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Il Regno delle Donne

La figlia del boss

Sembra la trama di una fiction di serie B. Quelle in cui le donne sono apparentemente protagoniste ma in realtà non agiscono, sono solo vittime passive di una storia che le avvolge loro malgrado. Sembra una fiction e invece è una storia vera, quella di una giovane donna che s’innamora, di suo fratello e di suo padre. Il problema è che l’uomo di cui lei si innamora è un carabiniere, e il padre è un boss di Corleone che, nello squallore del carcere in cui è rinchiuso, decide che la figlia deve morire e incarica di questo il figlio maschio, che per fortuna si rifiuta di farlo.

Innamorandosi, lei è diventata un ostacolo al progetto di Pino Scaduto, che nel frattempo è uscito e il clan vuole riorganizzarlo e riprenderlo in mano. E può un uomo vero, un uomo di potere, fermarsi davanti a un ostacolo qualunque, soprattutto se è una donna?

Per fortuna ora Scaduto è tornato in carcere e la figlia è salva. Colpiscono, in questa storia, alcuni fotogrammi.

Uno è quello del fratello che, parlando con un amico gli dice: «No... io non lo faccio. Il padre sei tu e lo fai tu... mi devo consumare io?... Io ho trent’anni... non mi consumo». «Consumarsi» sta per «mettersi nei guai»: dunque la motivazione del suo rifiuto è egoistica: non amore fraterno, non scrupolo morale, non rispetto del valore della famiglia ma paura di andare in carcere.

Il secondo fotogramma riguarda la sorella di Scaduto, alla quale il boss ha confidato le proprie intenzioni. Da zia, avrà sentito il bisogno di avvertire la nipote? Da donna, avrà sentito il bisogno di proteggere l’altra donna? Le cronache giornalistiche non ce lo dicono, ma è lecito dubitarne, visto che la figlia sembrava del tutto ignara, fino a quando sono state pubblicate le intercettazioni.

Il terzo riguarda lui, il boss (è difficile chiamarlo «padre»). Un individuo per il quale la famiglia di sangue conta meno della famiglia mafiosa, la vita della figlia meno della propria identità di boss messa in crisi dal carcere. E d’altra parte non è una caratteristica comune a quasi tutti i femminicidi, quella di nascere da un’incapacità di accettare il cambiamento portato nella propria vita dalla scelta di una donna, che vuole andarsene, seguire una strada che ti esclude?

Il quarto fotogramma è lei, la giovane donna che per fortuna non è stata uccisa, ma che è comunque una vittima. È la protagonista di questa storia, meno passiva di quel che sembra, proprio perché lei una scelta l’aveva fatta: quella di seguire il suo cuore, che voleva dire scegliere un carabiniere, ma anche lasciarsi alle spalle la vita protetta nel clan del padre. Alla fin fine, è la più coraggiosa di tutti.

Il quinto fotogramma è una finestra sul passato. Era il 1981 quando in Calabria Annunziata Pesce fu uccisa su mandato dello zio, perché si era innamorata, appunto, di un carabiniere. All’assassinio oltretutto seguì una damnatio memoriae, tanto che solo in anni recenti la sua storia è stata scoperta e raccontata grazie a una parente, Giusy Pesce, a sua volta condannata a morte dallo zio che la sospettava di avere un amante. Si è salvata perché è stata arrestata e ha cominciato a collaborare con la giustizia.

In realtà i boss mafiosi – così amanti della tradizione e della solidità famigliare – non si fanno molti scrupoli nel condannare a morte i propri parenti, donne comprese. Nel 1982 Giuseppe Lucchese, uomo molto vicino a Riina, fece uccidere la sorella, l’amante e anche il marito, perché sospettava una relazione a tre.

Quello del rapporto tra donne e mafia è un rapporto complesso, ma se non c’è dubbio che negli ultimi decenni alcune abbiano avuto un ruolo da protagoniste, le vittime sono molto più numerose.

La prima di cui si abbia memoria risale al 1896: Matilde Concetta Cacciola, morta nel 2011. L’associazione «Da Sud» ha raccolto le loro storie nel dossier Sdisonorate (Sdisonorate.it), da cui emerge che le donne uccise dalle mafie sono più di 150. E poco conta se fossero innocenti, se avessero deciso di collaborare con la giustizia o semplicemente di andarsene o se non avessero la forza di farlo. Conta il fatto che erano per qualche motivo un ostacolo alla piena realizzazione di un modello patriarcale, sessista e maschilista apparentemente arcaico ma evidentemente ancora vitale.

Tanto che torna la domanda: c’è molta differenza tra questi delitti mafiosi e quelli che oggi chiamiamo femminicidi?

 

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Commenti

  • 17/11/2017 giancodri@alice.it

    cara Donatella, le donne possono morire per omicidio, se rapinate o vittime di incidente stradale. Ma sono vittime di un crimine specifico in cui i responsabili agiscono per ritenersi possessori del loro corpo e della loro libertà e in genere (alcuni nominano l'onore, diverso dalla gelosia che può prendere anche qualche donna) sostengono di averlo commesso "per amore". Non è nemmeno un'aggravante, ma un crimine da sanzionare come violazione dei diritti delle donne. Prodest a noi.

  • 10/11/2017 donatella.vicentini@gmail.com

    Un omicidio è tale: sempre. Occorre etichettare i delitti? Cosa si auspica: una maggior visibilità? Sollecitare sensibilità di genere? In sede giudiziale i distinguo facilitano questo o quell'applicativo del codice penale favorendo i più deboli? Già: "cui prodest ..."

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