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25 novembre - Non si cambia da soli

«Possa io muovermi con lentezza e non bruscamente. Possa io essere abbastanza coraggioso da condividere la mia paura e la mia vergogna e da raccogliere altri uomini affinché facciano lo stesso» (Eve Ensler)

 

Maschio da tre quarti di secolo, da cinquant’anni scrivo auguri alle donne il 9 marzo, in continua ricerca di conferme al di fuori di sé, da trenta partecipo ogni 25 novembre ai legittimi riti della pubblica condanna, che ancora non ferma rancori di mani e coltelli di paura, che non cambia l’ordine decrescente di anime e destini. 

Attrappito, vorrei denudarmi della corazza millenaria tessutami addosso da favole inventate e norme autoritarie, da cerimonie della consegna e luoghi dell’esercizio, da narrazioni di identità senza contronarrazioni di alterità, da congreghe volgari di svaccati guerrieri; dalla ragione che brucia le fate e dal dogma che nega l’umano 

Vorrei staccare queste maglie di piombo dalla pelle diventata rude e incarezzabile senza pegno; nostalgia confusa ma tintinnante – come il mattino del tamburino – di una pura&vulnerabile &indifesa nudità, pelle tenera che in umiltà grata sappia accogliere e restituire sguardo, carezza, cura.

Ma anche per questo singulto di desiderio sento colpa&paura: peso del ferro che ha forgiato la corazza, onere forse di pari misura (ardisco pensare) a quello che si porta su spalle indifese quella donna che pedalando traversa il bosco.  Abbiamo lo stesso nemico: io. Abbiamo lo stesso compagno di viaggio: io… Abbiamo lo stesso approdo su una nuova soglia dopo l’ultima curva: un largo noi.  

Ci sta ammantellando un regime violento e suadente, ordinato ad escludere, pronto a infuocare guerre, a spinare campi, a recludere pellegrini e migranti, a scartare residui, a liberare merci e profitti, a scindere nell’umano comune il desiderio dall’agire. Cosmesi tragica di una cultura millenaria di poteri e stereotipi, che ancora evacua morte e terrore, diseguaglianze vere e falsi conflitti, esecuzioni legittimate e violenza di genere, miti di giovane pienezza e certezze di debito infinito, di mulini bianchi e deserti rossi, di corpi umani tramutati in carogne e di servi fatti avvoltoi.. 

Ma poiché abbia memoria delle inconsapevolezze passate, ora e invece, in questo tempo di esilio non ancora finito,  curiamo gemme clandestine sui vecchi rami dell’ulivo:  nuove consapevoli disponibilità  si affacciano al rischio del transitare, per riallineare – al palpito dell’umano condiviso – stili di vita che ancora accorciano e deturpano  la vita di donne e di uomini.

E se raccolgo il ramo di salice sul fiume che scorre, se lego in un unico fascio paure diverse e ferite di ciascuno e ciascuna, se indebolisco orgoglio e viltà, se apro con cuore l’ascolto… (se, se, se…) forse riesco a sentire il sussurro – fragile, indistinto e presente – di una consapevolezza che si è appena messa in marcia uscendo da frontiere disabitate:  non si cambia da soli, da sole, finché non  si chiami  un movimento di danza coerente, un  ritmo che converga nelle vene, cento  sguardi muti e complici, mille e mille passi per reciproche  attese, per parole che  aprano menti, per  un canto che attorcigli  e regga cuori inclinati; proprio in quel cerchio sacro  ove  si scartano  squamose corazze  e  rabbrividiscono all’alba rinascenti nudità.  

È ora di uscire fuori dal binario della ineluttabilità “naturale” e della immutabilità “razionale” che ha ingabbiato nei sepolcri incolori le relazioni tra uomini e donne. Per trovare anche in questo maschio (bianco, occidentale, cristiano) quel fiume carsico di tenerezza e cura che nelle caverne del mondo si accorda con la musica lontana e sempre più vicina di una alterità che dà speranza. Uomini che amano le donne e gli uomini, il ghiaccio e il fuoco, l’erba e la sabbia, il futuro anteriore e il futuro interiore, la carezza e la stretta di mano. Uomini che amano l’amore, anche per sé.

Qui, adesso la vita (vivace mattino nascosto nella tasca segreta) chiama al mutamento: impegno e fatica, tentativi e tentazioni, rischi e metamorfosi: per generare brezza tra le spighe, abbraccio dei tralci, riflesso di umanità di somiglianze felicemente riscoperte da archeologhe del futuro  possibile.

Per una prossima festa pensosa e sensitiva, di uomini e donne, insieme finalmente senza ruoli da altri/e assegnati.

Perché da solo e soli,  io e noi, non possiamo evolvere e non avere paura a dire che siamo innamorati/e e quindi indifesi/e rispetto alla passione, forti e quindi attratti/e dalla diversità, teneri/e  e quindi credibili attori e lungimiranti attrici a generare trasparenti legami. 

Qui depongo le armi e le difese, sono nudo senza più vergogna, ricompongo l’universo: guardo oltre; sul giovane giorno si alzerà il grido di un abbraccio ritrovato, di un esilio finito, di una gioia sopra le macerie inerti. Ormai.  Cuciremo insieme, una gilanica, operosa pace, per vestirci di nuovo plurimo cielo.

 

 



Commenti

  • 25/11/2022 basilem110

    Che brividi di cambiamento, che armonie possibili, che desideri di rinascita: grazie Vanni per questo spaesamento.

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