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Attualità
Attualità, 4/2021, 15/02/2021, pag. 135

Ascoltare i morti

Per intendere la pandemia

Luigi Accattoli

Per intendere la pandemia dovremmo ascoltare i morti. Ma già a dirla si capisce che questa è un’impresa ardua: i morti non parlano e i morenti, stavolta, non hanno il fiato neanche per dirci «addio».

Da un anno – iniziai a marzo – vado raccogliendo nel mio blog storie di pandemia, dividendole in vicende di morti, di guariti, di volontari. Sono arrivato a 80 narrazioni. Scelgo quelle che hanno un elemento testimoniale vivo, che spesso è affidato a una parola. Ma appunto, come dicevo, sono rare le parole dei morenti.

Nel momento in cui scrivo i morti italiani sono 90.000: di pochissimi abbiamo qualche parola, un saluto, un testamento che siano stati pronunciati o scritti dopo che avevano scoperto la malattia. L’isolamento nei reparti COVID, la mancanza di fiato, il coma, l’intubazione, la tracheotomia spiegano l’afasia dei morenti.

Troppi se ne sono andati
senza lasciare una parola

Da cercatore di storie di vita, ho messo scrupolo a non lasciarmi sfuggire nessuna morte che avesse un suo messaggio. Ne ho trovate pochissime, appena una decina e quasi tutte di poche parole, o senza parole. Ora le richiamo, andando dalle silenti alle parlanti e fermandomi alla fine sulle uniche due – da me scovate – che propongono un dichiarato appello a noi che siamo ancora qua: quelle di due preti, Orlando Bartolucci di Pesaro e Alfredo Nicolardi di Como.

Parto dai commiati silenti e segnalo la storia di Giacomo Jon, di Voghera, ponendolo a simbolo dei morenti che si sono accomiatati con un trepido sorriso, un cenno della mano, un tentativo di parlare senza voce, da dietro un vetro o con una videochiamata. Sono decine di migliaia che se ne sono andati così, lasciando come ultimo segnale magari solo la stretta insistita della mano a un infermiere durante la sedazione.

Giacomo Jon è una delle più giovani vittime del COVID-19: il virus se lo porta via nel maggio 2020, a 24 anni. Da due mesi era ricoverato all’ospedale Sacco di Milano. Studente in Scienze teologiche, insegnava religione all’Istituto comprensivo della Valle Versa, in Oltrepò Pavese, ed era cerimoniere della chiesa di San Rocco di Voghera. Di carattere espansivo, molti rimpiangono il sorriso contagioso che lo caratterizzava e chi ha avuto la possibilità di un ultimo contatto – di solo sguardo – in ospedale, racconta che dal vetro egli rispose appunto con un lungo sorriso agli accorati saluti che gli venivano fatti a gesti e con parole sillabate.

Assimilo a quella di Giacomo Jon le tante morti senza parole di quanti tuttavia hanno potuto comunicare un’ultima emozione, paura, commozione, con un cenno del capo, con l’attaccamento a un oggetto da tenere sul comodino, con la scelta di ricevere l’unzione degli infermi passando il cappellano per il reparto.

È stato per questa via dell’unzione che abbiamo saputo qualcosa degli ultimi giorni del missionario saveriano di Treviso Giancarlo Anzanello, 85 anni, morto a metà aprile 2020 all’ospedale San Francisco de Asís di Madrid, dov’era arrivato senza fiato. «Segue con attenzione il rito dell’unzione insieme alla comunione», narra di lui don Ignacio Carbajosa, che svolgeva allora il ruolo di cappellano in quell’ospedale e che ha poi pubblicato una memoria di quel suo ministero di misericordia, tradotta in italiano dall’editore Itaca con il titolo Testimone privilegiato. Diario di un sacerdote in un ospedale COVID. Sempre da don Ignacio sappiamo che due giorni dopo l’unzione padre Giancarlo riceve in dono un rosario dalla sua comunità: «Glielo mostro e lui lo afferra con le dita».

Quell’ultimo saluto
affidato all’infermiera

Con gesti più che con parole ci parla anche Olga che viene ricoverata insieme al marito Vincenzo, e che al momento di essere separati vuole con sé la giacca di lui, da tenere vicina al proprio letto per farle compagnia. Olga e Vincenzo Molino sono morti all’ospedale San Gerardo di Monza un pomeriggio di metà novembre 2020, a un’ora di distanza l’uno dall’altra: avevano 83 anni lei e 82 lui.

Nella mia ricerca ho incontrato vari casi di ricoverati in terapia intensiva che hanno affidato un ultimo messaggio al personale ospedaliero: e spesso si tratta di un messaggio d’affetto per il marito o per la moglie. Fortunato è il caso di Oscar Vrtovec, 51 anni, titolare di un bar a Novara: guarisce e racconta che in un momento duro del ricovero, convinto che non rivedrà più la moglie e i figli, prende la mano di un’infermiera e le sussurra: «Dite loro che gli ho sempre voluto bene».

Le poche ultime proteste d’amore che sono riuscite a varcare la clausura dei reparti intensivi danno voce alla folla di morenti che ci è sembrata allontanarsi muta. Assimilo a tali messaggi in bottiglia la raccomandazione di una dottoressa di famiglia venuta dalla Siria in Italia, Samar Siniab, che entrando nel marzo del 2020 nel pronto soccorso dell’ospedale di Mira, Venezia, dice al figlio, anche lui medico: «Rafi mi raccomando stai attento ai miei pazienti». Gli comanda anche di non informarli del ricovero: «Non voleva che si spaventassero».

