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Attualità
Attualità, 16/2017, 15/09/2017, pag. 461

Australia - Chiesa cattolica: guardando a Est

Verso il Concilio plenario nel 2020: dalla crisi della «culture war» a un nuovo modello di Chiesa

Massimo Faggioli

Il mese trascorso in Australia per un secondo ciclo di conferenze su invito del Broken Bay Institute a Sydney, mi ha messo a contatto con una Chiesa scossa da eventi che avranno un profondo impatto sul prossimo futuro: la conclusione dei lavori della Royal Commission istituita «per una risposta istituzionale alle violenze sessuali contro i minori»; il ritorno da Roma del cardinale George Pell, in congedo dal suo ruolo a capo della neonata Segreteria per l’economia creata da papa Francesco, per rispondere di fronte a un tribunale dello stato di Victoria (Melbourne) alle accuse di aver commesso violenze sessuali nella diocesi di Ballarat negli anni Settanta (cf. Regno-att. 14,2017,391); l’annuncio di un concilio plenario per l’Australia nell’anno 2020, il primo dopo quello del 1937.

Il mese trascorso in Australia per un secondo ciclo di conferenze su invito del Broken Bay Institute a Sydney, mi ha messo a contatto con una Chiesa scossa da eventi che avranno un profondo impatto sul prossimo futuro: la conclusione dei lavori della Royal Commission istituita «per una risposta istituzionale alle violenze sessuali contro i minori»; il ritorno da Roma del cardinale George Pell, in congedo dal suo ruolo a capo della neonata Segreteria per l’economia creata da papa Francesco, per rispondere di fronte a un tribunale dello stato di Victoria (Melbourne) alle accuse di aver commesso violenze sessuali nella diocesi di Ballarat negli anni Settanta (cf. Regno-att. 14,2017,391); l’annuncio di un concilio plenario per l’Australia nell’anno 2020, il primo dopo quello del 1937.

Le tre questioni s’intrecciano. È una Chiesa istituzionale impaurita dal caso Pell e dagli effetti che il processo al cardinale potrebbe avere su altre indagini relative alle violenze sessuali commesse da membri del clero: a differenza dalla Chiesa negli Stati Uniti, dove il picco si raggiunse nella decade dopo le rivelazioni del Boston Globe nel 2001-2002, quella in Australia è ancora nel pieno dello scandalo.

La Royal Commission, creata dal governo federale australiano nel gennaio 2013,1 non emetterà sentenze ma entro il 15 dicembre 2017 trasmetterà al governo il proprio Rapporto finale, contenente raccomandazioni rivolte al governo, alle istituzioni, e al paese in senso lato: se la Chiesa non dovesse seguire le raccomandazioni (tra le ipotizzabili: che la Chiesa cattolica in Australia includa donne nelle sue strutture di governo e che modifichi alcuni aspetti della formazione nei seminari dei candidati al sacerdozio) il timore è di un controllo dello stato sul ministero della Chiesa (per esempio, attraverso un registro dei ministri di culto religioso che seguono o meno le raccomandazioni della Commissione).

La questione potrebbe avere ripercussioni su altre Chiese investite dagli scandali, specialmente nel mondo anglofono, ma ha già aperto problemi intricati sul rapporto tra necessità di proteggere potenziali vittime e il diritto alla libertà religiosa: se ne è avuta un’anteprima il 14 agosto con le raccomandazioni pubblicate dalla Royal Commission sulle questioni di diritto penale, tra le quali vi è l’obbligo per il sacerdote di denunciare alle autorità quanto appreso in confessionale –2 raccomandazione alla quale la Chiesa australiana ha reagito energicamente col presidente della Conferenza episcopale, l’arcivescovo di Melbourne, Denis Hart, chiudendo la porta a ogni possibile mediazione e dando, inevitabilmente, l’impressione di una gerarchia insensibile allo scandalo –.

Come ha evidenziato l’ex ministro degli esteri laburista, Bob Carr, al convegno organizzato dal Broken Bay Institute a Sydney,3 il problema è il ruolo di uno stato che definisce le regole di funzionamento interne di una comunità religiosa. Da un lato la Royal Commission potrebbe far risorgere lo spettro del giurisdizionalismo settecentesco; dall’altro lato, un rigetto delle raccomandazioni farebbe della Chiesa un paria della società australiana, sia pure ancora influente e visibile nel sistema scolastico e sanitario grazie anche al finanziamento pubblico.

Qualunque sia la risposta della Chiesa alla Royal Commission, ci si deve attendere una lunga stagione di procedimenti penali a carico di sacerdoti e vescovi, a partire da quello del cardinale Pell. È palpabile la rabbia di molti laici nei confronti della struttura istituzionale e clericale della Chiesa in Australia e del Vaticano.

