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Trasformazione digitale: comprensione, non ribellione

L’uomo, dunque, non deve dimenticare che «la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro ... si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio».

Egli non deve «disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma e una destinazione anteriore datale da Dio, che l’uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire». Quando si comporta in questo modo, «invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui».

Così recita il n. 460 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa. Vi sono molte avvisaglie che la natura si stia ribellando alla trasformazione tecnica e in particolare alla rivoluzione digitale compiuta dall’essere umano. L’elemento curioso è che a ribellarsi non è la natura intesa come creato – animali, piante, ecosistema nel suo complesso –, ma la natura umana, l’essere umano stesso. Può sembrare contraddittorio, e in effetti le modalità in cui questo sta avvenendo sono del tutto contraddittorie, ma avviene. Complice la pandemia, che ha accelerato processi e messo sotto severo stress l’intero sistema di correlazioni tra esseri umani e macchine, siamo verosimilmente giunti a un punto di rottura.

Per comprenderlo dobbiamo fare un passo indietro però. Il sistema tecnico di cui la rivoluzione digitale è figlia primogenita, nato con la rivoluzione industriale, ha alcune caratteristiche precise, una in particolare per quanto di nostro interesse in queste considerazioni: si autoalimenta e giustifica.

La tecnologia e la cultura tecnica hanno sempre detto bene di sé stesse, hanno veicolato un’accettazione acritica di qualunque risultato si ottenesse, e anche i fallimenti sono stati sempre gestiti e raccontati come utili per il raggiungimento del risultato finale.

Ne è derivata una concezione formale della tecnica e della scienza come nuove vestali di ogni forma di verità e di bene. Vestali piuttosto gelose come sappiamo, tanto da soppiantare a mano a mano ogni altra forma di fondazione autoritativa quale la religione, la morale, persino la democrazia. La politica è stata sostituita dall’amministrazione e ogni decisione sembra migliore se avallata da un comitato scientifico e tecnico. 

La pandemia, come sappiamo, ha messo a nudo tutte le lacune di tale impianto. Prima di tutte la lacuna epistemologica di fondo: la scienza e la tecnica non possono essere considerate al di sopra di sé stesse, non possono che obbedire a un sano principio di falsificazione e di raffronto con la verità delle cose per essere scienza e tecnica, per rispondere al loro sistema epistemologico di riferimento.

Se il sistema tecnico funziona esteriormente, cioè funzionalmente, esso non si può reggere senza un sottostante sistema valoriale e di senso che lo avalli e culturalmente lo giustifichi. La verità rende liberi, la performance tecnologica affascina, ma alla lunga si rivela per quello che è.

La rivolta al green pass è stato uno dei primi segnali forti in questo senso. Non basta la tecnica a convincere della bontà di una decisione. Per trasformare davvero è necessario educare, convincere, veicolare senso e socializzarlo. La tecnica non lo ha fatto per molto tempo e non può pensare di poter continuare a farlo senza subire delle conseguenze. Per quanto possa essere decisivo e utile il suo apporto deve fare i conti con l’animo umano e la scintilla divina che lo abita, che alla lunga svela i falsi idoli.  

Dobbiamo però notare che tale «ribellione» non è guidata, sorprendentemente, dai giovani. Forse complici alcune paure e difficoltà di base, sono le generazioni non digitali a sentire fastidio oggi per la tecnologia e la sua pervasività, per la cultura tecnica e le sue pretese. Per i giovani, per quanto valore possa avere un’affermazione di massima, lo status quo non è problematico benché sia perennemente fluido.

Non abbiamo qui lo spazio per ulteriormente approfondire il tema, ma è importante segnalarlo per risvegliare la coscienza un po’ sopita delle generazioni adulte rispetto a una loro ulteriore responsabilità nei confronti del futuro, responsabilità da assumere ora. 

Esiste dunque un’adultità da prendere in mano rispetto alla trasformazione tecnologica e alla contigua e seguente trasformazione sociale. Non se ne occuperanno i giovani. Manca loro una visione prospettica dovuta, semplicemente, a questioni anagrafiche, alla mancanza di un passato analogico che possa essere di raffronto e di confronto. Non possiamo demandare a loro tali questioni in nome della loro – presunta – maggiore sensibilità o accortezza. E in nome di una nostra nascosta fatica a riprendere in mano la conoscenza in un necessario e dovuto aggiornamento. 

Non è dunque la ribellione la strada, ma la comprensione, la presa di coscienza piuttosto della presa d’atto. Il dialogo con le generazioni più giovani, non per delegare ma per assumersi insieme la responsabilità del presente. Di essere figli di Dio e padri di quei figli oggi un po’ orfani di futuro e in cerca di paternità e maternità affidabili. 

 

Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, docente di Teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità delle tecnologie emergenti all’Università degli studi di Torino. Ha scritto Incarnazione digitale (Elledici 2019).

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