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«Il Signore stesso vi darà un segno»

IV domenica di Avvento

Is 7,10-14; Sal 23 (24); Rm 1,1-7; Mt 1,18-24

 

Il brano di Isaia con cui inizia la liturgia della Parola in questa quarta domenica di Avvento è di un’importanza direi capitale, per comprendere proprio come nasce l’aspettativa messianica nella storia di salvezza tra Dio e il suo popolo.

Il brano profetico fa riferimento all’anno 733 a.C. quando, contro la minaccia incombente del Regno assiro, il re di Aram (pressappoco l’odierna Siria) Resin e il re del Regno di Israele Pekach stringono un’alleanza militare per muovere guerra contro il Regno di Giuda. L’intenzione dichiarata è quella di colpire Giuda, incutergli paura e prenderne il controllo, installando sul trono un sovrano scelto da loro, indicato come il «figlio di Tabeel» (Is 7,6).

Il piano prevedeva la violazione delle difese della città, la destituzione di Acaz, re di Giuda, e l’interruzione della dinastia davidica che governava Gerusalemme da oltre due secoli e mezzo. Al posto di Acaz sarebbe stato insediato questo «figlio di Tabeel», un re vassallo, completamente assoggettato alla coalizione siro-israelita, e in questo modo tale coalizione sarebbe risultata più forte contro il comune nemico, ovvero l’Impero assiro.

Ovviamente, come lo stesso Isaia racconta, il re Acaz è preso da timore e tremore: «Allora il suo cuore e il cuore del suo popolo si agitarono, come si agitano gli alberi della foresta per il vento» (Is 7,2). È a questo punto che interviene Isaia, il quale rassicura il re sia sul fatto che non deve temere il loro assalto, sia sulla fine che a breve – «ancora sessantacinque anni» (Is 7,9) – i due regni faranno proprio per mano degli assiri: essi verranno distrutti e il loro territorio inglobato dalla grande potenza.

Inoltre, proprio al fine di rassicurare maggiormente Acaz su tutto questo, Isaia aggiunge: «Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall’alto» (Is 7,10). Ma Acaz, in una sorta di dimostrazione di pietà, rifiuta l’offerta di un segno: «Non lo chiederò e non metterò alla prova il Signore» (Is 7,12). Tale atteggiamento però non piace al profeta, che reagisce con rabbia: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio?» (Is 7,13). E aggiunge: «Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele» (Is 7,14).

Isaia si adira con Acaz perché, in realtà, dietro il suo rifiuto di chiedere un segno si nascondono dubbio e mancanza di fede. Acaz non si affida alla promessa di Isaia, ma cerca aiuto politico nel re d’Assiria, inviandogli oro e argento del Tempio e del tesoro reale. Questo gesto viene visto da Dio come una grave mancanza di fiducia, poiché Acaz preferisce appoggiarsi a una potenza straniera invece che confidare in Dio. Il segno annunciato da Dio, quindi, la nascita di un figlio da una giovane donna, va compreso proprio alla luce di questa infedeltà. È bene a questo punto anche sottolineare che il testo non parla di una «vergine», ma di una «giovane donna», in ebraico alma, forse alludendo a una giovane donna appena sposata.

La storia, comunque, fa il suo corso: Acaz diventa un vassallo del re assiro rinunciando così all’indipendenza del suo regno, e da lì a breve il re assiro Tiglat Pileser III annienterà il Regno del Nord e quello arameo. Finisce in questo modo, praticamente, il sogno di un regno davidico libero e indipendente, dato che circa due secoli dopo, con la successiva ascesa dell’Impero babilonese, anche il piccolo Regno di Giuda verrà distrutto e la dinastia davidica completamente cancellata.

Ma la profezia rimane, così come permane l’attesa di quella «nascita» che dà inizio all’idea che, in un futuro più o meno lontano, sarebbe comparsa una figura straordinaria chiamata a restaurare la gloria della dinastia di Davide, a portare una pace duratura nel paese e a consolidare il regno per sempre. È qui, dunque, che prende forma l’attesa di un messia. Un messia che non avrebbe combattuto battaglie o vinto guerre, ma che avrebbe portato al popolo e a quella terra giustizia, rettitudine e pace.

Se teniamo conto di tutto questo, allora le parole che nel Vangelo l’angelo rivolge a Giuseppe, «figlio di Davide», acquistano un più profondo spessore e, se vogliamo, offrono una maggiore capacità di comprensione allo stesso Giuseppe. La realtà davanti alla quale Giuseppe è messo di fronte è enorme; egli conosce la storia del suo popolo, conosce la profezia di Isaia, conosce e attende il compimento di quella profezia.

Sa anche che il Messia è prossimo a venire, che la sua nascita sarà «nel seno di Davide» – non è per caso, infatti, che Matteo inizia il suo Vangelo con queste parole: «Genealogia di Gesù Messia figlio di Davide» (Mt 1,1) –. E sa che il Messia atteso sarà il salvatore del suo popolo. Ma sapere tutto questo non lo risparmia, anzi gli rende ancora più pesante e difficile il suo compito, dato che proprio lui e non altri sarà «padre» del Messia e lo sarà, paradossalmente, proprio rinunciando a esserlo, rinunciando a generarlo.

È grande, e forse ancora non del tutto pienamente compresa, proprio nel suo messaggio più profondo, la figura di questo «padre» che si fa di lato, che rinuncia alla propria «mascolinità», che promuove questa «donna», non ancora sua sposa, dandole la possibilità di generare non una semplice vita, ma ciò che permette la vita, che trasmette vita, che è salvezza.

Nell’attesa della venuta definitiva del Messia, speriamo che il Signore Dio susciti dei «Giuseppe» di cui il popolo di Dio ha tanto bisogno.

Federico Barocci, Testa di san Giuseppe, studio, 1586 circa. Los Angeles, Getty Museum.

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