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Attualità
Attualità, 2/2017, pag. 12

Santa Sede - Protezione dei minori: imparare gli uni dagli altri

Intervista a Hans Zollner sj

Maria Elisabetta Gandolfi; Christopher Lamb

La protezione dei minori non è elemento accessorio della riforma di papa Francesco (cf. Regno-att. 2,2015,83; 10,2016,276). Lo attestano la creazione della Pontificia commissione per la protezione dei minori (marzo 2014), la cui presenza e partecipazione nella vita degli organismi di curia progressivamente è stata inserita, pur con resistenze, e rafforzata. In che modo questo a che fare con la riforma della Chiesa? Ne parliamo con Hans Zollner sj membro della suddetta Pontificia commissione.

La protezione dei minori non è elemento accessorio della riforma di papa Francesco (cf. Regno-att. 2,2015,83; 10,2016,276). Lo attestano la creazione della Pontificia commissione per la protezione dei minori (marzo 2014), la cui presenza e partecipazione nella vita degli organismi di curia progressivamente è stata inserita, pur con resistenze, e rafforzata.

O anche l’istituzione (giugno 2016) di uno specifico reato canonico, l’«abuso d’ufficio episcopale» che riguarda la responsabilità del vescovo di denunciare, nella diversità degli ordinamenti di ciascun paese, i reati di cui viene a conoscenza.

Lo dimostrano la crescita di denunce e di conseguenti provvedimenti per casi di violenze commessi all’interno delle Chiese locali (Argentina, Australia, El Salvador, Francia, Italia, Messico, Oceania, Stati Uniti, Uruguay, per stare agli ultimi casi di cronaca tra 2016 e inizi del 2017), così come la recezione, lenta ma progressiva, della necessità di istituire meccanismi di salvaguardia per la protezione dei minori all’interno delle conferenze episcopali di tutto il mondo.

Papa Francesco ha inoltre accolto la proposta della Commissione (12 settembre) d’istituire una giornata in ogni Chiesa locale per ricordare le vittime di violenze da parte di esponenti ecclesiastici. Essa è già stata celebrata negli Stati Uniti, in Francia e in Svizzera.

Occorre – ha detto poi Francesco nella Lettera ai vescovi nella festa dei santi innocenti (28.12.2016) – chiedere «perdono» e piangere per il «peccato di quanto è successo, il peccato di omissione di assistenza, il peccato di nascondere e negare, il peccato di abuso di potere». Per questo Bergoglio ha nominato il 14 gennaio il card. S. O’Malley, presidente della Pontificia commissione, membro della Congregazione per la dottrina della fede.

Perché tutto questo ha a che fare con la riforma della Chiesa? Perché per poter avere occhi che si lascino bagnare dal «pianto» dei bambini e cuori disponibili a «proteggerne l’innocenza» è necessaria una Chiesa fedele al Vangelo più che alle proprie strutture; proattiva, trasparente, disponibile ad ammettere gli errori dei propri membri e a costruire nell’ascolto delle reciproche esperienze una rete di protezione perché gli sbagli e le omissioni non vengano a ripetersi.

In questa traiettoria va l’ampia intervista a p. Zollner, disegnando un bilancio sull’attività non solo dell’organismo pontificio ma anche del centro di formazione – unico nel suo genere – che ha sede presso la Pontificia università Gregoriana.

 

 Maria Elisabetta Gandolfi

 

– Il Centro per la protezione dei minori (cf. Regno-att. 12,2012,75; 2,2015, 83) compie il quinto anno di vita. Lungo questo tempo lei ha visitato circa 40 paesi nei cinque continenti con lo scopo di creare consapevolezza e promuovere misure di salvaguardia. Da queste sue esperienze quale idea di Chiesa universale ha potuto farsi?

