Attualità, 4/2014, 15/02/2014, pag. 138
Tra sole e luna. Leopardi e Qoèlet
Nel nostro vivere consueto è piuttosto raro essere illuminati soltanto dal notturno chiarore della luna. Peraltro pure le stelle si son fatte meno brillanti di un tempo. La luce artificiale ormai è presente quasi ovunque tanto da essere costretti, pure nel suo caso, a far ricorso alla parola inquinamento. Si tratta, in queste proporzioni, di un fenomeno relativamente recente. Se una sera ci si trovasse a Recanati i nostri occhi non vedrebbero né la «cara luna», né le «vaghe stelle dell’Orsa» con la stessa intensità con cui le scorse Giacomo Leopardi: la luce sarebbe meno diffusa e le «faci» celesti più tenui. Nonostante il grande lasso temporale
trascorso e la differente latitudine, con ogni probabilità non fu invece così grande la differenza tra il cielo notturno visto dal biblico Qoèlet e quello osservato da Leopardi. Eppure proprio la volta celeste potrebbe essere assunta come simbolo della distanza, non solo temporale, che sussiste tra due autori che, per più versi, sembrano far vibrare in noi le stesse corde: «vanitas vanitatum» per l’uno, l’«infinita vanità del tutto» per l’altro.
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