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Attualità
Attualità, 16/2021, 15/09/2021, pag. 492

Dibattito - Disagio dei preti / 2: la sete

Di formazione, di guida, d’accompagnamento laicale, di una riforma del celibato

Raffaele Iavazzo

Non so se potrò rispondere a tutte le questioni che ha sollevato l’articolo sui disagi dei sacerdoti. Molti sanno che con tanti sacerdoti ho un contatto consolidato d’amicizia e a motivo della mia professione di psichiatra e di formatore. Questo mi mette in una buona posizione per conoscere sia il mare di bene che essi generano sia i casi meno fortunati, che portano ogni giorno i segni delle loro ferite e dei loro disagi.

 

Non so se potrò rispondere a tutte le questioni che ha sollevato l’articolo sui disagi dei sacerdoti. Molti sanno che con tanti sacerdoti ho un contatto consolidato d’amicizia e a motivo della mia professione di psichiatra e di formatore. Questo mi mette in una buona posizione per conoscere sia il mare di bene che essi generano sia i casi meno fortunati, che portano ogni giorno i segni delle loro ferite e dei loro disagi.

Quello che mi spinge a tornare a scrivere sul tema (cf. Regno-att. 2,2021,51) è il fatto che questi casi meno fortunati, pur rimanendo decisa minoranza, rappresentano un buon numero, che davvero merita un’attenzione non più rinviabile anche a livello istituzionale.

Sono un medico e nessuno si sorprende se focalizzo la mia attenzione su quello che non funziona, su chi lancia – e spesso a fatica – un grido d’aiuto. Rimangono fuori da questa riflessione tutti quelli che ogni giorno ricordano all’umanità le cose più belle e il destino a cui siamo chiamati di figli di Dio.

Nell’articolo pubblicato a inizio anno, ho cercato di lanciare un sasso nello stagno della riflessione sul celibato obbligatorio. Quell’articolo mi ha portato la sorpresa di un interesse insospettato da parte di molti lettori, alcuni dei quali vescovi e mi ha messo in contatto con tante persone direttamente interessate, specie all’argomento delle maschere e del loro possibile destino di china scivolosa. So che l’articolo è servito anche quale punto di partenza di alcuni momenti formativi. Ho avuto queste notizie da telefonate private; non sono mai stato invitato a questi incontri.

È difficile capire i motivi di tanta discrezione. C’è una riconosciuta condizione d’emergenza. Le cronache continuano a riportarci casi che arrivano nelle aule dei tribunali e molte diocesi soffrono abbandoni che non sono propriamente di chi lascia con animo sereno, come se l’idea di un’azione diretta di Dio nel governo delle vie della comunità umana non fosse più vera, almeno per loro, e come se la sua guida avesse perso la caratteristica di essere «soavemente provvida» (Dignitatis humanae, n. 3; EV 1/1047).

E chi ha il dovere di guidare è affetto in maniera sempre più evidente da afasia e disorientamento, fatto salvo l’impegno di pronunciare ufficialmente parole di sdegno e di principio.

Un assordante silenzio

Quello che osservo è un costante bisogno di discrezione, per non dire di silenzio, accompagnato dal desiderio di parlare d’altro. È sorprendente tanto silenzio di fronte a questioni così gravi, come quella sessuale, per esempio, o come quella del precipitoso calo delle vocazioni.

La rivoluzione sessuale è stata una battaglia che è venuta dal mondo laico, non dal magistero che aveva la cultura del Cantico dei cantici, ma dal femminismo, spesso vilipeso. La grande energia che spinge il mondo e le sue vicende non ha trovato nella Chiesa la comprensione meritata. Ci voleva un pontefice polacco a fare della conoscenza del corpo e dell’amore umano, così importanti per la vita anche spirituale, una vera teologia. Molti hanno temuto che questa teologia potesse nuocere alla Chiesa, eppure è proprio questa teologia che ancora attende di difenderla e liberarla. E sarebbe una bella vittoria.