«Ovunque io sia andato ho sperimentato l’unità nella fede e la sensazione di sentirmi a casa, sia che fossi in una chiesa durante una liturgia o un incontro, sia che fossi in scuole, luoghi di lavoro e alla tavola di persone di culture diverse. Si condivide un comune sentire a prescindere dal fatto che la fede venga espressa attraverso culture differenti. Certamente, il comune catechismo, l’unico Credo e specialmente l’eucaristia sono punti universali di convergenza e di unità.

Tuttavia, ho sperimentato che c’è unità anche nei problemi che affrontiamo come Chiesa globale. È allarmante scoprire che sono state commesse violenze sessuali su minori in ogni angolo della terra che la Chiesa raggiunge. Assieme a questa scoperta c’è anche la consapevolezza che alcuni fattori che fanno parte dell’organizzazione della Chiesa costituiscono parte del problema.

Tra di essi vi sono la modalità con la quale la gerarchia funziona quando c’è un caso d’ingiustizia commessa da uno dei propri membri, così come la comprensione della relazione che un vescovo o un provinciale mantiene con i sacerdoti di cui è responsabile quando c’è da affrontare una questione seria.

In molti luoghi vedo velocità e prontezza nel cambiamento e una capacità proattiva nel far fronte a difficoltà di larga scala come, ad esempio, la comprensione fondamentale su quale sia il ruolo del sacerdote oggi, o domande sulla formazione umana dei seminaristi e dei religiosi. Ci rendiamo conto che in un’epoca in cui l’autenticità è uno dei valori più alti, noi siamo chiamati a rivedere le nostre modalità di gestione del potere, del denaro e di uno stile di vita agiato, alla luce del messaggio del Vangelo.

Non può esserci alcuno spazio per giustificare atteggiamenti che autorizzino a dare corso a qualsiasi desiderio, a maggior ragione quando questo implica una condotta sessuale scorretta».

– Quale soluzione si può immaginare? Una sorta di forza di polizia internazionale ecclesiastica?

«È ovvio che non ci potrà mai essere una polizia ecclesiastica, come un nuovo tipo d’inquisizione. La Chiesa non è e non può legalmente e legittimamente esercitare un potere di governo secolare in tutto il mondo. Prima di tutto, la Chiesa rispetta l’organizzazione dello stato e coopera con le leggi e con le procedure legali laddove può.

Siamo chiamati a una chiara cooperazione con le leggi civili nei casi nei quali arriviamo a parlare di un crimine. Vi sono, è vero, alcuni casi in cui l’accusa non è così chiara, o dove è intervenuta la prescrizione o dove la forza di polizia è inadempiente. In questi casi la Chiesa ha ancora un obbligo morale ad agire e come minimo a giudicare la situazione degli accusati e determinare se essi devono continuare o meno il proprio servizio in un ruolo di responsabilità nella Chiesa.

Le modalità con le quali la Chiesa ha affrontato le denunce delle violenze si sono modificate. Il card. Joseph Ratzinger, quando era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha lavorato per trasferire la responsabilità della gestione dei casi di violenze sessuali da parte di chierici alla Congregazione per la dottrina della fede.

Quando la Congregazione ha assunto questa responsabilità nel 2001, era entrato in vigore un approccio molto più approfondito nel gestire le accuse, e molti responsabili di violenze chierici sono stati portati a processo. Tuttora vi sono dei limiti a ciò che la Congregazione può fare. È anche vero che il processo canonico normalmente richiede un lungo tempo e sia le vittime sia coloro che sono accusati sono spesso lasciati all’oscuro senza sapere a che punto sia il loro processo.

L’importanza di un’autorità centrale

Nonostante questi ostacoli, c’è un estremo bisogno di un’agenzia centrale che affronti questi problemi e nella Chiesa questa è una funzione che compete alla Congregazione per la dottrina della fede. Essa fornisce anche consulenza nella stesura delle linee guida per la protezione dei minori da parte delle conferenze episcopali. Fintanto che non c’è sufficiente chiarezza su ciò che un presidente di una conferenza episcopale o un vescovo metropolita ha titolo di compiere c’è bisogno che esista questo punto di riferimento, un ente super partes.

