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Eternità digitale. Quando la morte è social

Novembre, mese dei santi e mese in cui ricordiamo i fedeli defunti: mese in cui riflettere sulla dimensione escatologica della nostra esistenza.

La rivoluzione digitale è giunta anche qui, sulla soglia dell’eternità, riproponendo l’antico desiderio d’immortalità, sganciandolo però da ogni collegamento con la salvezza.

La vita oltre la morte: "Avatar Project"

Laddove la fantascienza preconizza la possibilità di «scaricare» il nostro cervello, affidandolo a una macchina che ne perpetui le funzioni dopo la morte del corpo, e un progetto miliardario specifico lavora per realizzare entro il 2045 un avatar immortale di noi stessi, con la benedizione del Dalai Lama, l’elaborazione del lutto sui social media ha già una sua specifica cultura.

Oggi l’apparecchio della buona morte consiste per alcuni dei nostri contemporanei nel predisporre degli strumenti per cui non resti solo un buon ricordo, ma una struttura informazionale che simuli la vita ed eviti il distacco. Come ha raccolto Davide Sisto in La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale, gli strumenti e i rituali si moltiplicano.

Per cui possiamo trovare on-line MyDeathSpace, un sito specificatamente dedicato al caro estinto, una tomba virtuale e interattiva, con possibilità di commentare e con collegamenti ipertestuali ai profili social del defunto, magari raggiungibili attraverso un QR Code posto sulla tomba in pietra al cimitero.

Perpetuare il ricordo di un defunto è prassi che risale ai primordi dell’uomo, le piramidi sono là a raccontarcelo. La differenza sostanziale rispetto al passato è non solo la capacità tecnica di realizzare sepolcri sofisticati, ma la possibilità percepita di non distaccarsi davvero da chi è defunto.

Domande etiche: ci salverà la bellezza?

Qui si pone la vera questione: queste tendenze dell’era digitale impediscono una reale consegna della persona amata alla morte cosicché la memoria, pur doverosa, non si può trasformare in un memoriale – obbedendo alla dinamica pasquale – e aprire così alla risurrezione.

Come ha messo in luce Lacan, infatti, i rituali del lutto servono a dare un posto al morto, una sepoltura che lo separi dai viventi, permettendo a chi sopravvive di delineare una propria posizione soggettiva. Il lutto, in altri termini, ci permette di fare uno scatto in avanti verso il posto che abbiamo nel mondo, e il confronto con la morte ci educa a dare valore alla vita orientando la nostra opzione fondamentale.

Cancellare la consegna, il distacco, la frattura della morte significa inibire la nascita di una nuova vita e chiudere la porta alla dinamica escatologica. Quali strade educative possiamo suggerire? Seguendo ancora Lacan possiamo dire che l’unica via sana per sublimare la morte è la bellezza, la sublimazione è un gesto artistico, creativo che produce bellezza.

E allora il nostro mondo digitalizzato sarà salvato dalla bellezza, seguendo la lezione di Dostoevskij. La bellezza di relazioni che non si possono accontentare di un simulacro creato da un’intelligenza artificiale, di carezze che non possono essere sostituite da nessun avatar.

Per il grande scrittore russo il contrario di «bello» non era «brutto», ma utilitaristico: lo spirito di usare gli altri e così rubare loro la dignità (cf. Evangelii gaudium, n. 167). Educare alla bellezza significa educare a ciò che è inutile nella logica computazionale, ma che è umano e divino nella logica dell’eterno: la lezione dei nostri santi.

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