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8 marzo – Femminismo

Rapporto tra donne e uomini, confini tra privato e pubblico: cosa ne è stato delle due questioni fondamentali poste dal femminismo degli anni Settanta?

Vengo da un percorso ormai quarantennale di partecipazione e impegno appassionato al movimento delle donne, l’unico movimento degli anni Settanta che ha superato le soglie del decennio arrivando sino ad oggi, anche se nel tempo ha cambiato fisionomia. Il femminismo oggi è rappresentato in tutte le città da gruppi, associazioni, centri di documentazione, produzione di libri e riviste, ma resta un patrimonio clandestino.

Il problema è perché, pur essendo ancora così presente e fonte di riflessioni, di idee e di pratiche politiche, viene dato costantemente per silenzioso, o addirittura morto. Salvo poi richiamarlo in vita quando serve. Io penso che ci sia stata, fino ad oggi, da parte della cultura politica in Italia, una tenace resistenza ad assumere gli interrogativi che venivano dal movimento delle donne, che ha smesso di occuparsi della “questione femminile” per portare l’attenzione sul rapporto tra i sessi, su quel dominio millenario dell’uomo che ha riservato a sé la scena pubblica e relegato le donne nel ruolo di mogli e madri, depositarie della conservazione della vita. La prima domanda il femminismo l’ha posta proprio alla cultura maschile. Ma, mentre negli altri paesi europei questa tematica è stata in qualche modo fatta propria dalla cultura e dalle forze politiche, da noi si può dire che è stata ostacolata, per non dire osteggiata.

Uomini e donne

Le aspettative di quella che è stata la grande rivoluzione culturale e politica del movimento delle donne degli anni Settanta si sono realizzate? Stando a uno sguardo superficiale, non c’è di che rallegrarsi. Le donne hanno conseguito sicuramente più diritti, più libertà, hanno una conoscenza e padronanza del loro corpo che non avevano, ma sembra che ne facciano un cattivissimo uso, se pensiamo alle figure femminili che compaiono in televisione, nella pubblicità, sui giornali. L’impressione che si ha è che non sia cambiato molto il modo con cui la cultura maschile ha considerato finora la donna: oggettivata come corpo, corpo materno e corpo erotico, corpo mercificato. Le figure femminili che negli ultimi anni abbiamo visto comparire in scena rientrano in una logica di mercato: sessualità in cambio di denaro, potere, carriera. Negli anni Settanta si diceva “il corpo è mio e lo gestisco io”, oggi si dice “il corpo è mio e lo vendo io”.

Gli uomini, fin dall’inizio, hanno subìto questo grande cambiamento: la consapevolezza nuova che arrivava improvvisa e imprevista dalle donne proprio nel mezzo di un processo rivoluzionario centrato quasi esclusivamente sul versante della società, in particolare sui rapporti produzione-lavoro. Le donne sottolineavano il fatto che non ci può essere rivoluzione senza liberazione della donna. Gli uomini non riuscirono allora a far proprio quell’interrogativo, ad avviare a loro volta, attraverso l’autocoscienza, un processo di liberazione dalla maschera di virilità che ereditano dai padri e che li costringe a recitare una parte.

Anche gli uomini, in un certo senso, subiscono la pesantezza dei ruoli tradizionali, dati come naturali. Era quindi importante che da parte maschile ci fosse l’assunzione di un proprio cammino di liberazione. La messa in discussione dei ruoli sessuali ha sicuramente terremotato delle certezze, ha rotto degli equilibri, sia pure alienati, che in qualche modo tenevano insieme la coppia, la famiglia, il rapporto con i figli. Da questo terremoto l’uomo è uscito indebolito.

Oggi si parla molto della fragilità maschile. La libertà femminile è come se avesse messo in luce, soprattutto nel rapporto di coppia, una dipendenza, una fragilità dell’uomo che era rimasta coperta. Ma sappiamo che la fragilità può facilmente trasformarsi in violenza. Gli stupri di gruppo dovrebbero far riflettere su quanto siano diventati difficili i rapporti uomo-donna. Oggi non si parla più di crisi della coppia o della famiglia, quanto piuttosto della difficoltà a mettersi in coppia, decidere di creare una famiglia o anche semplicemente di convivere. Questo ovviamente non è solo l’effetto del femminismo.

Ci sono molte donne che vivono sole con i figli, donne sempre più impegnate nel lavoro fuori casa, sempre più presenti nella vita pubblica, senza che per questo si sia eclissato il loro ruolo di mogli e di madri. Si tratta di cambiamenti che hanno prodotto un terremoto negli equilibri precedenti, senza che sia subentrato un nuovo assetto. È mancata la responsabilità della cultura politica che avrebbe dovuto registrare la modificazione del rapporto tra i sessi, e, di conseguenza, anche del confine tra i due ambiti in cui sono stati collocati, cioè la sfera privata e la sfera pubblica.

Pubblico e privato

Quello che si è consumato e spostato dagli anni Settanta in avanti è proprio il confine tra privato e pubblico, anche per effetto della società dei consumi, dei cambiamenti sociali e culturali che sono avvenuti. Il movimento antiautoritario nella scuola e il femminismo hanno tentato di orientare questo cambiamento, di interpretarlo, di affrontarlo con pratiche politiche nuove. Il femminismo ha sottratto alla “naturalizzazione” vicende essenziali come la nascita, la relazione tra i sessi, la maternità, l’amore, che hanno preso forma nella storia e nella cultura. Con lo slogan “il personale è politico” si intendeva dire che nella storia personale ci sono vicende che portano i segni della visione del mondo dettata da quell’ unico protagonista della storia che è il sesso maschile.

A entrare profondamente in crisi è stata la politica, a partire dal suo atto fondativo: l’affidamento della sfera pubblica esclusivamente al sesso maschile e il confinamento nelle case, oltre che della donna, anche di gran parte dell’esperienza umana. Paradossalmente sono state svalutate e relegate nel privato le esperienze più universali del vivere umano: il corpo con tutte le vicende che lo attraverso, come la nascita, la morte, l’invecchiamento, la malattia. Sono state affidate alla donna tutte le cure necessarie per la conservazione della vita, che, come tali, richiederebbero invece una responsabilità collettiva. La grande novità di quegli anni (una rivoluzione copernicana) era stata invece di pensare che la vita pubblica andava interrogata a partire da quello che era stato considerato tradizionalmente il suo “altrove”, la zona del non-politico.

 

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