupato della capacità di quest’ultimo non tanto d’avere un arsenale militare (i missili e i razzi di lunga e breve gittata di Hezbollah sono passati dai 15.000 del 2006 agli attuali 130.000) quanto di diventare esso stesso produttore d’armi, in particolare di missili d’alta precisione di lunga gittata. Esse portano acqua al mulino della narrazione ufficiale del pericolo Hezbollah, cosa che può facilitare il consenso internazionale nei confronti di una stretta anche militare nei suoi confronti. E Netanyahu potrebbe essere intenzionato a utilizzarlo.

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