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Attualità
Attualità, 8/2022, 15/04/2022, pag. 253

Chiesa visibile Chiesa invisibile. Sempre pellegrina

Pierre Gisel

Siamo nel tempo della «società liquida», dove la «questione delle istituzioni» e delle loro «mediazioni» viene associata all’aggettivo «autoritario» e «arbitrario». Anche la Chiesa è dentro questo dibattito e, riandando alla lunga e ricca storia della discussione sul rapporto tra realtà visibile e invisibile, emergono gli elementi utili per discernere l’oggi, alla ricerca di un orientamento nel percorso sinodale. Dopo aver quindi passato in rassegna elementi della (variegata) Riforma protestante, della Controriforma di Trento e del Vaticano II (e delle sue questioni aperte), Pierre Gisel, docente di Teologia sistematica all’Università di Losanna, pone la tesi centrale: «La Chiesa non si dà fuori dalla cultura e dovrà resistere a quella tentazione del nostro tempo di essere la realtà resa autonoma e mondiale di un identitario deculturato» e basato su «una rilettura ideologizzata della tradizione da cui proviene». Essa deve essere «eterotopia significativa (…) iscritta in un luogo e determinata nella sua differenza», non s’identifica «in un progetto per il mondo», ma saprà dare valore a «richieste di cui essa non è l’orizzonte, come i riti di passaggio», «luogo di racconto» – a volte «un contro-racconto» – , luogo dove si coltivano pratiche di spiritualità (…) quasi pensate come servizio pubblico per l’umano», «luogo di diaconia attento a urgenze che la società non vede o non vede ancora o di cui non sa come farsi carico».

 

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Come nel caso del cristianesimo: in primo luogo in relazione alla Bibbia, che alcuni vorrebbero riscrivere, anche in un modo più sottile ma sintomatico che la svincola dalla tradizione di cui è intessuta come testo canonico. In secondo luogo, considerando due casi: il violento testo di Martin Lutero sugli ebrei e le condanne del papato, nel Sillabo, nei confronti d’ogni autonomia di un ordine umano e civile concepito al di fuori di riferimenti religiosi, in questo caso cristiani, o addirittura specificamente cattolici. In definitiva, occorre aprirsi a un modo d’investire sul passato e sul presente che avvalora la fecondità delle differenze, lontano da ogni visione idealista e surrettiziamente totalizzante.

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«Il tempo è superiore allo spazio». Nei molti bilanci provvisori pubblicati in occasione del decennale dell’elezione di Francesco è stata spesso ripresa e commentata questa citazione del documento programmatico del pontificato, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 222). Ma tale affermazione non può essere ratificata «in assoluto e fuori dal contesto in cui viene pronunciata». Di qui l’utilità di riprendere «ciascuno dei due termini in questione», il «tempo» e lo «spazio», per «individuare chiaramente che cosa comportano e per proporne un’articolazione» che «li convaliderà entrambi nei loro rispettivi contenuti». Questa ripresa si colloca su un orizzonte storico e filosofico che tiene sempre come riferimento la relazione che il cristianesimo ha stabilito con il tempo e con lo spazio, fino a formulare l’idea che esso e la Chiesa si propongano come «eterotopie, parola che dice sia un luogo (…) sia un altrove», e che in tal modo siano «intempestivi, ma nel cuore del tempo, per questo tempo e fatti di questo tempo»; accompagnati da narrazioni da riscrivere e da una legittimazione da ripensare «alla luce del civile e nel confronto e nell’interazione con i diversi modi che abbiamo di dare forma all’umano sulla superficie di questa terra».