La rivoluzione sessuale avrebbe finalmente un buon alleato, ora che il suo successo è causa dei suoi problemi. La scomparsa di freni e di censure, il totale permissivismo in campo amoroso, invece d’arricchire l’amore e di condurlo a superiori livelli d’eleganza, raffinatezza e creatività, lo banalizza, lo rende volgare e, in qualche modo, lo riporta indietro, a quei lontani tempi ancestrali quando era solo lo sfogo di un istinto animale.

Alla sessualità evoluta dobbiamo la bellezza dell’amicizia e della tenerezza, il legame che ci unisce agli altri a cui dobbiamo la sopravvivenza della nostra specie perché siamo animali sociali, il lavoro contrario di quello che fa l’individualismo crescente della nostra epoca.

L’eros è un motore potente che fa nascere e muovere la vita, che ci fa evolvere e ci rigenera. La sua energia muove l’Universo, è un motore potente che mette enormi quantità di forze a disposizione dell’evoluzione e ha la bella qualità di spostare la sua applicazione a diversi obiettivi senza nessuna essenziale diminuzione dell’intensità. Chiamiamo facoltà di sublimazione questa proprietà di scambiare la meta originaria che è forza sessuale con un’altra, non più sessuale ma psichicamente affine alla prima.

Questo vale per tutti, a qualsiasi latitudine, a qualsiasi cultura si appartenga. Sembra non appartenere però ai chierici o presbiteri o sacerdoti o preti. Quanti nomi per un’unica realtà! Quanta storia cristallizzata e depositata in ogni nome, e ciascun nome potrebbe essere un aiuto alla memoria per capire le sedimentazioni del tempo e per capire che non tutto è stato sempre come ora lo troviamo! Un aiuto fecondo di buoni risultati se si volesse. Specie in un mondo che pare continuamente votato al rispetto della tradizione e della sua storia, in un mondo in cui è facile riconoscere un difetto d’apertura al nuovo, un misoneismo, con sfumatura di patologia. Ma non è così. È un misoneismo funzionale. È buono quando serve.

La storia (della Chiesa) non è lineare

La storia della Chiesa è ricca e complessa. Questa storia ha avuto cultori e custodi e ancora ne ha. Ma ciononostante essa non ha avuto uno sviluppo lineare. Quello che costantemente essa ha conservato è l’indiscutibilità delle sue opzioni.

Tra gli apostoli c’erano donne, come la Maddalena. Le donne sono le prime testimoni della risurrezione e la Chiesa primitiva s’arricchiva dei loro carismi e diaconie. Eppure non è da molto e con molto affanno e discussioni che le si ammette a qualche lettorato senza ordine sacro.

Il primo papa, Pietro, era sposato e così tanti altri uomini di Chiesa dei primi secoli e questo non ha fatto giurisprudenza; anzi il dibattito culturale appare ancora intimidito e ripiegato al suo interno.

Oggi si rimane impassibili di fronte a intere comunità senza eucaristia per mancanza di preti, eppure qualsiasi studioso di storia della Chiesa può concordare sul fatto che il clero, per come lo conosciamo oggi, non è frutto della volontà divina, è un prodotto storico, che può essere soggetto a modifiche. O meglio è un carisma-ministero che abbiamo il dovere di lasciare alla libertà dello Spirito se e come e quando sottoporlo a cambiamenti. Cambiamenti che dovranno avvenire dentro un quadro organico di riforme dell’intero sistema ecclesiastico.

La Chiesa non ha una storia lineare, così come non è lineare il suo rapporto con le scienze umane. Per secoli non le è bastato fare affidamento sull’unicità della verità, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio.

E a proposito delle umane scienze, mi domando: condivide la Chiesa che obbligare tutti quelli che intendono dedicarsi al servizio della comunità a un’astinenza coatta della sessualità è assumersi una responsabilità che i fatti dichiarano insostenibile per molti e quindi ingiusta e quindi improvvida?

Lo sa la Chiesa che ci sono uomini che per questo vivono un personale inferno? Lo sa che spesso in questo inferno trascinano altri, la cui unica colpa è solo quella di amare?

Ogni grandezza terapeutica custodisce il limite e il paradosso d’avere a propria volta bisogno di cure. Questa è esperienza quotidiana. Sono tanti, invece, i curatori feriti che hanno rinunciato a prendersi cura di loro stessi e lo fanno con sentimenti turbati e confusi, spesso con dichiarata perdita delle priorità, senza gerarchia di valori e nomadi di senso.

