A
Attualità
Attualità, 20/2017, pag. 580

Italia -Teologia: sperare la giustizia

Moltmann: la libertà in Cristo e il Vangelo delle vittime  

Jürgen Moltmann

Il testo La libertà del cristiano appartiene ai grandi scritti riformatori di Martin Lutero, insieme alle opere La cattività babilonese della Chiesa e Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, e risale all’anno 1520. Allora ebbe immediatamente ampia diffusione e colpisce ancora oggi il mondo cristiano.

 

Il testo La libertà del cristiano appartiene ai grandi scritti riformatori di Martin Lutero, insieme alle opere La cattività babilonese della Chiesa e Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, e risale all’anno 1520. Allora ebbe immediatamente ampia diffusione e colpisce ancora oggi il mondo cristiano. Ha fatto del cristianesimo evangelico la «religione della libertà», come sostenne Hegel con orgoglio nel XIX secolo. Ci ha insegnato a vivere l’esperienza di Dio in comunione con Cristo come un’immensa esperienza di libertà.

Il vasto effetto persuasivo di questo piccolo «trattato», come Lutero chiamava il suo scritto, non si nota. È uno scritto dedicato, in maniera decisamente provinciale, al vicario del principe della piccola città di Zwickau, dove un certo Magister Agran nel 1520 teneva già prediche evangeliche. Lutero era ancora un monaco «agostiniano» e si definiva lui stesso così. Il suo trattato è costruito secondo le regole accademiche come una disputazione: Lutero pone a confronto due tesi, che sembrano contraddirsi.

Secondo la prima, un cristiano è un libero signore sopra ogni cosa e non è sottoposto a nessuno. Per la seconda, un cristiano è un servo volenteroso in ogni cosa, e sottoposto a ognuno.1

In queste due tesi Lutero vuole esporre «la libertà che Cristo ha acquistato per noi e ha a noi donato»: ottenuta in croce, donata nella Parola e nel sacramento. Poi scioglie questa apparente contraddizione in trenta paragrafi, per annunciare nel trentesimo una conclusione che suona come un giubilo: «Ecco, questa è la vera libertà spirituale, cristiana, che fa libero il cuore da tutti i peccati, le leggi e i comandamenti; che supera ogni altra libertà, come il cielo la terra».

Ripercorrerò brevemente il corso dei suoi pensieri e lo commenterò in rapporto all’attualità. Nella seconda parte del mio intervento, però, voglio completare la dottrina di Lutero sulla liberazione degli autori dei peccati attraverso Cristo con la mia visione della liberazione delle vittime attraverso Cristo.

Il ragionamento di Lutero

Per sciogliere la contraddizione tra libertà e servitù, Lutero parla innanzitutto di due nature di ciascun cristiano: la natura spirituale interiore e la natura corporea, esteriore. Per quanto riguarda l’anima il cristiano viene chiamato «uomo spirituale, nuovo, interiore», per quanto riguarda la carne e il sangue, però, è definito «uomo corporale, vecchio ed esterno».

Lutero qui riesce a comporre il dualismo platonico di anima e corpo con il conflitto paolino tra uomo vecchio e nuovo, tra spirito e «carne» (e come Agostino li confonde). Con ciò vuole dire che nessuna cosa esteriore può rendere l’uomo interiormente libero o prigioniero. Libertà e malvagità sono corporali ed esteriori: «Nessuna di queste cose arriva fino all’anima per liberarla o imprigionarla, per renderla pia o malvagia». Portare abiti consacrati o civili non aiuta né danneggia l’anima.

Fin qui la tesi non suona propriamente biblica, ma Lutero vuole mostrare che l’anima in cielo e in terra per essere «pia, libera e cristiana» non ha nient’altro che il santo Vangelo, la parola di Dio predicata da Cristo (§ 5). Là dove l’anima ha la parola di Dio è libera e beata.

Qual è però questa parola di Dio? Come dice Lutero, è la parola di Cristo che ti comanda di darti con fede salda così che i tuoi peccati debbano esserti perdonati in forza della tua fede, la tua perdizione superata e tu sia giusto e libero. La vera, giusta fede (der rechte Glaube) in Cristo porta con sé ogni beatitudine e scaccia da noi ogni tristezza.