Tuttavia, questo non è sufficiente perché non tiene conto della necessità e del potenziale che la Chiesa possiede per promuovere la protezione dei minori al proprio interno e anche all’esterno. Questa è probabilmente una delle ragioni per le quali papa Francesco ha istituito nel marzo 2014 la Pontificia commissione per la protezione dei minori, che mette assieme persone da diversi continenti e competenze e il cui servizio è fornire consulenza al santo padre. In quanto responsabile del gruppo di lavoro della Pontificia commissione sulla formazione dei responsabili ecclesiali, questo ruolo si connette molto bene con il lavoro del Centro per la protezione dei minori.

Coerentemente con il principio di sussidiarietà, ribadito da papa Francesco, ogni compito che possa essere eseguito a un livello più basso (o locale) di responsabilità deve essergli affidato, nella misura in cui la necessaria competenza e le capacità di quel livello sono garantite.

Per quanto riguarda il compito relativo alla salvaguardia, questo è l’approccio che segue anche il Centro per la protezione dei minori della Pontificia università gregoriana. Offriamo corsi e formazione che possono essere adattati alle diverse lingue e ai diversi contesti locali e socio-culturali, mentre condividiamo un comune progetto globale per la protezione dei minori».

– Lei ha sottolineato la presenza di differenze culturali. Come il Centro si propone di mantenere un approccio coerente a fronte di molti contesti diversi?

«Il Centro lavora giovandosi di un punto di vista accademico, collaborando con università e docenti. Sotto questo aspetto, mantenere uno standard scientifico – che implica ricerche e pubblicazioni basate su fonti acclarate e revisioni paritarie – è vitale per la sua mission.

Comunque, i metodi scientifici delle molte discipline coinvolte non sono indipendenti da fattori storici e culturali. Potrebbe essere difficile arrivare a una comprensione condivisa, per esempio, di che cosa significhi in ciascuna cultura “toccare”, anche se parliamo di una cosa semplice come una stretta di mano.

Questo potrebbe portare qualcuno ad affermare che nella salvaguardia non possiamo raggiungere uno standard comune. Ma enfatizzare le differenze sarebbe un errore. Ogni cultura ha cognizione di cos’è uno stupro. Le persone di ogni estrazione sanno quando la fiducia è violata.

Così da un lato vogliamo utilizzare criteri scientifici per misurare l’impatto della violenza e l’efficacia delle misure di salvaguardia; ma se dall’altro non prendiamo sul serio le differenze culturali – le modalità diverse secondo le quali le persone vivono in famiglia, costruiscono la fiducia e si riferiscono all’autorità ecc. – allora probabilmente non saremo in grado d’individuare la forma concreta e le condizioni nelle quali avverrà un comportamento violento, com’è sanzionato all’interno di una cultura, come affrontarlo, compresi il risarcimento o l’omissione, e dove si può intervenire o avviare una forma di salvaguardia.

Se noi tentiamo di mettere in atto uno standard occidentale, le persone possono apparentemente adeguarvisi ma non passare attraverso una profonda conversione del proprio atteggiamento, ciò che è necessario per mettere in atto un cambiamento duraturo.

Capaci di criticare l’autorità

Posso fare qualche esempio di luoghi che sfidano la sensibilità occidentale. Recentemente sono stato in Messico. Un vescovo è venuto a raccontarmi la storia di un’area indigena dove si dà per scontato e viene accettato dalle tribù della regione che i genitori possano vendere le proprie figlie ai loro vicini.

Oppure possiamo parlare della situazione in India, con un’altra popolazione indigena, nella quale se una ragazza ha rapporti sessuali al di fuori del matrimonio e rimane incinta e se il padre del bambino non è quello previsto dagli accordi presi dalla famiglia, c’è un rituale per fare ammenda.