Non parlo qui degli abusi. Parlare di abusi e violenze sessuali non è facile per una serie considerevole di motivi, soprattutto non è facile schematizzare. L’approccio giornalistico verso questo gravissimo problema sociale assai spesso è caratterizzato dall’esigenza mediatica di sbattere il mostro in prima pagina e questo non aiuta affatto a comprenderlo nei suoi termini reali e complessi. Il linguaggio ufficiale disegna delle fuorvianti autoevidenze fondate sul dualismo mostro-vittima come se esse appartenessero a due mondi assolutamente diversi e che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. Noi sappiamo che spesso l’abusante è stato una vittima.

Dobbiamo conservare un’antica virtù che è quella del distinguo tra peccato e peccatore, perché, quando si condannano le situazioni di abuso e violenza dobbiamo pensare che chi sbaglia rimane figlio, ma per fare questo c’è bisogno che la condanna del peccato sia netta e che ci si occupi seriamente delle vittime. Solo un atteggiamento virtuoso, al di sopra d’ogni sospetto, può renderci forti nella difesa dei figli che sbagliano.

La difficile promessa

Qui parlo di uomini che hanno scoperto lentamente la fatica prima e l’impossibilità poi di mantenersi fedeli alla castità promessa nel giorno solenne della loro ordinazione. Sembrava così facile e l’esperienza di molti dice che in effetti lo era. Mantenersi a quell’età fedele alla promessa della condizione celibataria era davvero facile e leggero. Giovani, spiritualmente preparati e amorevolmente seguiti, senza altra esperienza che quella del seminario, una vita comune, fatta di sentimenti puliti, con ormoni tenuti sufficientemente a bada. Si sa, tutto è nel cervello e a quella giovane età il cervello si nutre di ideali alti.

Gli ormoni non conoscono obbedienze cieche o forse sì, ma la loro obbedienza riguarda altre leggi e altri giuramenti. E sanno lavorare con discrezione, senza parole, senza preavvisi. A volte sembrano perfino subdoli per quanto sanno farsi presenti senza preavvisi. E l’animo viene scosso e turbato, come se una propria responsabilità avesse combinato il guaio. Immagino lo stupore e il turbamento, dentro quello che in psicologia chiamiamo «solitudine epistemologica». Dentro il cuore uno sa d’essere solo e smarrito, senza saper trovare la via di uscita da un tunnel che spaventa in profondità e senza sapersene dare una spiegazione.

E nel profondo si ripassa quanto appreso. Il sesso non domina la nostra vita, esso può essere sublimato come apertura a una relazione e questo richiede poesia e disponibilità, disponibilità di sé, attenzione all’altro, realizzazione di un progetto che è innanzitutto progetto di comunione e d’intesa, progetto di donazione.

No, questo no, questo al chierico non è dato. Può accettare la sua capacità di interpretare segnali, della sua ricchezza d’elaborazione e di creatività, della sua esplosività gioiosa, ma sempre come sublimazione.

Il sesso può essere in uno sguardo, perfino in uno sguardo fuggevole, quando l’animo è in contatto profondo con qualcuno, il sesso è in un tocco di mani, quando si ama, il sesso può essere in un ricordo quando il pensiero dell’altro si fa struggente, il sesso è un richiamo d’infinito, tanto ci dà l’idea di un superiore che travalica l’apparente semplicità della nostra anatomia.

Ho conosciuto molti che passando per questa strada hanno saputo interpretare i costi delle loro scelte più profonde, con fatica, ma con successo. Ci sono altri – e davvero non si può prevedere quanti – che invece fanno fatica ad adattarsi a quanto la vita sacerdotale richiede. Perché quello che agli altri appare come il provvido disegno di Dio deve rappresentare per il sacerdote una tormentata questione? Cominciano così le domande che non lasciano tranquilla l’anima.

