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Intelligenza artificiale in volo. Se il tuo steward è un «bot»

Il mese di maggio è anche il mese del volo: il 20 e 21 maggio del 1927 Charles Lindbergh compì la prima traversata aerea in solitaria e senza scalo dell’oceano Atlantico e qualche anno dopo, nel 1952 sempre in maggio, il 2 per l’esattezza, avviene il primo volo di linea vero e proprio della storia.

La rivoluzione digitale è ovviamente sbarcata anche in questo settore, anzi esso rappresenta una nuova sfida imprenditoriale. Fanno riflettere le parole di chi si sta occupando di questi temi.

Riflettere e preoccupare. La nuova frontiera è quella di sostituire progressivamente il personale addetto alla cura dei passeggeri con degli strumenti di intelligenza artificiale, dei chat bot. La crisi del settore dovuta alla pandemia potrebbe addirittura accelerare questo processo.

La SITA, una delle maggiori multinazionali del settore, prevede che entro breve si arriverà ad avere rispettivamente il 68% delle compagnie aere e il 42% degli aeroporti che useranno questo tipo di tecnologia.

I fattori in gioco: lavoro e relazionalità

In questo mese di maggio, che si apre nel ricordo di san Giuseppe lavoratore, il lavoro è una delle questioni in gioco che maggiormente preoccupa gli analisti di tutto il mondo.

Prendiamo quota con le parole di san Giovanni Paolo II: «All’inizio del lavoro umano sta il mistero della creazione» (Laborem exercens, n. 12), che sancisce il primato del lavoro sul capitale, qualunque forma di capitale inteso come organizzazione dei mezzi di produzione, compresi gli strumenti di intelligenza artificiale.

Dire il primato della creazione significa anche dire come sia essenziale all’essere umano la sua componente relazionale, sancita dal suo essere creato a immagine e somiglianza di Colui che è relazione sussistente.

Sostituire con un chat bot un assistente di volo non solo significa preferire il capitale al lavoro, azione facilmente spiegata con la necessità di ridurre il personale per massimizzare il profitto, ma significa anche ridurre la relazionalità a strumento meramente funzionalistico.

In altri termini in gioco non c’è solo l’occupazione, c’è anche l’iterazione tra persone e l’umanizzazione che ne deriva. Chiedere e ottenere informazioni è un gesto che, al di là del fine immediato, conserva una struttura relazionale profondamente umanizzante e dopo la pandemia ancora più prezioso.

Viviamo un’epoca in cui le relazioni sono crisi, forse anche perché abbiamo tentato in ogni modo di eliminarle, intermediarle, sterilizzarle con ogni mezzo. Il distanziamento sociale dobbiamo ancora capire che cosa abbia determinato in questo processo, che comunque rischia di non appartenerci più così come eravamo abituati a vivere.

Anche se il lavoro a contatto con il pubblico è tra i più stressanti per diverse ragioni, prima tra tutte il fatto che il rapporto con l’«altro da noi» è il più complesso, tuttavia è anche il più nobilitante, perché rappresenta in variabili diverse una palestra continua di attribuzione di dignità all’altro, a quel che dice, a ciò di cui ha bisogno.

Non vogliamo vedere solo ciò che crolla. Come soleva dire Guardini, facciamo volentieri spazio a ciò che è nuovo, ma a patto che sia sincero. Ben vengano nuove tecnologie capaci di essere più efficienti, ma se fossero in mano al personale e non direttamente agli utenti? Si custodisce il lavoro, i rapporti umani e si restituisce ai clienti un servizio efficiente, empatico ed umanizzante. Costerebbe di più, ma un cliente soddisfatto ritorna più volentieri: ciò che umanizza è remunerativo!

 

Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, coordinatore del Servizio per l’apostolato digitale, docente di Teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità dell’innovazione all’Università di Torino. Ha scritto Incarnazione digitale (Elledici 2019).

 

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