Le famiglie sgozzano due capre e il sangue viene versato in modo da cancellare la trasgressione; poi preparano una festa e infine il figlio dell’unione proibita è dato a una famiglia adottiva. Ora la ragazza è libera di sposare colui al quale è stata promessa. La gente sembra d’accordo con questa soluzione, ma che cosa potrebbe dire su questa situazione l’idea di legge di cui l’Occidente è portatore?

Possiamo fare un altro esempio dalle Filippine. Lì, rifiutarsi di toccare o accarezzare un bambino è considerato realmente sconveniente, persino malato. Per loro è del tutto normale che i maschi camminino per la strada dandosi la mano. Come si può insegnare ai bambini e agli adulti quali sono i confini tra ciò che è bene e tra ciò che non è bene toccare?

Potrei fare molti altri esempi come questi, che mostrano le sfide che pone il concetto di salvaguardia in contesti differenti dove insistere semplicemente su formulazioni della salvaguardia di tipo «anglofono» o «europeo occidentale» è destinato a non risolvere il problema. Fintanto che non comprenderemo realmente questi schemi comportamentali profondamente radicati e come l’area dell’affettività umana è vissuta in una cultura non saremo in grado di avere alcun impatto.

Altre culture necessitano il nostro input, ma necessitano anche di tradurre nella propria lingua simboli e modalità educative delle persone e di cambiamento del comportamento. Le persone devono essere educate e rese capaci di comportarsi secondo modalità nuove, come per esempio essere in grado di criticare l’autorità. Si può immaginare la resistenza a questo tipo di idea in Africa, laddove in molte zone il sacerdote regna come un capo tribù!

In questo momento storico la Chiesa è l’unica ad avere la capacità di portare avanti e sostenere il cambiamento di mentalità e comportamenti. Noi abbiamo un sistema comunicativo globale unico che è fondato sulla fede e che proclama i medesimi valori, anche se questi sono trasmessi e declinati in modi differenti.

Possiamo raggiungere il livello della base così come i leader delle organizzazioni e dei governi. La Chiesa potrebbe essere un canale unico di comunicazione e cooperazione, anche se sinora non l’abbiamo sfruttato appieno.

Il problema delle violenze sessuali è un esempio della nostra scarsa cooperazione perché la Chiesa in quasi tutti i paesi ha ripetuto gli stessi errori che hanno compiuto coloro che hanno avuto a che fare con la crisi in precedenza».

Perché aspettare l’attacco dei media?

– Che cosa si può imparare dai paesi che hanno già avuto l’esperienza di un attacco dei media con i riflettori puntati sulle violenze sessuali all’interno degli organismi ecclesiali, paesi come il Canada, la Germania, gli Stati Uniti, il Belgio, l’Olanda, l’Australia e ora la Francia?

«In realtà una delle sfide consiste in come noi facciamo fronte come comunità globale e sviluppiamo modalità e metodi di lavoro comune imparando gli uni dagli altri. Abbiamo visto che laddove c’è una leadership forte, una leadership che sia allo stesso tempo convinta e convincente, la realizzazione dei programmi di salvaguardia funziona.

Su questo punto, quando rispondiamo ai problemi più importanti non partiamo da zero. Per esempio, l’Australia ha compiuto ricerche di alta qualità e ha moltissime informazioni da offrire. Numerosi paesi hanno imparato la fatica di un’adeguata risposta e ora possono trasmettere le proprie risorse.

In ogni paese una risposta seria è stata abbozzata solamente dopo che vi è stata una tempesta mediatica centrata sulla questione delle coperture delle violenze. Sembra che senza questi scandali pubblici nulla sarebbe cambiato. Il nostro semplice messaggio ai paesi nei quali la Chiesa non è ancora andata sotto processo sui media è: riconoscete i potenziali problemi e iniziate il cambiamento subito!

