Dibattito - Editoria religiosa: in riserva
Una risposta all’intervista a Paolo Repetti del caporedattore dell’editrice Queriniana
Ribattendo a quella che definisce una «stimolante e al tempo stesso graffiante» intervista rilasciata da Paolo Repetti, responsabile di Einaudi «Stile libero», a Mariapia Veladiano sullo scorso numero de Il Regno – attualità (6,2018,155ss), fa seguito la risposta di Aberto Dal Maso, caporedattore dell'editrice Queriniana.
È stimolante e al tempo stesso graffiante l’intervista rilasciata da Paolo Repetti a Mariapia Veladiano sullo scorso numero de Il Regno – attualità (6,2018,155ss). Il responsabile di Einaudi «Stile libero» mette a nudo, in tre mosse, un quadro desolante.
In primo luogo fino a ieri l’editoria religiosa prosperava in una posizione di privilegio: una compagine di strutture ecclesiastiche diffuse sul territorio (un circuito di librerie, parrocchie, movimenti…) – felice combinazione di consenso e appoggi – l’agevolava nella penetrazione di un mercato esclusivo e garantito.
Poi quel bacino di riferimento – nido caldo, confortevole, protetto – non c’è più: la società italiana si è laicizzata; i confini fra religioso e secolare si sono fatti indeterminati; i gusti culturali hanno dismesso le forme ingessate di ieri e mostrano un taglio vieppiù sincretistico.
Infine, nella fase attuale l’editoria religiosa è smarrita: vetrificata nel disperante «si è sempre fatto così», sembra evanescente quanto a idee; incapace di fiutare il cambiamento (lo subisce, prima ancora di reagirvi), pretende di essere letta solo perché esiste istituzionalmente; ottusa nel rivendicare un’esclusiva sui contenuti “senza tempo”, sta accumulando un ritardo enorme.
Una sorta di riserva indiana… senza più indiani, sembra dire Repetti. Il quale, da par suo, consiglia di aprire gli occhi, di rimettersi in gioco senza schemi precostituiti. Incita a uscire dall’immobilismo nostalgico, a mostrare un sussulto d’inventiva: Ripensatevi almeno in termini commerciali! Scovate opportunità dove prima non ce n’erano! Ricalibrate le vostre scelte e innovate i vostri linguaggi per incrociare gli interessi – anche estemporanei – di un pubblico trasversale, non etichettabile. Il nuovo non ha aspettato i vostri comodi, è già spuntato. «Il mondo è già diventato adulto», si potrebbe dire facendo eco a Dietrich Bonhoeffer.
Da pellerossa a visi pallidi?
L’impietosa disamina, al netto di alcune forzature, coglie nel segno: è mutato il rapporto con il destinatario reale del libro, il lettore. Non è facile, però, vantare certezze granitiche sui dilemmi che ne derivano.
Un primo nodo cruciale è il rapporto con il mercato. È un’opportunità vitale, il mercato, ma pure una bestiaccia: volubile, sfuggente e subdolo, non sempre (ap)paga.1 Di recente, per esempio, fa tendenza una spiritualità indifferenziata, sparpagliata, eclettica, rispetto alla quale l’intermediazione teologica classica, impegnativa com’è per il grande pubblico, risulta d’ostacolo.
Subentra casomai l’interesse per temi sensibili di confine, dove la distinzione fra culture religiose e culture laiche scolora. Di più: nel rimescolamento totale dei generi, salta il discrimine fra cultura nobile e divertissement effimero.
Messa così, i pellerossa sembrano stretti nell’alternativa: o vi improvvisate yankees, scordandovi il copricapo di piume d’aquila, oppure restate confinati nella vostra riserva, esibendolo ai soli sparuti membri della tribù.
Fuor di metafora: fino a che punto l’editore religioso deve assecondare il trend, assicurando il bilancio, e quand’è che spetta proprio a lui operare in senso contro-culturale, sbilanciandosi? Presto o tardi, ci si dovrà confrontare con i contenuti che non avranno mai un mercato di massa, eppure valgono tutto il coraggio di chi si ostina a pubblicarli, di chi non si rassegna ad abbandonare il catalogo di qualità per votarsi al solo intrattenimento pop.
Rifiutando questo aut-aut, vedrei strategico – per fare il verso a Walter Kasper – ricomprendere l’identità, la propria ragion d’essere, onde coniugarla in una sintesi realistica con la rilevanza, che detta le linee di una compatibilità anche di conto economico.
Scommetto che neanche Repetti immagina, da acuto outsider, un’editoria religiosa scalpitante che mira anzitutto a conquistare quote di mercato, a macinare profitti da distribuire agli azionisti e dimentica – lungi da me una retorica stucchevole – uno stile fermo, paziente e quieto nell’avviare processi, nell’offrire un servizio alto e altro alla cultura del paese e alla Chiesa. Certo, volta per volta dovrà osare un nuovo equilibrio – negoziare un delicato, fragile compromesso – fra le esigenze in campo, sapendo che una risposta perfetta universalmente valida non la si può trovare: ma di certo non sarà né la formuletta di ieri, né una posizione supina al mercato.
Da riserva indiana a riserva di caccia?
Può essere articolata in modo diverso anche l’analisi delle differenti dimensioni strutturali – ecco un secondo nodo – fra editoria laica ed editoria religiosa.
Quest’ultima in Italia è affetta, per svariate ragioni, da nanismo. Una delle cause è riconducibile alla storia: una fetta consistente dell’editoria cattolica prese forma nell’alveo di istituti religiosi o di associazioni cattoliche; in rari casi nacque dall’iniziativa solitaria di un imprenditore.