Se il tutto può rimanere limitato a uno sguardo e a un tocco di mani dov’è il problema? E inizia l’esplorazione di questa nuova possibilità. Lentamente, impercettibilmente, in un modo a cui si danno spiegazioni sempre più legittime, sempre più confermate e s’inizia a dare un nome a quello sguardo, il profilo preciso di quelle mani e di quel viso che si vorrebbe toccare e trattenere. Ma ancora si resiste – se si resiste – e magari all’inizio si preferisce l’iniziazione tramite una via più anonima, più impersonale, anzi decisamente virtuale.

Prescelto

Viaggiando nella Rete qualcuno può inciampare sciattamente nella più grossolana banalizzazione del sesso. Il sesso di corpi senza anima, una grottesca caricatura della più fine attività dell’uomo. Intendiamoci, il sesso si serve della genitalità, ma non ne rimane intrappolato. Un giovane, impreparato per giunta, potrebbe fare l’errore di non saper varcare la soglia del ritorno da quella trappola. Oppure potrebbe fare l’errore di perdersi la ricchezza che supera di mille lunghezze la sensibilità neuronale e fa accedere al mondo dell’eros, che è mondo spirituale e senza retorica, è mondo del divino ed esso richiama in ogni senso. L’eros è un mondo a cui ogni giorno che passa dona il suo contributo di esperienza e di saggezza, il suo contributo di ricchezza e di piacere.

Perché questa bella realtà non deve valere per tutti, perché non è dato a tutti alzare lo sguardo al meglio e accedere alla creatività versatile di cui parlano i poeti e dare allo spirito la gioia di cui parla la poesia dell’eros, il Cantico dei cantici? Il prete dovrebbe essere il maestro di quel mondo, lo predica quel contesto e lo fa con motivazione ispirata e lo propone come bene.

No a lui è capitata altra sorte. Lui è diverso, è chiamato a cose alte, è un prescelto. Ha una biologia normale, ma il suo corpo è l’unico a saperlo. Per questo ha studiato e pregato, per anni. È un lungo cammino di preparazione che si dilegua quando l’amore si presenta, come un vile traditore, una preparazione che si dimostra senza aggancio che valga, senza consistenza, senza alcuna protezione.

A proteggerlo ci vorrebbe Dio, ma, in quei momenti di confusione e di ribaltamento di ogni più semplice convinzione, è Dio stesso che sembra presentarsi come deluso, tradito, amareggiato. E allora il povero malcapitato si sente estraneo a se stesso, perché l’idea di tradire Dio non gli è mai passata per la mente, questo no, questo è l’unico punto che rimane fermo del suo travaglio. E questo dà speranza, offre una luce nuova, gli restituisce un clima di familiarità rassicurante.

Non è cambiato del tutto, mantiene con il suo passato un ancoraggio che gli dà forza. La sua identità ha ancora un senso. Sente di poter ancora meritare se non approvazione, almeno comprensione; deve solo guardarsi bene dentro e capire le ragioni di quel nuovo turbamento. E lentamente capisce solo che nulla sarà come prima. Il turbamento si consoliderà e si presenterà ai suoi occhi e al suo ragionamento con crescenti ragioni. Dubiterà piuttosto degli altri e di chi, potendo, non lo ha informato, non gli ha anticipato che sarebbe arrivato un tempo in cui la sua carne si sarebbe frapposta tra lui e il suo Dio.

Dio non si pronuncia, lo lascia solo con i suoi pensieri. Dio non parla, ma non dice neanche parole di condanna e lentamente, molto lentamente, si fa strada una zeppa, un piccolo pensiero inizialmente timido e pauroso di essere blasfemo, poi avanza più fermo e audace e con argomentazioni sempre più convincenti.

Dio fa trapelare di sè cose umanamente sconcertanti: si rivela nel piccolo, non vuole sacrifici, non ama il potere e i trionfalismi e soprattutto Cristo ci assicura che è un Dio che ama. Un Dio che attrae, che seduce, che all’eros assegna un ruolo imprescindibile, una supremazia per la vita di tutte le creature. Un Dio che sembra il giusto interlocutore a cui rivolgere appieno le proprie pene d’amore.

