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Ricostruire le relazioni? Partiamo dall’inizio: essere figli

Le cronache non lesinano notizie preoccupanti sul mondo dei giovani. Il consumo di droghe, le violenze sessuali, il bullismo contro i pari ma anche contro gli adulti, il cyberbullismo, gli abbandoni scolastici e simili sono solo alcuni dei segnali di allarme che la popolazione giovanile sta lanciando alla società.

Quest’ultima però sembra essere impreparata a questi fenomeni e risponde moltiplicando e inasprendo leggi e controlli. Ma è questa la strada davvero promettente perché i giovani disorientati di oggi siano adulti maturi domani? Oppure bisogna andare più a fondo e, come adulti di oggi, avere il coraggio di riflettere sulla nostra reale capacità generativa?

Il figlio che è in noi

È evidente che ciascuno è e resta per sempre figlio. Questo è il diritto fondamentale: essere riconosciuto come figlio. Se non riconosce e accoglie questa condizione esistenziale e dunque la stretta relazione con chi l’ha generato, nessuno raggiunge la sua identità.

Il legame con chi ci ha generato non è altro rispetto all’identità, ne è il cuore. I genitori generano biologicamente, ma hanno il compito di generare come persone, di far fiorire il proprio essere come frutto di una relazione generativa non di una riproduzione. Il figlio che ciascuno di noi è – per sempre e per forza – ha una sua dignità che gli viene dal legame generante, dalla sua unicità, dall’appartenere alla sua famiglia ben oltre il ruolo che ricopre e le capacità che ha.

Le relazioni che si intessono lì, nella famiglia, sono allora il modello su cui si costruiscono le altre relazioni nel mondo, nella misura in cui creano le condizioni per dare fiducia, per poter essere riconosciuti e accolti in modo adeguato.

Chi ha sentito di essere figlio ha l’opportunità di rendere familiare l’estraneo, di esportare unità e fiducia. Infatti nessun rapporto interpersonale che prescinda dalla fiducia è strutturalmente possibile, in quanto è destinato a soffocare l’altro sotto le proprie categorie valutative.

Solo se si fa esperienza dell’avere valore si cresce nell’autostima profonda che nasce dall’essere riconosciuti soggetti di dignità, degni. Da questa esperienza affettiva e morale a un tempo, in cui proprio perché riconosciuti da un padre e una madre ci si può riconoscere, si costruisce la propria identità e si diventa a propria volta in grado di dare fiducia e interpretare il futuro in termini di promessa.

Apprendimento e dimensione generativa

I legami genitoriali sani, che esprimono la qualità loro propria di generare persone umane capaci di acquisire un’identità matura che mantiene il desiderio a sua volta di essere generativa, sono la trama di un tessuto sociale promettente.

Infatti solo quando si genera – e non solo in termini biologici – si diventa adulti. I bambini guardano agli adulti, gli scolari ai maestri, l’amico all’amico e così ognuno impara a vivere: al cuore dell’educazione sta la dimensione generativa umana che è genesi e legame, relazione e riconoscimento, interessamento e cura[1].

Detto diversamente, fare l’esperienza di essere figli amati e riconoscersi come tali è condizione da una parte per imparare a dipendere, a riconoscere l’altro da cui si viene e a cui si è debitori della vita e, dall’altra, per aprirsi alla generazione. Permette, cioè, di esistere nella libertà della propria identità.

Solo i figli sono liberi. Infatti generare è un lasciar andare, non trattenere presso di sé in modo che un altro, distinto e differente, prenda vita e si a reso capace di autonomia e responsabilità. Evidentemente ciò suppone una comprensione della vita come dono gratuito, in cui ci si gioca fino in fondo, ma anche si è capaci di farsi da parte per lasciare spazio ad altri che continuino la propria opera[2].

  

[1] Cf Comitato per il progetto culturale della conferenza episcopale italiana, La sfida educativa, Laterza, Bari-Roma 2010.

[2] G. Cucci, «Cosa significa educare?» in La Civiltà Cattolica 2012 II 483-495, 493-494.

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