Che cos’è però la vera, giusta fede? Lutero non intende qui la fede in senso passivo, bensì attivo al massimo grado: tra gli uomini contano fedeltà e fede. Quando dico: ti credo, allora ti riconosco, ti considero veritiero e ti dimostro con la mia fiducia il più alto riconoscimento. Ti do ragione e onoro il tuo nome.

Se non mi fido di un’altra persona allora la ritengo bugiarda, sleale e inaffidabile, e questa è la più grande offesa che io possa farle: la rifiuto. Quindi se io credo in Dio mi fido di lui, gli do ragione e lo giustifico nella sua parola. Una simile fede in Dio soddisfa il primo comandamento ed è la giustificazione di Dio per mezzo degli uomini.

A questo punto arriva la conclusione di Lutero sulla reciprocità di Dio e fede: «Ma quando Dio vede che l’anima gli riconosce la verità e così lo onora con la sua fede, egli la onora di ritorno e la tiene anch’essa per pia e verace». L’anima giustifica Dio con la sua fede in lui e Dio giustifica l’anima con la sua grazia.

Lo strumento è la parola di Dio, in cui Cristo arriva all’anima. «Chi si attiene alla Parola con vera fede si unisce a Dio così interamente e saldamente che tutte le virtù della Parola diventano proprie anche dell’anima». E così l’anima diventa figlia di Dio (§ 10).

Nel § 12 Lutero porta il pensiero del ricongiungimento dell’anima con Dio nella fede al suo punto culminante. Da buon agostiniano riprende l’immagine mistica del matrimonio dell’anima con Cristo, suo sposo celeste. Se l’anima diventa «simile» (gleich) alla parola divina, allora la fede unisce l’anima con Cristo stesso come «una sposa con il suo sposo». Diventano un corpo solo.

Si tratta però di un’unione che mantiene la reciprocità: quel che appartiene a Cristo diventa proprio dell’anima; e quel che appartiene all’anima diventa proprio di Cristo. A Cristo appartengono ogni bontà e beatitudine, che diventano propri dell’anima; all’anima appartengono tutti i vizi e i peccati, che diventano propri di Cristo. 

Tutto è vostro ma voi siete di Cristo

È questo il famoso «felice scambio»: Cristo assume su di sé i peccati, la dannazione e la tristezza dell’anima e li annega; l’anima si libera da tutti i peccati con la sua fede e riceve la giustizia di Cristo. «Non è forse questo un felice connubio, che il ricco, nobile e virtuoso sposo Cristo prenda in sposa la povera, disprezzata, malvagia, piccola meretrice, e la liberi da tutti i mali adornandola con tutti i beni? Allora non è possibile che i peccati la dannino, perché essi ora riposano sul Cristo e sono in esso assorbiti». Il colpevole non deve essere eternamente un «colpevole».

Il mio commento: Lutero inizia il suo trattato con il percorso agostiniano su Dio e l’anima. Poi approfondisce l’immagine relativa allo strumento (das Medium) che congiunge Dio e l’anima: la parola di Dio e la fede dell’anima. L’anima s’imprime nella mente la parola di Dio e ne assume la forma, la sua fede riconosce la fedeltà di Dio e gli dà ragione. Da questo consegue la reciproca giustificazione di Dio e dell’anima.

Dio e anima si riuniscono in Cristo e diventano tutt’uno. Questa per Lutero non è però una mistica trascendentale dell’anima, ma il reale riconoscimento di Cristo: nel suo soffrire e morire in croce Gesù Cristo assume su di sé i peccati del mondo, per dare ai credenti la libertà della sua risurrezione e la pienezza della vita.

Il «felice scambio» non avviene nella solitaria vetta dell’anima, che si fonda sul mistero di Dio, come nella mistica medievale o nei moderni esercizi spirituali, ma nella fede attraverso il fatto che Cristo coinvolge l’anima credente nella sua passione e nella sua risurrezione. In croce prende i suoi dannati peccati su di sé, nella risurrezione le dà la sua libertà e la sua vasta vita. Così Lutero ha spezzato l’esilio della teologia spirituale di Agostino. Nel § 12 si dà a vedere la sua rottura riformatrice verso la teologia di Cristo.