Nostalgia di Dio e il conto della natura

Tornerebbe utile ricordare la tenerezza di cui parla Giovanni a proposito della povera adultera, ma più frequentemente i pensieri sono quelli che scrive Grazia Deledda ne La madre (1919; qui ed. Mondadori 1976, 71): «Era prete, credeva in Dio, s’era sposato con la Chiesa, aveva giurato castità: era come un uomo ammogliato, insomma, che non deve tradire la moglie. Perché aveva amato e amava quella donna non sapeva precisamente. Era forse in una età di crisi fisica, verso i ventotto anni; la sua carne addormentata dalla lunga astinenza, o meglio chiusa ancora in una specie di prolungata adolescenza, s’era d’un tratto svegliata e tendeva a quella donna perché era la più affine a lui, anche lei non più giovanissima eppure ancora ignara e priva d’amore, chiusa nella sua casa come in un convento».

Non sempre è una donna giovanissima; a volte non è donna e si presenta con altri profili e altre pretese.

All’inizio non è così chiaro, all’inizio è solo una rete di facili intese, una corrispondenza di buone intenzioni in comunione. Nessuno può avere diffidenza di quel loro intendersi, neanche il loro desiderio, che ignaro procede a vele spiegate, senza avere il più piccolo sospetto, senza alcuna rotta programmata, e proprio per questo rappresenta il pericolo più incombente.

Dove sono le carte della sua formazione, la sicurezza tranquilla della sua preghiera, il suo facile affidarsi all’Altissimo, di cui ha ora tanta nostalgia, in una consapevolezza nuova di non conoscersi, di non conoscerlo, di non potersi fidare neanche della sua conoscenza e della sua preparazione, del suo statuto di eletto, consacrato e della sua natura?

Questo è ora sempre più chiaro. È la sua natura che è venuta a reclamare quanto le spetta. È ora in un mare in tempesta proprio per i suoi istinti di uomo, per il bisogno d’amare e d’essere amato, com’è scritto nel programma della vita che ha cercato di negare. Non sarà forse proprio questa negazione a rendere il suo desiderio non legittimo e a farlo apparire come ridondante e da condannare?

La vita è così bella, semplice e serena… Lo è in ogni cosa che le appartiene, nel respiro, nella brezza che rinfresca le sere d’estate, nell’acqua che disseta e nel cibo che nutre, che allieta il gusto, nello sguardo dell’amico che incoraggia, nella luce che si posa sulle cose e le rende belle come in un atto perennemente creativo. Vita, vitale, naturale, naturaliter.

Per altri le cose sono ancora più tormentate, essi sono davvero sfortunati in una dannata danza di pensieri senza rete, si smarriscono per sempre, non sono stati buoni pollicini e non ritrovano la via del ritorno.

Altri sono più moderati, aiutati dal carattere o dalla loro formazione. Trovano modo di sistemare meglio le loro delusioni e frustrazioni, forse in questo aiutati da cuori più generosi e più sapienti. Forse sono più allenati ad accettare il sì quando è sì, il no quando è no. Però, accanto a questo, aggiungono senza fondamentalismo che bisogna comprendere la buona economia e utilizzare concetti che alludono al fatto che il consenso e la verità possano essere perfettibili, cioè possano riconoscere un cammino d’integrazione, una verità sempre più vera. Cominciano a raccontarsi una storia che prepara alla ricostruzione del proprio progetto di vita e si salvano.

Chi cura gli smarriti?

Noi tuttavia dobbiamo avere la massima attenzione per quelli che si smarriscono, per quelli che perdono la propria narrazione e s’aggrovigliano in una rete senza scampo. Ci sono momenti in cui sembra che un vento diabolico confonda le parole della propria narrazione e le metta in ordine sparso, in cui nulla è più come prima. La stessa coscienza ne rimane confusa, alienata, così come il mondo delle proprie convinzioni, la gerarchia del bene e del male e ci si sente ospiti di un mondo sconosciuto, di cui non si conoscono le leggi e il funzionamento, il modo di meritare il suo elogio o per evitare il suo vituperio. E si ritorna bambini daccapo, senza accudimento e senza guida, totalmente senza parola e senza diritti, praticamente persi.

Alcuni collocano la speranza nel proprio orizzonte personale e non si danno pace, come Adamo che vaga ramingo e spaventato dalla possibilità d’essere scoperto. E sarebbe rimasto intrappolato in un qualche rifugio appartato e ben nascosto se non fosse stato rincorso e scovato.

