«Attraverso il processo sinodale, lo Spirito ha suscitato la speranza di un rinnovamento ecclesiale in grado di rivitalizzare le comunità, così che crescano nello stile evangelico, nella vicinanza a Dio e nella presenza di servizio e testimonianza nel mondo. Il frutto del cammino sinodale, dopo un lungo periodo di ascolto e di confronto, è stato anzitutto l’impulso a valorizzare ministeri e carismi, attingendo alla vocazione battesimale, mettendo al centro la relazione con Cristo e l’accoglienza dei fratelli, a partire dai più poveri, condividendone le gioie e i dolori, le speranze e le fatiche». Il 19 settembre papa Leone XIV ha partecipato, in quanto vescovo di Roma come egli stesso sottolinea, all’Assemblea della diocesi di Roma.
Nell’occasione ha sviluppato la propria interpretazione del significato della sinodalità, processo di riforma (per Leone «rinnovamento») ecclesiale ricevuto in eredità dal predecessore Francesco, abbracciandolo in pieno e riconducendolo al primato dell’evangelizzazione.
Insieme ha affidato alla diocesi tre compiti: la cura del rapporto tra iniziazione cristiana ed evangelizzazione, il coinvolgimento dei giovani e delle famiglie, «su cui oggi incontriamo diverse difficoltà», e la formazione a tutti i livelli.
Il 14 settembre Leone XIV, presso la basilica papale di San Paolo fuori le mura, ha presieduto una Commemorazione dei martiri e testimoni della fede del XXI secolo insieme ai rappresentanti delle altre Chiese e Comunioni cristiane, e ha tenuto l’omelia che pubblichiamo (www.vatican.va). Insieme alla preghiera in occasione del giubileo dei giovani (4 agosto), si tratta dell’unico evento ecumenico del giubileo.
«Riconosciamo che la chiamata alla sinodalità è un segno dei tempi, che dobbiamo sostenere con convinzione perché è un bene per la Chiesa. Il rischio più grande è quello di perdere l’occasione di realizzare un vero rinnovamento, un rinnovamento di cui tutta la Chiesa ha bisogno per non scomparire. Affinché la sinodalità significhi davvero un passo verso una Chiesa più evangelica e fedele a Gesù Cristo, dovremmo smettere di sentirla come un obbligo, e assumerla come una grande sfida di cui innamorarci, come un orizzonte luminoso per il futuro del nostro ministero».
Intervenendo il 6 settembre al corso di formazione per i vescovi di recente nomina, con una relazione intitolata «Sinodalità: perché no e perché sì», il prefetto del Dicastero per la dottrina della fede card. Víctor Manuel Fernández – già braccio destro e interprete fedele del magistero di papa Francesco – ha chiarito il significato di sinodalità alla luce delle priorità del nuovo pontificato, cioè unità collegiale e missionarietà, riaffermando nel contempo il senso profondo di una delle linee portanti del pontificato bergogliano. Essa infatti è stata assunta e fatta propria anche da Leone XIV, anche se le decisioni finali del processo sinodale sulla sinodalità stessa che si è svolto dal 2021 al 2024 sono ancora tutte da prendere.
«Dobbiamo, come Chiesa italiana e come Chiese europee, portare il nostro sostegno al Continente, per un suo consolidamento come realtà di democrazia, pace e libertà, per la difesa della persona umana in un mondo che appare tanto in movimento. Abbiamo dunque bisogno, oggi più che mai, di esempi concreti come quello di Gorizia per dimostrare che la pace non è un’utopia per ingenui, ma è la vocazione dell’Italia, dell’Europa e di ogni società umana degna di questo nome». Così si è espresso il card. Matteo Maria Zuppi il 22 settembre, aprendo a Gorizia i lavori del Consiglio episcopale permanente in sessione autunnale. L’Introduzione del cardinale presidente si è concentrata prevalentemente sul ruolo delle Chiese in Italia e in Europa per la promozione della pace, con un convinto riconoscimento dell’indispensabile compito del Continente per la democrazia e la difesa dei diritti umani. «L’Europa unita ha reso possibile molte cose... proprio perché si è fondata sulla cooperazione, nella coscienza di avere un destino comune di pace tra i paesi dell’Europa... e del mondo. Questi frutti mostrano come l’Europa esista e sia una via verso il futuro, forse più di quanto i cittadini avvertano a causa della distanza delle istituzioni comunitarie. Non solo l’Italia, ma l’Europa può diventare maestra di pace».
Il Consiglio permanente ha poi approvato il Documento finale del Cammino sinodale italiano, rielaborato dopo la bocciatura della seconda Assemblea sinodale in aprile, e definito il percorso prossimo per il sinodo italiano.
Il 23 settembre a Gorizia, dove si svolgeva l’incontro del Consiglio episcopale permanente, si è tenuta una Veglia di preghiera per la pace, durante la quale è stato firmato e diffuso un Appello per la pace delle Chiese in Italia, Slovenia e Croazia (www.chiesacattolica.it).
