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La «Magna Charta» del Regno

Continua la riflessione sul Regno, e questa volta con quella che si potrebbe definire la «Magna Charta», lo statuto fondamentale che identifica gli appartenenti al Regno.

IV domenica del tempo ordinario

Sof 2,3; 3,12-13; Sal 145 (146); 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12a

Continua la riflessione sul Regno, e questa volta con quella che si potrebbe definire la «Magna Charta», lo statuto fondamentale che identifica gli appartenenti al Regno. Sono i poveri, gli afflitti, gli affamati, i bisognosi, ma anche chi a tali bisogni risponde, come gli operatori di pace, i perseguitati per la giustizia, i misericordiosi.

Non solo, ci sono anche i puri di cuore, quelli che vedono Dio, forse tra loro potremmo inserire anche i contemplativi o gli eremiti, che certamente non sono attivi, almeno non nel senso che si intende solitamente. Chi proclama questa «Magna Charta» è Gesù, e la cosa forse più incisiva è che egli stesso incarna ciascuna di queste categorie, ovvero vive, fa esperienza in prima persona, di ognuna di queste realtà.

Gesù è povero, come riporta il testo delle beatitudini di Luca, o povero in spirito, come dice Matteo, specificando così che non si tratta solamente o unicamente della povertà materiale, ma di un atteggiamento interiore di chi è consapevole della propria non autosufficienza. Povertà quindi come condizione creaturale, come limite liberamente assunto da una parte, e dall’altra povertà materiale come solidarietà con chi la povertà non la sceglie, ma si ritrova in essa. Così vale anche per la fame, che egli stesso sperimenta, il pianto, gli insulti, la persecuzione.

Gesù vive anche la dimensione più attiva: opera la pace, usa misericordia, persegue la giustizia, agisce con mitezza. Su questo punto forse andrebbe sottolineata la dimensione attiva del concetto di mitezza. In generale si pensa che il mite sia qualcuno che non reagisce a una provocazione, che non si arrabbia, non s’indigna. Ma la mitezza «biblica» è qualcosa di ben altro, è l’espressione più alta della propria libertà di autolimitare il proprio potere, la propria forza, per dare la possibilità all’altro di essere nella sua diversità.

A insegnare tale tipo di mitezza è proprio Dio, quando, secondo il primo capitolo della Genesi, alla fine del settimo giorno cessa di creare, pone un limite a se stesso e alla propria potenza creatrice, per dare spazio all’«altro», per lasciare che l’«altro», proprio grazie alla sospensione del suo potere, risponda, possa liberamente relazionarsi a lui.

Infine anche la dimensione più «contemplativa» non è estranea a Gesù: egli è il puro di cuore, il cui sguardo è rivolto a Dio, e nelle sue giornate non manca mai il tempo della preghiera, della contemplazione pura, della relazione più profonda con il Padre. Proprio per tutto questo la proclamazione di questo statuto fondamentale che caratterizza il Regno acquista uno spessore e una veridicità inconfutabile. Solo lui può fare questo proclama, scandire le caratteristiche di tale Regno, ma soprattutto, dichiarare che coloro che ne fanno parte sono «Felici!». 

Ora questa felicità, «beatitudine», è declinata in due tempi. Se l’appartenenza al Regno è già nel presente, ed è fonte di beatitudine – «Beatii poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. (…) Beatii perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» –, c’è un’altra beatitudine che, pur essendo già tale, si collega però al futuro: «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».

In tutti questi casi, infatti, anche se lo stato di felicità è già nel presente, il rovesciamento o il compimento della situazione descritta è ancora «in itinere», in divenire. A prima vista, e forse anche a seconda o terza vista, un discorso del genere sembra essere paradossale se non poco credibile: come fa uno che è nel pianto a sentirsi allo stesso tempo felice? È questo forse il segreto del Regno, il motivo per cui non è facile vederlo e rimane nascosto agli occhi dei più.

Il Regno è una porta reale che si può attraversare. Attraverso di essa si può andare oltre il limite del presente, vedere la pienezza che ci attende, scoprire la risposta che Dio ha già dato alle nostre lacrime e sofferenze, contemplare la misericordia e saziarsi della giustizia. Se la realtà che abbiamo davanti agli occhi certo non può essere fonte di felicità, coloro che appartengono già a questo Regno sanno attraversare quella porta e vedere la pienezza, e quel «sapore» di felicità rimane anche quando il loro sguardo ritorna al di qua, in ciò che noi chiamiamo «reale». 

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