Oggi c’è la stessa emergenza.

Si moltiplicano le situazioni di smarrimento e di paura. Una folla di uomini che s’interroga sul senso della propria vita e del proprio destino. Sono uomini che cercano respiro e hanno un gran desiderio di vivere senza vergogna e senza sentirsi immeritevoli di perdono, per uscire da un letterale inferno. Purtroppo accanto a loro ci sono altri uomini che dovrebbero guidarli e che sembrano ugualmente spaventati e non sanno accompagnarli e tacciono come per tacita delega, in attesa di qualcuno che lo sappia o voglia fare.

Quando si dice che per riforme significative ci vuole prudenza e tempo bisognerebbe considerare che le riforme significative sono già in atto e sono totalmente affidate alla libera organizzazione personale, e sono fatte al buio, senza pace, senza discernimento e senza regole, in un imponente conflitto tra lo spirituale e lo psicologico, abusivi di tutto, anche nell’affetto dei più vicini per legami di sangue o di amicizia.

Sono uomini che a fatica continuano a pensare, a interrogarsi, a medicarsi quando possono, a dare un senso alle loro giornate e alle loro vite travagliate. Sono uomini che nel loro smarrimento hanno assunto sulle loro spalle il peso di quello che potrebbe cambiare e che per il silenzio di altri invece non cambia.

E che fanno i loro maestri, i loro padri spirituali, i loro confratelli, i loro vescovi, le loro comunità? Sanno sostenerli, motivarli a recuperare le parole di vita eterna, sanno essere strumenti di riconciliazione di perdono, di ripresa della strada? Che fanno soprattutto i loro rettori, vescovi e cardinali, che hanno un rapporto stretto con loro e con le istituzioni, un rapporto per esprimere il quale spesso si parla di rapporto tra padre e figli?

Sono pastori, un esercito di pastori, un esercito di persone mediamente timorate e bene intenzionate. Sono persone dichiaratamente ben formate e da cui ci si può attendere una buona parola. Spesso vorremmo che i loro discorsi non fossero, come si dice, all’acqua di rose, con parole auliche e retoriche, e non si riferissero solo a valori universali di unanime consenso. Vorremmo parole adeguate a questi tempi di emergenza, parole consapevoli che le chiese sono sempre più vuote e i preti sempre più scarsi e quelli sulla breccia sono pieni di problemi e sofferenze e avvertono il vuoto che si sta loro creando attorno. Mentre abbiamo l’impressione che di fronte a certe storie dei loro sacerdoti usino parole imbarazzate, si sentano come sorpresi e impreparati. Ci vuole compassione anche per loro. Ci vuole compassione a pensare a questo declino senza fine.

Prendersi cura richiede coraggio ed esclude ogni sorta d’anemia morale nel saper affrontare le questioni. Essi sono abituati a dire parole educate, ma forse non coraggiose. Sono parole prudenti, che non offendono, mentre il termine «educate» dovrebbe significare che sono andate a scuola, che conoscono il loro dovere, che hanno imparato il significato di quello che esprimono, le conseguenze della loro espressione, e perfino l’ineluttabilità del loro uso, quando è in discussione una questione di verità o di soccorso e allora si mettono al servizio dell’assertività, come ci insegna Geremia, quando spiega la necessità della resa ai Babilonesi, assolutamente non compresa dal suo popolo, fino a essere considerato un collaborazionista.

Ma chi deve pronunciare queste parole di verità e di liberazione, chi deve cominciare a dire che non è possibile ridurre il Vangelo a Legge, perché Dio è bellezza, dono grande, amore e gioia? Chi si prende cura di spiegare al ligio sacerdote di non guardare con sospetto l’impuro samaritano sulla strada di Gerico, ma anzi da lui prendere esempio? Non dobbiamo avere paura di medicare di sabato e di mangiare con Zaccheo.

