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Che cosa abbiamo nel cuore

XXII domenica del tempo ordinario

Dt 4,1-2.6-8; Sal 15 (14); Gc 1,17-18.21-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-2

          Riprendendo la lettura semi cursiva del Vangelo secondo Marco, ci imbattiamo in un problema ancora attuale, ovvero quello dell’interpretazione, nel nostro caso della Torah, che possiamo considerare cifra di ogni legge autorevole. In seconda battuta c’è quello della tradizione.

          A lettura immediata parrebbe che proprio «tradizione» sia il termine al centro dell’attenzione del redattore, dato che ricorre cinque volte (paradosis, vv. 3.5.8.9.13). In realtà Gesù fa però slittare la discussione dal tema della tradizione a quello dell’interpretazione nei vv. 9-13 (omessi nella lettura liturgica), in quanto questione fondamentale.

          Certamente la tradizione non si limita a trasmettere, ma amplia e approfondisce un patrimonio. In questo ampliamento/approfondimento è compresa l’interpretazione, che si preoccupa di custodire e trasmettere il medesimo patrimonio comprendendolo in maniera dinamica.

          Si sa che, di fronte a un dettato della Torah che sia incerto o di non facile comprensione, il rabbinismo tende a un’interpretazione restrittiva e ad estendere la precettistica per coprire più casi che sia possibile. Ugualmente è possibile interpretare un precetto in una maniera capziosa e forse poco leale, sì che giochi a proprio vantaggio, come nel caso della quarta parola e del korban (vv. 10-11, omessi nella lettura liturgica).

          Riguardo invece la netilat yadayim, ovvero la «lavatura delle mani», che nei secoli ha salvato intere comunità da contagi e pestilenze, è stato giustamente notato (Stefani) che essa riguarda i sacerdoti prima di entrare in luogo sacro per l’offerta (Es 30,17-21). All’epoca di Gesù si era estesa ad alcuni gruppi minoritari, ma è stata codificata solo dalla Mišna (II sec. ev).

          Vale la pena ricordare che la cosa è tuttora discussa, perché nella lettera di Aristea (Ar 305s) si parla dell’estensione della pratica sacerdotale come di un fatto consolidato: «Lavatesi le mani in mare secondo il costume in uso presso tutti i giudei, non appena avevano pregato Dio, si volgevano alla lettura e alla spiegazione»: dunque in epoca preasmonea (Regev), secondo questa testimonianza, copisti e studiosi si lavavano le mani per attestare che «non avevano fatto nulla di male» prima di accostarsi alla Torah.

          Il testo di Marco presenta perciò alcuni problemi. La non osservanza infatti è imputata non a Gesù, ma ai discepoli e neppure a tutti (tinas ton matheton, 7,2), in un tempo in cui ancora l’osservanza tale non era o almeno era limitata ad alcuni ambiti. In ogni caso si tratta di un fatto rituale e, probabilmente, di una polemica intraecclesiale.

          Tuttavia a Gesù pare non interessare l’impurità in quanto tale, ma la sua radice o la sua origine, e gli interessa soprattutto dare a essa una sfumatura etica che di per sé non avrebbe.

          Il comandamento di Dio viene prima della tradizione degli uomini (v. 8). Si può vedere qui una nota polemica con la «tradizione degli anziani» (v. 3), poi avvalorata dalla Mišna in cui gli «anziani» sono un importante anello della catena della trasmissione della Torah e a cui si raccomanda di fare una siepe attorno alla stessa Torah, come si farebbe una recinzione attorno a una vigna per proteggerla senza soffocarla (Abot 1,1). La nota etica è enunciata in un mašal, un detto che, come fosse una parabola (7,15), viene poi spiegato ai discepoli a parte (7,17). Questo detto ha un precedente nel Sal 131, in cui si dice che è il cuore a dirigere lo sguardo. Il movimento è da dentro verso fuori.

          La citazione infine del testo di Is 29,16 rimanda alla medesima relazione esterno/interno con i termini «cuore» e «labbra». Con questo non si vuol dire che a cattivi pensieri corrispondano cattive azioni automaticamente, ma che c’è sempre il rischio di recitare la propria vita. Nel testo compare il termine upokriteis, «attori» (7,6), persone che agiscono un ruolo non loro e con la maschera. La cosa era guardata con molto sospetto sia dagli ebrei (per i quali l’unico caso di travestimento consentito era quello per la festa di Purim), sia dai cristiani, perché legata comunque al culto pagano. Il cuore dunque può governare volto e azioni. Più difficile l’inverso.

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