Abbiamo imparato che abbiamo bisogno di un’autorità centrale. Quando la leadership non è chiara o quando vi sono strutture gerarchiche e relazioni confuse ogni tipo di danno o di cattiva condotta è possibile ed è necessario che un’autorità superiore intervenga, soprattutto per garantire giustizia ai sopravvissuti. Sussidiarietà significa che c’è bisogno di qualcuno che abbia l’autorità, la conoscenza e la statura ma che le voglia condividere. Per questo abbiamo bisogno di persone preparate che siano in grado di attuare il cambiamento nelle strutture e queste persone hanno bisogno di essere molto perseveranti.

Abbiamo anche imparato che abbiamo bisogno di misure educative diverse per raggiungere i diversi livelli della società. Le persone hanno competenze diverse, non ci si può aspettare che affrontino programmi formativi a 360o gradi. Pertanto servono anche programmi di “formazione di base”, senza perdere impatto o senza dimenticare il contesto e con tutti gli approfondimenti di una approfondita ricerca di sfondo».

– A partire da questo, che cosa dovrebbe succedere ora? Quale direzione dovrebbe prendere la Chiesa per approfondire il suo impegno nella salvaguardia dei minori?

«In questi cinque anni è venuta avanti una nuova consapevolezza sul tema della violenza sessuale sui minori in ogni parte del mondo. Ora c’è disponibilità a parlare del problema ed è possibile organizzare conferenze e programmi formativi. Data la grande necessità di una risposta nella e dalla Chiesa e la crescente apertura al lavoro comune, il Centro per la protezione dei minori è nella posizione di configurare un modello di collaborazione tra paesi e culture.

Stiamo già andando in questa direzione. Il Centro offre un programma di formazione a distanza (e-learning) pensato per adattarsi a diverse culture e chiediamo ai nostri partner non solo un feedback ma anche degli stimoli per una collaborazione. Stiamo lavorando per costruire una conoscenza basata sulla ricerca, le competenze didattiche, i contatti da tutto il mondo e le esperienze sul campo.

Una rete di centri

Stiamo visitando i vari paesi e stiamo constatando di persona come sta andando, cercando di comprendere come le persone si riferiscono al tema e mettendo in dialogo tutte queste situazioni differenti. Al momento stiamo lavorando con circa 25 partner in più di 15 paesi in 4 continenti. La maggior parte di essi sono università o dipartimenti di pedagogia, teologia, psicologia e medicina.

A ogni modo non possiamo essere quelli che da Roma trovano soluzioni per tutti. Quello che è necessario che avvenga è che i nostri partner contestualizzino il programma, rendendolo accessibile nel suo messaggio più intrinseco, usando un linguaggio e un metodo chiari.

Questo deve essere fatto nella situazione di ciascuno e noi offriamo assistenza per farlo. Lavoriamo per disseminare conoscenze tali che siano comprensibili in ogni parte del mondo. Per esempio, molte persone non capiscono il diritto canonico, anche se si applica a tutti i cattolici e a tutti i sacerdoti. Pertanto noi lavoriamo con esperti specializzati in singoli campi, come il diritto canonico, in modo da portare la loro conoscenza a un più vasto pubblico.

Il Centro si distingue per il suo approccio multidisciplinare, che comprende psicologia, teologia, diritto canonico, sociologia, pedagogia e media. La sua unicità è anche data dal fatto che di proposito non vendiamo il programma «chiuso», ma chiediamo ai partner di assumersene una corresponsabilità. Questa partecipazione attiva e riflessiva può portare a dei cambiamenti man mano che i formatori stessi sviluppano la capacità di diventare esperti rispetto alla propria situazione.