Al termine dei lavori della sua sessione autunnale, svoltasi a Gorizia dal 22 al 24 settembre, il Consiglio episcopale permanente della CEI ha approvato la nota Sia pace in Terra santa! (www.chiesacattolica.it).
«La questione dell’unità delle Chiese va ben oltre il livello della comprensione interconfessionale: ha una notevole portata sociale e politica… Ciò che vale per il futuro del cammino comune delle Chiese vale anche per il futuro dell’umanità: per la pace è fondamentale il modo in cui impariamo a gestire in modo costruttivo le differenze e i conflitti e ad approfondire le relazioni con chi sta al di là del confine». Il 14 marzo 2024 la Conferenza episcopale tedesca e la Chiesa evangelica in Germania hanno presentato un documento congiunto sullo sviluppo dell’ecumenismo, in cui sottolineano come la formula dell’unità visibile nella diversità riconciliata, individuata dopo la commemorazione della Riforma del 2017, rappresenti un passo importante verso una convivenza positiva. Il documento, intitolato Più visibilità nell’unità e più riconciliazione nella diversità. Sulle opportunità di un ecumenismo orientato al processo, indica obiettivi, passi e vie per un’unità più visibile e una diversità più riconciliata e cerca soluzioni su come concretizzare la formula dell’unità visibile coniata nel 2017, e si colloca temporalmente tra il 500° anniversario della Riforma e il 500° anniversario della Confessio augustana nel 2030. Sulle questioni molto vive della comunione eucaristica e del ministero «bisogna riconoscere che non possiamo aspettarci una svolta in un prossimo futuro», purtuttavia la situazione attuale non va vista «come un momento di stagnazione ecumenica e di aspettative deluse».
Questo saggio del teologo Alberto Frigerio, professore incaricato di Etica della vita presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Milano, si muove su più livelli. Dal lato antropologico l’autore lega l’allentamento del tradizionale valore dell’ospitalità nella modernità occidentale alla «crisi dell’universale cristiano» e allo sviluppo di una «visione monologica della soggettività», indicando per converso la «soggettività relazionale» di Lévinas e Ricoeur come base di una «filosofia dell’accoglienza ospitale». Sul versante biblico, ci si sofferma su Israele come «emblema dell’umanità straniera ospitata da Dio»: l’atteggiamento ospitale è dunque «imitazione dell’ospitalità divina». Nel Nuovo Testamento, l’ospitalità è accoglienza di Dio (theoxenia) ed esperienza dell’accoglienza trinitaria: nella vita della Chiesa diventa prassi istituzionalizzata.
Viene poi introdotto il concetto di politiche migratorie coi suoi modelli principali, oggi stretti tra la necessità di favorire l’inclusione degli immigrati e di mantenere la coesione sociale. La dottrina sociale della Chiesa afferma lo ius migrandi, ma lo condiziona al «perseguimento del bene comune», peraltro da declinare in senso universalistico. Le conclusioni evidenziano l’urgenza di «una legislazione internazionale» e di un’integrazione basata sulla «comunione nella diversità», alla ricerca di principi condivisi. L’immigrazione consente alla Chiesa di vivere pienamente la cattolicità, l’ecumenicità e il dialogo interreligioso.
Un excursus è dedicato al «carattere tipicamente femminile dell’ospitalità», che trova pienezza in Maria.
«Voi, che siete rimasti fedeli al carisma del vostro fondatore, non avete mai disprezzato la politica. Anzi. Non vi siete rinchiusi nelle sacrestie nelle quali avrebbero voluto confinarvi, ma vi siete sempre “sporcati le mani”. Declinando nella realtà quella “scelta religiosa” alla quale mezzo secolo fa altri volevano ridurre il mondo cattolico italiano, e che san Giovanni Paolo II ha ribaltato, quando ha descritto la coerenza, nella distinzione degli ambiti, tra fede, cultura e impegno politico». Il 23 agosto la presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni è intervenuta al Meeting organizzato annualmente a Rimini da Comunione e liberazione. Il tema di quest’anno era «Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi».
Nel suo ampio discorso Giorgia Meloni ha rivendicato i successi dei primi tre anni del suo Governo, sia in politica estera che nella politica interna, quindi si è rivolta all’uditorio acclamante affermando: «Non sono qui a cercare consenso, sono qui a chiedervi una mano, perché senza luoghi di società viva la politica non ce la può fare». Al tentativo di avvicinamento politico al movimento cattolico ha reagito il 30 agosto Rosy Bindi con una lettera al quotidiano Avvenire, in cui ha chiesto alla presidente «di non coltivare il seme della divisione» all’interno del movimento cattolico italiano, rispettando il pluralismo che lo caratterizza (in questo numero a p. 555).
Il 30 agosto Rosy Bindi, già ministra della Repubblica e presidente del Partito democratico, è intervenuta con una lettera al quotidiano Avvenire
per replicare a quanto affermato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni sui cattolici e la storia politica italiana nel suo discorso al Meeting di Rimini (www.avvenire.it).