Il «cristiano del futuro» dovrà essere un «mistico», come ha sostenuto Karl Rahner? Io non credo. Sono molto più convinto di questo: il «cristiano del futuro» sarà il cristiano stesso. Egli riconoscerà Cristo, colui che lo libera da tutti i peccati, le dannazioni e le tristezze e che lo porta con sé sulla sua via verso la risurrezione e la pienezza della vita. I «cristiani rivolti al futuro» vivranno nella fede dall’esperienza di Cristo, tutto il peso della colpa e la tristezza li abbandoneranno, diventeranno giusti, saranno «buoni, integri e belli», come mia moglie Elisabeth Moltmann-Wendel esprime la nuova autocoscienza femminista, perché Cristo è diventato la loro vita.

Per tornare a Lutero: «Un cristiano è un libero signore sopra ogni cosa e non è sottoposto a nessuno», così è formulata la sua prima tesi. Sappiamo ora come viene intesa? Non è affatto una formula di dominio sul mondo: «Non già che siamo proprio padroni corporalmente di tutte le cose per possederle o usarle come fanno gli uomini sulla terra. Perché dobbiamo morire corporalmente, e nessuno può sfuggire alla morte».

È intesa come signoria spirituale e come forza interiore rivolta verso la vita. Attraverso la fede tutti i cristiani sono con Cristo «re e sacerdoti», elevati in alto su tutte le cose, perché tutte le cose sono loro sottoposte, in quanto li sostengono nel raggiungere «la beatitudine». Lutero cita perciò le pertinenti parole di Paolo:

«Tutto è vostro: (…) il mondo, la vita, la morte (…) Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,21-23).

«Tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28).

«Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 38s).

Tutto concorre al bene

Il motivo più profondo, però, per il quale tutte le cose sono «sottoposte» ai cristiani nel senso che devono servire loro per raggiungere la beatitudine è individuato da Lutero nella vittoria della vita sulla morte e sulle potenze di morte che avviene grazie alla risurrezione secondo 1Cor 15,55.57: «La morte è stata inghiottita nella vittoria (…) Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!».

Lutero non intende quindi alcun dominio di tipo politico, né attraverso un impero cristiano, né attraverso la globalizzazione, bensì un’esperienza di vita superiore nella fede: «Tutte le cose» – con ciò intende tutto quel che mi accade o tutto quel che io faccio: la vita e la morte, il desiderio e la sofferenza–.

«Nessuna cosa è così tanto buona o così tanto cattiva; deve servirmi per raggiungere il bene. Guarda, questa è una libertà e un potere prezioso dei cristiani», dice Lutero. Questo rimanda ad Agostino, che si domandava criticamente: «Anche i miei peccati?» e nella fede rispondeva: «Sì, anche i miei peccati!».

Grazie alla fede tutti i cristiani sono con Cristo «re e sacerdoti». Sono re, perché per loro «tutto concorre al bene». Sono sacerdoti, perché si presentano davanti a Dio e perché intercedono per altri. Lutero considera il «comune sacerdozio di tutti i credenti» più importante del loro regno: «Per la sua regalità il cristiano è padrone di ogni cosa; per il suo sacerdozio ha potere sopra Dio. Poiché Dio fa ciò che egli domanda e vuole» (§ 16).

Ci si possono davvero aspettare cose tanto grandi dalla fede umana? Dal punto di vista teologico Lutero attribuisce alla fede tutto ciò che abbiamo riferito sin qui, ma anche lui conosce le debolezze della fede di cui facciamo esperienza. Perciò punta sul cominciare nella fede, sul crescere e diventare più intensi in vista del compimento nell’«altro» mondo che è il mondo futuro di Dio.

«Qui, sulla terra, vi è e permane soltanto un inizio e un crescere, che sarà portato a compimento nell’altro mondo». «La fede deve crescere sempre fino all’altra vita». Perché qui i credenti sperimentano solo «i primi frutti dello Spirito». In cosa consiste allora questa crescita e intensificazione nella fede, che in Cristo ha già tutto?