I laici e l’agenda liberal

La risposta dell’episcopato australiano è stata originale, con la creazione del Truth, Justice, and Healing Council, lanciata poco dopo l’istituzione della Royal Commission e presieduta da Francis Sullivan, un cattolico laico di orientamento progressista e medico di formazione. Dopo la pubblicazione del rapporto della Royal Commission, la commissione Truth, Justice, and Healing Council pubblicherà il suo rapporto: sarà interessante vedere come si porrà nei confronti dell’episcopato, da cui venne creata ma rispetto al quale ha mantenuto un atteggiamento indipendente (per esempio, rifiutando la richiesta di alcuni vescovi di contro-interrogare coloro che erano stati convocati dalla Royal Commission).

La questione giudiziaria s’intreccia a quella ecclesiale. Con Pell è tornato in Australia il più potente «cultural warrior» australiano, vicino agli ambienti teologico-politici tradizionalisti vaticani e statunitensi. L’inizio della fine dell’era Pell in Australia lascia una Chiesa divisa come in America, ma in modo meno profondo e per motivi diversi: è una divisione più ecclesiale e teologica che partitica e politica, anche a causa della secolarizzazione sociale e culturale del paese, di stampo più europeo che statunitense.

Gli ambienti dei laici cattolici più attivi sulla questione pedofilia esprimono un’agenda tipica del cattolicesimo liberal anglosassone: revisione radicale della morale sessuale, riforma del celibato sacerdotale e apertura al sacerdozio femminile. La preparazione del concilio plenario del 2020 si sovrapporrà – e non solo cronologicamente – con il momento più difficile della Chiesa australiana: alle prese coi processi nei tribunali e nella stampa specialmente a partire dalla fine del 2017, e con una agenda politica che ha visto quest’anno porre sul tavolo la legalizzazione del matrimonio omosessuale e dell’eutanasia.

Alla guida del progetto del concilio plenario del 2020 c’è l’arcivescovo di Brisbane, Mark Coleridge (che dal 1997 al 2001 è stato a Roma in Segreteria di stato, poi dal 2006 al 2012 arcivescovo nella capitale Canberra), che spicca in un episcopato australiano molto composito: vescovi espressione dell’era Pell; vescovi provenienti dall’era precedente ma con un nuovo orientamento nella Chiesa di Francesco; vescovi nominati da Francesco e che incarnano la Chiesa di Francesco, come quello di Parramatta, Vincent Long Van Nguyen ofm conv, giunto dal Vietnam coi boat people, che nel febbraio scorso ha rilasciato alla Royal Commission una toccante testimonianza della violenza sessuale da lui subita.5

I cattolici australiani col concilio plenario del 2020 hanno l’occasione di cambiare rotta rispetto a una narrazione dominata dalle violenze sessuali: ma per farlo devono affrontare sfide epocali.

A causa dello scandalo provocato dalle violenze, anche il cattolicesimo conservatore si attende cambiamenti strutturali radicali dalla Chiesa in Australia. Ci sono segnali dell’inizio di una collaborazione tra l’episcopato, il laicato, gli ordini religiosi, gli istituti di formazione teologica per la preparazione del concilio del 2020.

Multiculturalismo reale

L’Australia di oggi ha un volto più sfaccettato anche dal punto di vista ecclesiale rispetto alla storica dialettica tra la «vecchia signora» Melbourne (la storica capitale culturale, anche per il cattolicesimo) e Sydney (la capitale cosmopolita).

I recenti scandali che hanno investito la Chiesa hanno avuto luogo in un paese in via di mutamento, fenomeno visibile non solo attraverso gli infiniti cantieri per la costruzione di grattacieli nelle grandi città, ma percepibile dal contesto geopolitico in cui l’Australia si muove: la demografia e i flussi migratori sospingono l’Australia e la Chiesa australiana verso l’Asia, cioè verso la geografia di cui fa parte, e tendono a ridefinire i legami storici con il Regno Unito e l’Irlanda da una parte e gli Stati Uniti dall’altra.

Il paesaggio religioso vede la crescita dell’islam come seconda religione del paese, dopo il buddhismo (fino a poco fa la seconda), e l’induismo: è una diversità religiosa particolarmente visibile nelle città.

Al contrario degli USA, in Australia la società, la politica e la Chiesa hanno riconosciuto la loro natura di «settlers» – colonizzatori – nella storia della nazione e il carico di tragiche ingiustizie da riparare, specialmente nei confronti delle popolazioni presenti nell’isola da circa 65.000 anni. La dominante radice cattolica irlandese ed europea ha lasciato spazio a una Chiesa più multietnica che negli USA e in Canada: circa 120.000 «aborigeni» (indigenous) sono cattolici; il cattolicesimo ora ha una importante e crescente componente filippina, indiana, vietnamita, africana.