Oltre al programma di formazione a distanza, c’è un diploma ottenibile dopo un corso intensivo semestrale alla Pontificia università gregoriana che offre formazione per i formatori, mettendo assieme vari esperti che insegnano nella propria area di competenza. Lavoriamo assieme alla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli per individuare le aree nelle quali c’è poca preparazione e forniamo borse di studio per studenti non abbienti che frequentano il corso. Il corso fa sì che i partecipanti discutano dei casi, della cultura e delle sfide, e si adopera perché gli studenti facciano rete in vista di future collaborazioni.

Il prossimo passo per noi sarà la creazione di un’Alleanza mondiale dei centri per la protezione dei minori. Si tratta di una rete di istituzioni partner presenti in diversi paesi con le quali abbiamo costruito una più approfondita relazione di lavoro. Questo gruppo ristretto di partner diventerà nostro referente per i diversi paesi e le diverse regioni per l’inculturazione e la disseminazione delle risorse per la salvaguardia, ancora una volta con lo scopo di creare una rete.

Senza lasciarsi scoraggiare

In cambio offriamo a questi partner una formazione permanente per i loro formatori, un mezzo per tenersi aggiornati rispetto agli standard e ai metodi conoscitivi più recenti, e una sorta di sistema di mentoring.

Che cosa ci vuole perché tutto questo abbia successo e perché diventi sostenibile? Paesi e Chiese locali differenti devono sostenersi l’un l’altro in modo che nessuno faccia niente da solo. Potremmo guardare alle modalità d’implementazione delle diocesi e delle parrocchie «sorelle» per il sostegno reciproco. Abbiamo anche bisogno di trovare nuove modalità per lavorare con organizzazioni esterne alla Chiesa che condividono la nostra causa comune. Il Centro ha già iniziato a farlo. In questo modo, insieme stiamo creando un movimento di salvaguardia dei minori e che sta già prendendo piede».

– C’è qualcosa che si augura per il suo lavoro?

«Innanzitutto desidero che coloro che sono coinvolti in questo lavoro e sono sensibili a questo tema non si scoraggino per la resistenza e l’inerzia che spesso essi incontrano, ma piuttosto, prendano coraggio e siano forti!

Questo è un tema scomodo e vi sono ostacoli culturali, sistemici e individuali. C’è una forma di vergogna associata al fatto stesso di parlarne, ma mentre la vergogna può essere una risposta sana e normale rispetto a quelle cose che tolgono la dignità alle persone, non deve diventare un ostacolo per la Chiesa nel confessare e affrontare temi esigenti.

Desidero una migliore infrastruttura, che la Chiesa e la società si sentano coinvolte nelle misure di protezione dei minori e che alle domande molto pertinenti di giustizia dei sopravvissuti vengano date delle risposte.

Vorrei che vi fosse un accompagnamento spirituale e un’integrazione migliori per i sopravvissuti che vogliono trasmettere l’esperienza del loro viaggio spirituale alla comunità.

Vorrei anche che vi fosse una miglior cura dei colpevoli, specialmente di coloro che sono ad alto rischio di ripetere il loro crimine.

Guardo verso un tempo in cui le tante persone che sono coinvolte in questo campo si colleghino meglio e si focalizzino sulle sfide scientifiche e procedurali che conosciamo. Stiamo lavorando nella direzione di questi obiettivi.

Un esempio è il congresso che vi sarà il prossimo anno su «La dignità del minore nel mondo digitale», nel quale vogliamo mettere insieme i leader dei mondi degli affari e di Internet, politici, forze dell’ordine, psicologi e psichiatri e responsabili ecclesiali, e per il quale abbiamo già ricevuto il sostegno della Santa Sede».

a cura di
Christopher Lamb*

 

* La versione originale dell’intervista è apparsa su The Tablet, The International Catholic News Weekly (www.thetablet.co.uk), il 2.1.2017. Essa è qui pubblicata con il permesso dell’editore; nostra traduzione dall’inglese; titoli e sottotitoli redazionali.

Tipo Articolo
Tema Santa Sede Minori
Area
Nazioni