Con la dottoressa d’origine siriana, che si ammala per non abbandonare i pazienti e li tratta come figli, passiamo dai morenti che comunicano con messaggi indiretti a quelli che hanno avuto la possibilità di parlare o scrivere con piena consapevolezza di ciò che stava arrivando.

«Mi sento contento
di questa esperienza»

Consapevole ci appare don Alberto Franzini, 73 anni, parroco della cattedrale di Cremona, che muore a inizio aprile 2020: al vescovo Antonio Napolioni, che l’incoraggiava con messaggi al cellulare, risponde – sempre per messaggio – con l’esclamazione: «L’è dura e lunga, grazie».

Il parroco maceratese Giuseppe Branchesi, 81 anni, muore di COVID in quello stesso aprile all’ospedale di Civitanova nove giorni dopo aver inviato ai parenti, dal suo posto letto, per telefonino, un testamento che si conclude con questo saluto: «Chiedo perdono a tutti, e tutti perdono»; e ancora: «Grazie a Dio. Grazie a tutti. Benedico tutti». Don Giuseppe scrive il testamento il giorno del Sabato santo.

Don Corrado Forest di Vittorio Veneto, 80 anni, che muore sempre in quell’aprile all’ospedale di Treviso, confida al vescovo che gli telefona: «Non è male che anche qualche prete prenda questo tipo di malattia per condividere quello che vivono molte altre persone».

Un altro prete – che ho già nominato come mittente di un messaggio compiuto – Orlando Bartolucci di Pesaro, da me interpellato in un momento che era parso di guarigione, poco dopo la Pasqua del 2020, aveva avuto parole simili di accettazione della malattia: «Anche se tutto è pesante, doloroso, non so per quale motivo, spiritualmente mi sento “contento” di aver fatto questa esperienza. È l’aver in certo qual modo condiviso una storia con la tua gente».

Per nuovi semi
di necessaria profezia

Don Orlando ha detto altro, nel tempo che gli fu lasciato tra la prima e la seconda fase – quella mortale – della malattia e le sue parole sono un lascito a nostro profitto, volto in avanti. Così si espresse in risposta a una mia domanda: «Ammalati e non ammalati tutti, proprio tutti, siamo stati coinvolti in questa realtà. Nella mia parrocchia – in un mese – sono morte 20 persone. E speriamo che il disagio e la sofferenza, che come un aratro è passato nel cuore, possa fare spazio a nuovi semi di necessaria profezia». Parlava così il 23 aprile, morirà il 10 maggio.

«Semi di bene» dirà il papa nella Fratelli tutti: semi che «Dio continua a seminare nell’umanità» anche nel mezzo della pandemia (n. 54; Regno-doc. 17,2020,531). «Semi di necessaria profezia» diceva don Orlando, che aveva provato ciò che l’avrebbe portato alla morte: cioè semi di bene che potrebbero risultare fecondi in vista di un nuovo domani.

Dicevo all’inizio che c’è un altro prete – tra le mie storie – che ci ha lanciato un appello da mezzo il COVID: Alfredo Nicolardi di Como. Nella lettera per Natale che invia dall’ospedale alle comunità delle sue tre parrocchie, ha parole severe sulla notte della fede che tutti stiamo attraversando: «Più la situazione [di questa pandemia] si prolunga, più rischiamo di lasciarci prendere dalla sfiducia, anche dalla sfiducia in Dio. Abbiamo creduto in una promessa, abbiamo aspettato un suo intervento, un gesto, un segno. E invece ci ritroviamo profondamente delusi. La notte avanza e Dio non viene a salvarci». La data della lettera è 16 dicembre, il suo autore morirà il 31.

Il monito che ci arriva dalla lettera di don Alfredo è simile a quello dei «nuovi semi di necessaria profezia» che ci era venuto da don Orlando: «Sono giunto a questa conclusione. Da questa prova usciremo sicuramente diversi e migliori se ci chiederemo cosa il Signore ha voluto dirci permettendo questa croce, se saremo disponibili a una vera conversione che si traduce anche nella riscoperta di essere tutti più fraterni e meno egoisti».

Ci invitano a portarci
all’altezza della nostra morte

Sono straordinariamente vicini tra loro i messaggi che questi due preti inviano alla loro gente quando si vengono a trovare al cospetto della morte: profezia dice l’uno, conversione fa eco l’altro. Con quei messaggi invitano tutti noi a portarci all’altezza della nostra morte quando immaginiamo di poter dire qualcosa su questa pandemia, che ha già fatto due milioni di morti nel mondo.

All’altezza della morte: cioè in quella posizione che sola permette di cogliere la verità di una creatura o di una situazione. La verità di noi. E che aiuta a guardare all’essenziale.

Ecco perché sono importanti le parole dei morti. Attraversando la prova, che avvertivano decisiva, ci hanno dato parole improntate a una forte esigenza di profezia, cioè di conversione.

www.luigiaccattoli.it

Tipo "Io non mi vergogno del Vangelo"
Tema Cultura e società
Area EUROPA
Nazioni

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