Qui Lutero introduce la seconda tesi: «Un cristiano è un servo volenteroso in ogni cosa, e sottoposto a ognuno». Sebbene l’uomo sia già interamente giustificato attraverso la fede, egli resta però sulla terra, deve governare il proprio corpo e relazionarsi ad altre persone: «Ora, qui hanno inizio le opere». Giusto e beato nella fede, il cristiano le compie «gratuitamente in libero amore» del prossimo. Non compie più buone opere per dare conferme a se stesso, e nemmeno per ottenere riconoscimento, perché il proprio sé è già giusto e buono, riconosciuto e felice nella fede. Si fa tutto solo per amore del prossimo. Questo è il puro amore privo di ego.

Distinguere la persona dalle opere

Lutero ricorre perciò all’immagine del buon albero e ai suoi buoni frutti e distingue persona e opera. Le buone opere non rendono mai un uomo buono; ma un uomo buono fa una buona opera. Quel che diceva all’inizio dell’anima vale ora per la persona umana: «La persona dev’essere già buona e pia prima di ogni opera buona, e buone opere seguono e provengono dalla pia, buona persona (…) Le opere, buone o malvagie, non rendono la persona buona o malvagia, ma lei stessa fa buone o cattive le opere» (§ 23).

Una buona casa non fa un buon carpentiere, ma un cattivo carpentiere fa una pessima casa. La persona però diventa giusta, libera e buona grazie alla fede in Cristo. «Ma la fede, come rende pio, così fa anche opere buone».

Ecco il mio commento. Ritengo che tale distinzione tra persona e opera sia importante anche oggi: noi identifichiamo sempre la persona dell’altro con le sue opere: chi mente una volta è un mentitore; chi uccide una volta è un omicida. In questo modo fissiamo le persone al loro passato e sottraiamo loro il futuro.

Nella fede cristiana è molto diverso: distinguiamo la persona dalle sue opere malvagie, giudichiamo gli atti malvagi, ma rispettiamo la persona, che Dio ama e per la quale Cristo è morto. Detto in generale: rispettiamo la dignità personale di ogni uomo, indifferentemente dal fatto che lui o lei si trovi in prigione o in Parlamento. Consideriamo aperto il suo futuro e confidiamo nelle sue possibilità di cambiare la propria vita.

Tornando a Lutero: tutte le buone opere sgorgano dall’amore privo di ego, per dedizione verso il prossimo. Questo è inteso con l’idea che il cristiano debba essere «sottoposto a ognuno». Egli serve il prossimo per amore del prossimo, perché egli nella fede ha perso tutto l’amore egocentrico e tutto il disprezzo per sé stesso. Quindi è «interamente libero» di farsi volontariamente servo del suo prossimo e di trattarlo così come Dio ha trattato lui in Cristo.

«Vedi, così sgorga dalla fede l’amore e la gioia verso Dio, e dall’amore una libera, volenterosa, lieta vita per servire il prossimo gratuitamente» (§ 27). Dio ci ha aiutati gratuitamente, perciò anche noi aiutiamo gratuitamente, di nostra iniziativa e non per reciprocità: come a me così a te. L’amore agisce sempre anticipando ed essendo in questo libero, creativo e generoso.

Alla fine giunge la ricapitolazione del trattato: «Un cristiano non vive in sé stesso, ma in Cristo e nel suo prossimo: in Cristo per la fede, nel prossimo per l’amore. Per la fede sale al di sopra di sé in Dio; da Dio torna a scendere al di sotto di sé per l’amore; e rimane pur sempre in Dio e nel divino amore».

Per dirlo semplicemente: un cristiano è fuori di sé, sia per la fede in Dio, sia per l’amore nella persona amata. È fuori di sé per la gioia di essere trovato da Cristo e amato da Dio.

Liberazione delle vittime

Nella seconda parte voglio tentare di traslare «la libertà del cristiano» di Lutero dalla libertà degli autori del peccato nella fede alla libertà delle vittime del peccato nella fede. La giustificazione degli autori del peccato deve procedere di pari passo alla giustificazione delle vittime del peccato, se la giustizia di Dio deve essere dispiegata.

Il Vangelo dei peccatori è chiaro, ma c’è anche un Vangelo delle vittime? Nel contesto culturale europeo siamo unilateralmente orientati ai colpevoli, agli autori del peccato. Il Dio d’Israele però non dimentica le vittime del male, perché Cristo stesso si è fatto vittima delle potenze empie e malvagie del mondo.