Un fenomeno tipico australiano è l’importazione massiccia di clero da altri paesi, specialmente da Asia e Africa, con risultati talvolta dannosi per le comunità locali; ma questa è una soluzione impraticabile nel lungo periodo. Una delle differenze con la Chiesa negli Stati Uniti è la mancanza in Australia di una tradizione di parrocchie «etnico-nazionali» e una struttura fortemente territoriale. La somiglianza con la Chiesa nordamericana è la storia di una Chiesa immigrata alla fine dell’Ottocento, le cui strutture sono state costruite in buona parte da ordini religiosi femminili e maschili.

Il rimescolamento etnico e culturale della Chiesa australiana s’intreccia alla situazione politica. Le politiche del governo federale verso immigrati e rifugiati (per certi versi più dure di quelle degli Stati Uniti) vanno lette nel contesto di una crescente visibilità del partito xenofobo di Pauline Hanson, il One Nation Party (4% alle elezioni del luglio 2016) e di segnali di rigetto del multiculturalismo religioso.

Istituzioni cattoliche e secolarizzazione

Nella politica australiana i cattolici sono presenti. L’attuale primo ministro, il liberale Malcolm Turnbull, è un presbiteriano convertito al cattolicesimo nel 2002; l’ex primo ministro liberale Tony Abbott è un cattolico educato dai gesuiti, come l’attuale capo dell’opposizione laburista, Bill Shorten, passato all’anglicanesimo in occasione del suo matrimonio nel 2009. La prospettiva del prossimo referendum sul matrimonio omosessuale sta dividendo il paese (a partire dall’ex premier Abbott e dalla sorella, attivista nel movimento LGBT, che sono su posizioni opposte).

La questione centrale per la Chiesa australiana non è politica ma di missione. Alle usuali divisioni tra clero e laici, e tra laici ultracinquantenni e i giovani secolarizzati, si sovrappongono le conseguenze di un sistema ibrido pubblico-privato di finanziamento alla scuola cattolica e agli ospedali cattolici. Il finanziamento pubblico alle scuole cattoliche (ora in via di revisione da parte del governo conservatore) garantisce l’accesso ai servizi a una gran parte della popolazione (una popolazione molto più ampia e socialmente-etnicamente più inclusiva che negli Stati Uniti: circa il 20% degli studenti australiani frequenta una delle oltre 1.700 scuole cattoliche), ma allo stesso tempo ha sbiadito il carattere cattolico di queste organizzazioni.

Non è un problema di presenza ormai rilevante di studenti non cattolici (anche musulmani) in queste scuole, ma di dirigenti e corpo docente. A dire degli stessi dirigenti di scuole cattoliche, solo un 10%-20% dei propri insegnanti sono cattolici praticanti. La sanità cattolica in Australia (75 ospedali e 550 case di riposo: il più grande fornitore di servizi sanitari) ricopre un ruolo centrale nel paese, specialmente per le fasce più povere, e ora si trova a gestire la transizione dagli ordini religiosi che fondarono gli ospedali a una gestione data in mano ai laici (ancora una volta, solo una minoranza di laici cattolici praticanti).

Un australiano su dieci si affida alla sanità cattolica, e la sfida è gestire questa transizione nel contesto di una sanità cattolica chiamata a fornire prestazioni ai marginali in una società sempre più multiculturale e multireligiosa.

Questo pone la questione della formazione in primo piano. La teologia australiana vive del contatto con il mondo anglofono – le isole britanniche e gli USA; ha molte istituzioni di formazione teologica ma frammentate e in competizione tra loro – in una Chiesa che soffre della mancanza non solo di clero ma anche di laici qualificati e di docenti in alcune materie.

La chiusura per mancanza di iscritti del John Paul II Institute for Marriage and Family a Melbourne, annunciata nell’ottobre 2016, è uno dei segnali della crisi in Australia del modello americano di «culture war». Ma parte rilevante del giovane clero e dei giovani cattolici sono parte del movimento neo-tradizionalista. Il futuro è tutto da costruire: i prossimi tre anni fino al concilio del 2020 saranno decisivi e i prossimi dodici mesi, con le ricadute del rapporto della Royal Commission, potrebbero cambiare lo scenario in modo significativo.

 

Massimo Faggioli

 

 

1 Cf. http://www.childabuseroyalcommission.gov.au.

2 Raccomandazione n. 35, rapporto del 14 agosto 2017, in http://www.childabuseroyalcommission.gov.au/about-us/our-reports.

3 «Gospel Leadership in Times of Chaos: the Hope of Pope Francis» (10.8.2017), cf. http://www.bbi.catholic.edu.au.

4 Degli 11 membri della commissione, 5 sono donne e 2 sono vescovi: Mark Coleridge di Brisbane e Bill Wright di Maitland-Newcastle. Cf. http://www.tjhcouncil.org.au.

5 «Catholic bishop calls on Church to accept homosexuality», in The Australian, 7.9.2016, http://www.theaustralian.com.au.

6 Cf. http://www.natsicc.org.au.

Tipo Articolo
Tema Pastorale - Liturgia - Catechesi
Area OCEANIA
Nazioni

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