Il fiore del deserto
Il brano di Isaia che costituisce la prima lettura presenta un’immagine ardita, dato che non si dice semplicemente che il deserto accoglierà una fioritura, ma che esso stesso si trasformerà in un fiore.
III domenica di Avvento
Is 35,1-6a.8a.10; Sal 145 (146); Gc 5,7-10; Mt 11,2-11
Il brano di Isaia che costituisce la prima lettura presenta un’immagine ardita, dato che non si dice semplicemente che il deserto accoglierà una fioritura, ma che esso stesso si trasformerà in un fiore: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca» (Is 35,1).
Si parte da una realtà direi profondamente arida, dato che per tre volte si insiste sul fatto che si tratta di un «deserto», di una «terra arida», di una «steppa». Bene, questo «deserto» fiorisce, si trasforma in un fiore, un fiore di una bellezza e di un vigore senza eguali.
È difficile dire di che fiore si tratti, secondo la versione CEI di un narciso, secondo altre versioni di un asfodelo o persino di un giglio. Ma la cosa importante è che di fronte a tutto questo compare la gioia, la consolazione, la vita. Quel fiore è il segno, l’annuncio della venuta del Signore, per cui, anche se si è ormai vacillanti e stremati, bisogna resistere, perché «il Signore viene» e con lui viene la sua «vendetta», la sua «ricompensa», ovvero, la sua salvezza.
È bello sapere che la «vendetta» del Signore altro non è che la sua salvezza. Allora ogni situazione viene rovesciata, la terra, le persone, gli animali, sono oggetto di questa trasformazione, di questo «ribaltamento delle sorti».
E questi sono i segni della visitazione del Signore: «Si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto» e una profonda e intensa gioia guiderà questo corteo fino alla sua meta, a Sion, a Gerusalemme. L’incontro è lì, è lì che tutto si rivela, si compie, si consuma e si trasforma: «Perché da Sion uscirà la Torah e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2,3).
Molto probabilmente questo testo ha come primo riferimento il ritorno degli esiliati da Babilonia, un ritorno che è portatore di speranza, di rigenerazione, di vita. A ritornare però sono zoppi, ciechi e muti, persone claudicanti, malmesse, la cui disabilità esprime il segno, la cicatrice della loro sofferenza, del dolore sperimentato, della perdita subita.
Per costoro il deserto si trasforma in un fiore, la terra arida in una strada «santa» e il loro dolore in una gioia perenne. Ma la profezia non perde la sua forza, permane nel tempo, e anche se non sarà in realtà così facile o gioioso il ritorno degli esuli, le parole del profeta continueranno a essere motivo di speranza e di attesa.
Come ogni profezia biblica, essa non si esaurisce negli eventi prossimi o immediati, ma permane come finestra aperta al futuro, luce che dirige il suo raggio verso una pienezza che è sempre un «già e non ancora».
Così questo testo, come altri dello stesso tenore, assume nel tempo un carattere messianico, funge da faro di riferimento per riconoscere la venuta del Messia, una venuta che è segnata proprio dal ribaltamento delle sorti, dall’annuncio che tocca, cambia, guarisce quell’umanità ferita che porta con sé i segni della sofferenza, della violenza, della guerra, dell’ingiustizia, della perdita di ogni cosa, della fragilità, della debolezza e anche della disperazione. È questa l’umanità «visitata» dal Signore, coinvolta come in un abbraccio dalla venuta del Messia, un’umanità che attende la redenzione, l’ultima e definitiva parola di giustizia.
Proprio tutto questo ci porta a comprendere, allora, il modo in cui, nel Vangelo di oggi, Gesù risponde alla domanda di Giovanni «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?»: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo».
A questi segni «messianici», però, Gesù aggiunge un ulteriore elemento: «E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Perché si dovrebbe trovare in lui un motivo di scandalo? Perché questo Messia, che realizza questi segni, apparirà però allo stesso tempo «sconfitto», sofferente e, cosa ancora più grave, terminerà la sua vicenda terrena appeso a una croce, con una morte cioè infamante, così come lo stesso Paolo più tardi dirà: «Noi annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23).
Mistero profondo che ogni cosa tocca e comprende, perché ogni realtà possa essere raggiunta, possa essere assunta, perché ogni ferita possa essere curata, persino quella definitiva, senza appello, mortale. Tutto viene raggiunto, toccato, visitato, capovolto, persino la morte, e tutto viene assunto per ricevere vita per sempre, perché la «vendetta» del Signore possa manifestarsi per ciò che è: definitiva pienezza di salvezza.
A noi zoppi, ciechi, muti, feriti fuori nel corpo o dentro nell’anima, spetta accogliere l’invito del profeta: «Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti», «Coraggio non temete», «Egli viene a salvarvi»; e quando questo avverrà sarà per sempre.