Già l’apostolo Paolo, però, che ha infatti influenzato molto Lutero, era orientato agli autori del peccato e obliava le vittime. Così confessa con attitudine autocritica e con sincerità nella Lettera ai Romani: «Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me» (Rm 7,19s).

Qui Paolo spiega il peccato come una potenza sovrapersonale e presenta se stesso come servo del peccato. Rimprovera la propria servitù nel peccato e onora Cristo che lo ha liberato da quella servitù. Questo va bene, ma perché lui si occupa solo di se stesso e non delle sue vittime, alle quali è stato fatto del male e alle quali il bene è mancato? Qui si apre una grande lacuna nella dottrina della grazia del cristianesimo che va da Paolo fino a Lutero.

Se confrontiamo le sue affermazioni sul «peccato che abita in me», e di cui è servo, con il Gesù dei Vangeli sinottici salta agli occhi il fatto che il primo sguardo di Gesù cadesse sui poveri, sugli ammalati e sugli esclusi del suo popolo e che sentisse compassione del povero popolo (cf. Mt 9,36).

Gesù non considera solo i sottomessi, ma le vittime del peccato e porta loro il messaggio liberante del regno di Dio, che appartiene già loro. Se prendiamo in mano i Salmi scopriamo che la giustizia di Dio è una giustizia riparatrice per le vittime di «ingiustizia e violenza»: «porta giustizia a coloro che soffrono violenza».

La giustizia di Dio non è soltanto una giustizia che stabilisce il bene e il male e nemmeno soltanto una giustizia che ripaga il bene con il bene e il male con il male, ma è una giustizia creatrice, riparatrice (Recht-schaffende, cioè che ricrea la giustizia) e ordinatrice. Questo s’intende con la locuzione riformatrice «giustificazione» (Recht-fertigung): iustitia iustificans. Ci interroghiamo ora sulla giustificazione delle vittime del peccato.

Lutero nel suo scritto sulla libertà aveva davanti agli occhi solo gli autori e i servi del peccato. Perciò considerava gli uomini esclusivamente come soggetti dei loro atti buoni o cattivi, ma non considerava la loro sofferenza per gli atti malvagi di altri uomini. Per Lutero tutto procede dall’interno all’esterno, dall’anima al corpo, dall’albero ai frutti, dalla persona alle sue opere, e non viceversa.

Le vittime dell’ingiustizia e della violenza però non sono soggetti del loro fare, ma diventano oggetti e vittime di un agire estraneo. Non seguono la propria volontà, ma sono esposti alla volontà malvagia di altri uomini. La loro anima viene ferita dall’esterno, è esposta all’umiliazione, all’offesa, alla violenza, alla persecuzione e alla distruzione della loro autostima e del rispetto di sé.

Dio com-passionevole

La loro persona non è superiore, ma abbandonata alle opere malvagie dei loro persecutori. La loro anima viene traumatizzata da ciò che li opprime contro la loro volontà. Come possono liberarsi le vittime del peccato dall’empio potere e dal peccato distruttivo? Come Dio ricrea giustizia per coloro che patiscono violenza? Sono salvati grazie a Cristo dalla loro umiliazione?

Lutero diceva che l’anima è congiunta a Dio grazie alla sua Parola. È però congiunta a Dio anche grazie al suo Spirito. Dio prende parte alle gioie e ai dolori dell’anima con il suo Spirito, perché Dio è amore e lo spirito dell’amore è la sim-patia (Sympathie).

Un’espressione forte per la simpatia divina è la compassione e la misericordia di Dio, che patisce con noi e insieme a noi (Mitleidenschaft, Mitleiden). Dio non è un Dio apatico e indifferente nel cielo lontano. Il Dio d’Israele è pieno di passione sulla terra, si adira e ama e condivide il destino del suo popolo. Ciò che contrasta Israele, contrasta anche il suo Dio. Il Dio di Gesù Cristo è pieno di amore. La storia di passione di Cristo è anche la storia di passione del Padre di Gesù Cristo.

