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Il Regno delle Donne

8 marzo – Chi dice donna

Nella Chiesa si è sempre molto parlato “della donna”, ma in modi che hanno reso difficile la vita delle donne concrete e distorto i rapporti fra i sessi. È possibile costruire un nuovo linguaggio e nuove relazioni?

Sarà vero che “chi dice donna dice danno”? Chissà. Sicuramente, però, se guardiamo alla storia del cristianesimo possiamo rovesciare il proverbio: chi in questi venti secoli ha detto “donna” ha quasi sempre prodotto un danno nella vita delle credenti di Gesù Cristo.

Infiniti trattati teologici e predicazioni, norme canoniche e prassi consuetudinarie, esegesi arbitrarie e memorie cancellate hanno fatto di questa parola un’arma per decretare senza appello ora debolezza, inferiorità e peccaminosità, ora mistica dell’oblio di sé, del servizio, del silenzio, dell’umiltà e dell’obbedienza. In entrambi in casi, imponendo limiti ai destini, recinti ai corpi, proibizioni alle menti.

Quelle che si sono battute per i diritti

Si capisce allora perché al Vaticano II lo sparuto ma tutt’altro che ingenuo gruppo delle uditrici scelse, nei suoi interventi, di contrastare la tendenza dei padri conciliari a dedicare paragrafi speciali alle donne: ciò che le donne vogliono dalla Chiesa, disse Rosemary Goldie a padre Congar, non è essere paragonate alla bellezza delicata dei fiori, ma «essere riconosciute come persone pienamente umane». Avevano ragione le uditrici: il Concilio tanto parco nel dire “donna” è stato proprio quello che ha aperto nei fatti alle donne la possibilità di esprimere la propria soggettività di battezzate in una partecipazione ecclesiale a tutti i livelli.

D’altra parte, aveva avuto ragione anche Lina Merlin, vent’anni prima, quando invece all’Assemblea costituente si era battuta perché nella Carta fondativa della Repubblica, all’articolo 3, si inserisse la parola “sesso” fra le discriminazioni che il nuovo stato si impegnava a escludere: a chi le contestava come superflua la precisazione (non bastava “tutti i cittadini”?) lei replicò con la famosa frase «cittadino è considerato solo l’uomo con i calzoni e non le donne anche se ora la moda consente loro di portare i calzoni».

La tentazione ecclesiale di un “ritorno”

Dire donna, dunque, o non dirlo? I tempi lunghi dei cambiamenti culturali, degli immaginari, delle strutture sociali e religiose sembrano indicarci che la questione è tutt’altro che risolta.

Da una parte, infatti, i discorsi, le riflessioni, i documenti e i progetti di ambito ecclesiale si basano ancora, nella stragrande maggioranza, sull’identificazione dell’umano, dell’universale, del “normale” con il maschile. Quindi se non dicono “donna” è perché effettivamente le donne non sono contemplate. Si pensa e si parla a prescindere dal loro esistere.

Al tempo stesso non possiamo negare che si va accentuando, nella Chiesa, la tendenza a un “dire donna” secondo categorie, funzioni e “vocazioni” molto simili a quelle degli ordinamenti patriarcali. Evidente in tante teologie “della donna” di tempi passati (il che è comprensibile), questa tendenza ha ripreso vigore a partire dalla Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II.

Negli ultimi anni, poi, buona parte del clero e dei vescovi ha di fatto legittimato un movimento che – ignorando le più elementari conoscenze scientifiche e storiche (anche di storia della Chiesa) oltre che l’abc dei criteri di interpretazione della Scrittura – propone una riedizione in forma solo apparentemente soft della gerarchia tra i sessi e il “ritorno a casa” delle donne, affermandone la coerenza sia con la natura che con la fede cattolica e il dettato biblico.

Iniziare a dire “donne”…

Ma allora, visto quanto sembra difficile, nella Chiesa, resistere alla tentazione di soffocare la parola “donna” con il peso inamovibile di contenuti, accenti ed echi discriminanti, in cui molte donne non possono riconoscersi e che comunque sono difficilmente ascrivibili al Vangelo (anche quando eccedono nella lusinga), che fare? Smettere di dire “donna” per non fare altri danni?

Oppure iniziare a pronunciarla, questa parola, all’interno di un linguaggio con regole diverse, per non correre il rischio di buttare, con l’acqua sporca del patriarcato, il “bambino” delle esperienze e dei saperi femminili, maturati nonostante e oltre i recinti imposti e non di rado interiorizzati?

Questo hanno fatto, negli ultimi decenni, molte donne di Chiesa: hanno parlato di donne – al plurale, concreto, senza il quale ogni singolare astratto è un’ideologia -  e contemporaneamente hanno fatto emergere dall’ombra la parola “uomo” e i percorsi attraverso cui gli uomini hanno definito il femminile come “altro”, come parziale, secondario e non necessario alla comprensione e allo sviluppo dell’umano, nascondendo così a sé stessi la propria parzialità.

Da qui è scaturito il ricchissimo filone degli studi biblici e teologici che mostrano come la Chiesa, al pari di ogni altra realtà, sia sempre attraversata da concezioni di genere, che possono e devono essere esposte al vaglio della Parola liberante del Vangelo.

Raccogliere la sfida oggi: discernere e interloquire

La convinzione dell’insignificanza del pensiero delle donne, non più teorizzata ma ancora ampiamente presente, ostacola spesso e volentieri la condivisione e diffusione di questi studi; tuttavia, essi sono indispensabili per capire come si sono originate e sviluppate, nella Chiesa, quelle distorsioni nei rapporti tra uomini e donne che nessuno può più onestamente negare. Le distorsioni “acute” che danno luogo a ingiustizie eclatanti – si legga ad esempio, ultimo in ordine di apparizione, “Il lavoro (quasi) gratuito delle suore”, sul numero di marzo del mensile dell’Osservatore Romano “Donne Chiesa Mondo”, che propone diversi altri contributi interessanti –. E le distorsioni “croniche”, che tutte sperimentano in prima persona e che rendono inutilmente difficile la pur convinta e profonda appartenenza alla Chiesa.

Siamo in una fase in cui il disagio sembra emergere pubblicamente – e in modo assai costruttivo – da più parti: che siano iniziative di base come il recente Manifesto di “Donne per la Chiesa”, oppure gli interventi di tante studiose su riviste importanti e perfino sulle pagine dell’Osservatore Romano, che ha pubblicato ad esempio la chiara e decisa presa di posizione di Anne-Marie Pelletier, precedentemente uscita in forma più ampia su “Vita e Pensiero” (2/2017).

Certo, la grande incognita è se gli interlocutori si faranno interrogare seriamente da questa presa di parola e dalla sua rilevanza antropologica ed ecclesiale, sostenuta dalle competenze bibliche e teologiche di tante studiose; o se invece – secondo un copione già ampiamente collaudato – la lasceranno scivolare via come una “cosa da donne”, un capriccio passeggero, una concessione a mode e ideologie corruttrici di cui si può – o è anzi raccomandato – fare a meno.

Sarebbe davvero un peccato; ma in ogni caso la tenacia, l’intelligenza, la franchezza e la passione delle donne per una Chiesa che sia veramente comunità di fratelli e sorelle non sembrano intenzionate a spegnersi.

 

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Commenti

  • 13/03/2018 cavallaripaola1@gmail.com

    Grazie Rita, hai detto ancora una volta parole giuste e sagge...

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