Per tutto questo dovremmo, anche noi laici, appoggiarci maggiormente alla fortezza, la virtù che ci aiuta a valutare i pericoli e a prendere consiglio, per ben amministrare le risorse della propria condizione. È la fortezza che ci ricorda l’accettazione della fatica del nostro ruolo e della nostra responsabilità. Credo che molti problemi siano legati alla paura di sbagliare o di esporsi all’impopolarità.

Non si dovrebbe avere paura di dire, per esempio, che la Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis ha un’idea del prete estremamente distaccata, e che la concezione soggiacente al «dono della vocazione sacerdote» è inadatta forse alla congiuntura culturale di oggi e che questo espone al rischio d’ogni sorta di devianza.

La responsabilità di parlare

I giovani lo hanno capito da soli e perciò sono sempre meno coloro che chiedono di farlo. I giovani hanno capito che non hanno le forze per affrontare un simile cammino. I giovani sembrano più pronti di ogni altra istituzione a comprendere che, a fronte di comunità sempre più fluide, si chiede di avere preti pronti e temprati ad affrontare mille tempeste e senza la certezza di sostegno, anzi con la facile previsione di una solida solitudine. Per fare una scelta del genere ci vuole molta fede e molta esperienza. Bisogna essere letteralmente viri probati, come per essere buon medico, buon avvocato e buon giudice, buono per qualsiasi altro mestiere che richiede responsabilità incondizionata. Come per il matrimonio: e le statistiche ce lo dicono con chiarezza.

I diaconi permanenti sono chiamati viri probati. Per essere preti ordinati non serve essere viri probati, basta essere a posto con gli studi. E sono destinati a quella testimonianza! E debbono farlo senza rete di protezione, spesso a dispetto degli stessi che li attendono, se li attendono. Senza compagnia. È finito il tempo in cui erano comandati a due a due. Sono soli e destinati a più comunità, spesso senza alcuna comunione di vita tra loro. Le chiamano comunità pastorali per dare l’idea di un insieme consensuale, ma spesso sono comunità che si guardano in cagnesco e che misurano le ore della presenza del pastore in una rivalità che non va per il sottile.

Penso alla vita di certi giovani preti, freschi di studi e di vita. Non mi sorprendo che i primi dieci anni siano difficili da superare. Essi provano a farsi in quattro, quando sono tenaci e ben preparati, e non accontentano nessuno. Se hanno problemi non sanno a chi riferirlo. Spesso c’è per loro un incaricato che debbono raggiungere. A volte non sanno farlo neanche psicologicamente. Temono di essere sbagliati e quando si decidono fanno i conti con altre difficoltà e con altri ostacoli. Ho suggerito a un vescovo che mi chiedeva consiglio di affidare i più giovani non a incaricati vescovili, ma a una famiglia vicina. Le famiglie sono più allenate a leggere i bisogni, spesso lo fanno leggendo i silenzi e pesando i ritardi, pesando le volte in cui si manca a tavola.

So per esperienza professionale che tanti si ritirano a casa stanchi e vuotati e vorrebbero gridare il proprio «Eloì, Eloì, lama sabactàni». A chi si avvicina al sacerdozio dovrebbero spiegare questo e dovrebbero attrezzarsi per dire che questo non accadrà, che tutte le comunità, con i loro presbiteri, hanno ancora il compito di testimoniare Cristo Signore e le sue parole di vita eterna. Ma usare parole di verità anche alle nostre comunità, che ancora hanno un atteggiamento di attesa, ricca di pretensione e senza nessuna coscienza dei doveri. Dovremmo chiamarle a una corresponsabilità della loro vita di fede. Ci vuole un cambiamento di rotta. Per il problema dei pastori bisogna sentire anche la voce del gregge.

Le parole di chi sta molto in alto sono parole che si sentono costrette a essere diplomatiche, mentre le parole di chi sta in basso sono più leggere, più libere, e si consentono d’essere più dirette, e forse santamente più spavalde.

Per questo lavoro di cambiamento di rotta è necessario l’aiuto di tanti uomini e di tante donne. Questo cambiamento richiede tanta fede e il coinvolgimento di tanti cuori e di tanta sapienza. Per questo cambiamento ci vuole sicuramente un Sinodo.

 

Raffaele Iavazzo

Tipo Articolo
Tema Ministeri - Vita religiosa
Area EUROPA
Nazioni

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