La comunione dell’anima con Dio è una unio sympathetica, una comunione del compatire (Mitleiden). Dov’è Dio? Dio vive nel cielo e presso coloro i cui cuori sono infranti (cf. Is 57,15). Dio è il Dio degli dei e crea giustizia per le vedove e gli orfani. Dio è elevato e vede colui che sta più in basso di tutti. Sostiene gli uomini con i loro dolori e peccati.

«God is the fellow-sufferer who understands» (Dio è il compagno di sofferenza che comprende), scrisse il matematico Alfred North White-
head nel suo dotto libro Process and Reality quando suo figlio morì a 21 anni.

E così recita questo inno anglicano: «And when the human hearts are breaking Under sorrow’s iron rod, Then there is the selfsame aching Deep whitin the heart of God» (E quando i cuori umani si spezzano sotto la verga rovente del dolore, allora c’è lo stesso identico profondo dolore nel cuore di Dio).

Lutero ha parlato di «felice scambio» tra i peccati dell’anima e la giustizia di Cristo. La passione di Cristo è però innanzitutto una solidarietà confortante con le vittime del peccato. I Vangeli raccontano la storia della passione come la sua via nel destino delle vittime. Viene preso prigioniero. Viene perseguitato, viene abbandonato dagli amici, i sacerdoti del suo popolo lo abbandonano.

I romani lo portano crudelmente alla morte in croce come un rivoltoso contro l’impero romano e un nemico del genere umano. E Cristo va dal Getsemani al Golgota nella notte oscura dell’abbandono. Colui che era venuto per cercare gli abbandonati diventa egli stesso un abbandonato, per ritrovarli.

Dio va laddove va Cristo, Dio stesso era in Cristo, Gesù nel suo itinerario di passione porta Dio alle vittime, che sono umiliate, tormentate e abbandonate tanto quanto lui. E le vittime di ingiustizie e di atti violenti possono riconoscere in Cristo il loro fratello divino nel loro stesso bisogno. Il Cristo contestato e morente diventa fonte di conforto per gli uomini contestati e morenti. Con la propria consegna alla morte nell’abbandono di Dio, Cristo porta Dio agli abbandonati da Dio.

La croce di Cristo sul Golgota sta tra le innumerevoli croci che costeggiano i sanguinosi percorsi dei colpevoli nella storia disumana, da Nerone ai lager di morte di Hitler, dagli annientati nell’arcipelago Gulag ai desaparecidos nelle dittature militari latinoamericane.

La sua croce è un segno del fatto che Dio prende parte al dolore delle vittime abbandonate e nel nostro abbandono è presso di noi. «Solo il Dio sofferente può aiutare» scriveva Dietrich Bonhoeffer dalla sua cella di morte.

Le vittime non devono rimanere «vittime»

Dall’identificazione di Cristo con le vittime del peccato diventa comprensibile l’enorme drammaticità dell’immagine del «giudizio finale» (Mt 25): gli «affamati, assetati, stranieri, nudi, malati e prigionieri» sono sue sorelle e fratelli: «quel che avete fatto loro lo avete fatto a me», perché «ero affamato… assetato… prigioniero». S’identifica così tanto con le vittime, che giudicherà secondo quel che è stato fatto loro.

Giudica i colpevoli di fronte alle loro vittime, che sono presso di lui. Questa è la cristologia della solidarietà, che reca conforto e che la nostra tradizione cristiana per lungo tempo ha ignorato. Se si volesse assumere il discorso di Lutero, si potrebbe dire: con la fede, l’anima ferita, umiliata e abbandonata si riunifica e Cristo prende l’anima tormentata tra le sue braccia, prende su di sé il suo dolore e la sua tristezza, per accoglierla nella sua risurrezione e renderla beata nella pienezza della vita.

Che cosa significa questo in pratica? Per gli autori del peccato abbiamo il sacramento della confessione e il perdono dei peccati, la confessione di colpa, il pentimento e la riparazione. Per le vittime del peccato d’ingiustizia e violenza non abbiamo niente di paragonabile. Faccio una proposta secondo le mie esperienze.

a) Solo la verità può rendere libere le vittime. Le vittime d’ingiustizia e violenza non devono solo uscire dal dolore che è stato loro inferto, ma anche dalla loro umiliazione. Per le vittime di violenza sessuale si aggiunge la vergogna alla violazione che hanno subito. Questo serra loro la bocca spesso per tutta la loro vita. Hanno bisogno innanzitutto del riconoscimento della loro dignità di persone e del riconoscimento dell’ingiustizia che hanno sofferto. Hanno bisogno dello spazio protetto dell’amore, per diventare consapevoli di ciò che è accaduto.