Al presente quegli istituti religiosi, tuttora proprietari, versano in grave affanno. Se ieri erano risorsa, perché compensavano la mancanza di solida e compiuta mentalità imprenditoriale con tanta buona volontà e un’eccedenza di risorse umane, oggi sono spesso zavorra: il meccanismo del ricambio generazionale si è inceppato, gli utili – già risicati – vengono drenati altrove, un geloso campanilismo la fa da (miope) padrone.
Conseguenza: gli autori religiosi passano ai ciclopici gruppi editoriali laici. Repetti, da uomo concreto, individua due ordini di motivi: quegli scrittori trovano meno vincoli e condizionamenti, a fronte di un riconoscimento più generoso dei diritti d’autore; hanno inoltre l’occasione di parlare a un pubblico più vasto (gli avventori del saloon), senza con ciò perdere il loro uditorio tradizionale (il clan atavico).
Rincariamo la dose: si percepiscono non solo accolti da un marchio di prestigio, efficiente e affidabile, ma loro stessi qualificanti per quel progetto – coccole simboliche che l’asfittico ambiente di partenza non sa dispensare –. Sicché l’editoria religiosa, che non ha mai smesso di fare scouting, minuscola com’è, si lascia scippare dai grandi player nazionali proprio quei nomi che, non appena crescono di notorietà, darebbero ossigeno ai suoi conti. Drammatico: da riserva indiana a comoda riserva di caccia altrui!
Repetti, pur sapendo per esperienza come gli squali abbiano la meglio sui pesciolini,2 pone la questione dimensionale come irrisoria: servirebbe, al massimo, a prolungare l’agonia. Eppure io ritengo che alleanze strategiche, aggregazioni, fusioni siano derubricabili a pseudo-soluzioni prettamente tecniche solo se si punta a far rinsavire chi le idolatra quale magica panacea – altrimenti il monito di Repetti suonerebbe beffardo. In un ragionamento complessivo, la questione non può essere liquidata a cuor leggero.
Da fortino western a tenda indiana?
E, volendo unire le forze in matrimonio d’affari, si sarebbe destinati a un’opzione endogamica, a limitare cioè la scelta del partner alla cerchia della riserva indigena? Nessuno s’interroga in questi termini, ma se occorre davvero rimodularsi e azzardare l’inedito – perché il vero dramma sono il gesto ovvio e il pensiero scontato – non si dovrebbe infrangere anche il vecchio tabù?
Un’inveterata anomalia del panorama nazionale prevede editrici laiche distinte e distanti da editrici religiose (idem per le librerie). In qualche misura il fenomeno è fisiologico: la faglia che separa l’ambito secolare dall’ambito confessionale, nelle società occidentali, è giusto che si rispecchi anche in quel settore della produzione culturale che è l’editoria.
Innalzata oltre un certo limite, però, quella «parete di vetro» si rivela sbarramento: ostacola un’indispensabile osmosi fra pensiero laico e ragionamento teologico, insinua reciproci sospetti d’inaffidabilità, pregiudica la risposta al cambiamento in atto.
Per esempio: chi pubblica saggistica patisce il fatto che, dai tempi dell’Unità d’Italia, la teologia accademica è stata espulsa dalle università di stato. Allora conveniva reciprocamente tanto allo stato nazionale quanto alla Chiesa cattolica.
Oggi, però, in un panorama sociale, culturale, politico, istituzionale completamente diverso da allora, che quei due mondi evitino ogni confronto o surrettiziamente si delegittimino a vicenda penalizza la crescita di entrambi e crea incomprensioni radicali della realtà – dall’uno e dall’altro versante.
Anche qui, innovando, bisognerebbe re-immaginare il panorama. Non è un ideale puntellare la staccionata che delimita la riserva indiana, trasformandola in un fortino inespugnabile (circola ancora uno schema ecclesiologico frusto, che promuove questa sterile logica «antimodernista»). Non è saggio, nemmeno, sbriciolare ogni linea di confine e, con facile qualunquismo, abbassare l’asticella dei contenuti.
Per continuare a svolgere un servizio culturale, attrezzandosi ad affrontare una società multireligiosa con rigore e onestà (anzitutto verso se stessi), si potrebbe uscire dalle tende dell’accampamento per accendere un fuoco, laggiù oltre la prateria, attorno a cui sedere in cerchio. Con i cowboys.
«Uno spazio enorme di ricerca di senso» è infatti lungi dall’essere saturo di risposte. Nella riserva indiana degli editori religiosi (ma non solo da loro…) si custodisce ancora, a patto di saperla condividere, una potentissima «riserva di senso». Guai se ci si chiude agli altri – e al futuro! – per mancanza di fantasia.
Alberto Dal Maso *
* Alberto Dal Maso è dottore in Teologia, da oltre vent’anni lavora nel settore editoriale, dove è cresciuto alla scuola di Rosino Gibellini, ideatore e fondatore dell’editrice Queriniana.
1 Non esiste alcun determinismo, ammette lo stesso Repetti: «Ogni volta che abbiamo ascoltato troppo il mercato non è poi andata bene come si pensava» (intervista ad Affari italiani, 6 ottobre 2010).
2 Altrove, quando va con la memoria alla vicenda di Theoria, riconosce che la lotta è impari: «Eravamo stanchi di vederci soffiare i giovani scrittori man mano che raggiungevano un minimo di successo» (intervista a La Repubblica, 9.5.2016). Ciò motiva il rischioso – ma tenacemente pianificato – passaggio, armi e bagagli, in casa Einaudi.