Disprezzo e compassione di sé non aiutano. Solo la riguadagnata autostima e il rispetto di sé sollevano le vittime al di sopra di ciò che hanno subito. La confessione di colpa dei colpevoli può aiutare. Le vittime però non devono attenderla, perché devono liberarsi dalla fissazione sull’essere vittime e prendere in mano la loro vita. Non devono rimanere eternamente «vittime».

Dopo essersi sollevate dalla profondità dell’umiliazione nella vastità dell’accettazione positiva della vita, il passo seguente porterà a superare il male penetrato nella vita contro la propria volontà. Chiunque abbia sperimentato ingiustizie fa sogni vendicativi, ma sa anche che la vendetta non fa altro che aumentare il male subito: il male continuamente riproducentesi deve partorire (Goethe).

«Non lasciarti vincere dal male» consiglia Paolo (Rm 12,21). Non vendicare quindi il male con il male. Chi uccide l’uomo che ha ucciso è a sua volta un uomo che uccide. «Vinci il male con il bene», prosegue Paolo. Non si occupa dei colpevoli, ma del male, di cui è diventato servo e che può combattere solo con il bene.

Quando lo facciamo non aiutiamo solo i servi del male a liberarsi dal male, ma facciamo qualcosa di buono anche a noi stessi: liberiamo la nostra anima dalla vergogna e dall’onta, dall’odio e dalla vendetta e da tutti i brutti sogni che ci tormentano. Il perdono della colpa è il diritto regale delle vittime, esso le solleva al di sopra dei colpevoli e le rende sovrane e libere signore di tutte le cose, non sottomesse a nessuno.

In conclusione voglio osare una mia propria tesi sull’essere cristiano. Perché Lutero aveva trattato nel suo scritto solo la libertà nella fede e la disponibilità al servizio nell’amore. E dove resta la speranza? Dunque io dico: un cristiano è un erede del futuro di Dio, il futuro del Regno, in cui non ci saranno più signori né servi.

Un cristiano non fa solo esperienza della giustizia nella fede e non s’impegna solo per il diritto del suo prossimo nell’amore, ma spera anche nell’aurora della giustizia di Dio sulla storia insanguinata degli uomini e di questa terra provata dalla sofferenza. Perciò il cristiano canta con Charles Wesley: «Sun of Righteousness, Arise! (Sole della giustizia, sorgi nel nostro tempo!).

Ovunque noi portiamo un po’ di libertà agli oppressi e un po’ di pane agli affamati e un po’ di conforto agli afflitti, anticipiamo quella «nuova terra» in cui «abita la giustizia» (2Pt 3,13). Ovunque curiamo le ferite che abbiamo inferto in secoli di sfruttamento e abusi siamo gli eredi del futuro del suo regno «come in cielo così in terra».

 

Jürgen Moltmann*

 

 

*Il testo che pubblichiamo costituisce la relazione pronunciata dall’autore il 28 ottobre scorso in occasione del convegno d’apertura dell’anno accademico 2017-2018 dell’Istituto superiore di scienze religiose di Novara dedicato a «Luther 2017. A 500 anni dalla Riforma». La relazione, il cui titolo originale era «Luthers “Die Freiheit eines Christenmenschen” – damals und heute – für Täter und Opfer der Sünde» (La libertà del cristiano di Lutero ieri e oggi. Per autori e vittime del peccato) è stata tradotta dal tedesco da Daria Dibitonto; la titolazione è redazionale.

1 Per la traduzione del testo di Lutero si fa qui riferimento alla versione introdotta e curata da Giovanni Miegge del volume Martin Lutero, Libertà del cristiano. Lettera a Leone X, Claudiana, Torino 2004.

Tipo Articolo
Tema Teologia
Area
Nazioni