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La prova e la fede

XII domenica del tempo ordinario

Gb 38,1.8-11; Sal 107 (106); 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41

Avevamo lasciato Gesù e i suoi in un probabile ambiente chiuso e riservato, in cui aveva spiegato loro la parabola del seminatore e raccontato altre brevi parabole.

          Di colpo siamo di nuovo trasportati non solo all’aperto, ma sul lago, e viene precisato che c’è come un ordine di partenza da parte di Gesù (v. 35), ma che gli apostoli lo prendono con sé «così com’era» (paralambanousin auton hos en, v. 36).

          Questo dettaglio sembra contraddire il fatto che si fossero trasferiti in un ambiente chiuso, ma potrebbe anche voler sottolineare la fretta di questa partenza, la cui concitazione è magari sottolineata dal verbo al presente storico (paralambanousin). O ancora: «Questo riferimento potrebbe essere preso come prova che 4,10-25, dove Gesù è fuori della barca ed è solo con i Dodici e alcuni altri, è un passo che è stato inserito in un racconto precedente continuo» (Donahue-Harrington).

          Al di là dei problemi redazionali, tutto il breve racconto che segue è in realtà contrassegnato dal contrasto tra dettagli naturalistici forti e reazioni umane, tutto sommato, pacate.

          Insorge improvvisa infatti una tempesta di vento, lailaps, un termine abbastanza raro il cui suono dolce non deve trarre in inganno: compare nei LXX (per esempio Gb 21,18, 38,1; Sap 5,14; Sir 48,9.12, dove è il turbine che rapisce Elia; e Ger 32,32) associato a una teofania o a un giudizio. Nel Nuovo Testamento compare qui (v. 37), in Lc 8,23 e 2Pt 2,17 e Marco lo descrive come «grande» (lailaps megale anemou, v. 37): dunque si tratta di un turbine simile a un tifone, che però idealmente collega il cielo e la terra, proprio perché legato a teofania e giudizio (Elvey).

          Matteo dà una versione interessante del fenomeno, perché lo chiama seismos megas, quasi fosse un maremoto – Matteo usa lo stesso termine nella passione e nella risurrezione (cf. il verbo in 27,51, e sempre seismos in 28,2) –.

          Comunque, barca piena d’acqua e orizzonte inclinato fanno davvero pensare che la fine sia prossima.

          E tuttavia nessuno grida e alza la voce: non compare nessun verbo di quelli che Marco usa per esprimere questa reazione, ma semplicemente «lo svegliarono e gli dissero» (egheirousin auton kai legousin autō, v. 38). Infatti nel frattempo Gesù si è addormentato e dorme, quasi simbolo dell’assenza di Dio dalle umane tragedie. È però un’assenza temporanea, per cui anche se si parla sì di silenzio di Dio, il Primo Testamento parla di sonno (Sal 44,24, 78,65) e nel pensiero recente si è parlato di eclissi di Dio (Buber) quasi a sottolinearne la temporaneità.

          Al risveglio neppure Gesù sembra alzare la voce: apostrofa il mare con termini analoghi a quelli di un esorcismo (v. 39, cf. Mc 1,25), e soprattutto interpella i discepoli. Essi gli avevano chiesto se gli importasse della loro vita; egli chiede perché siano codardi (deiloi, v. 40), con un aggettivo che ha in sé una punta di commiserazione, e se non abbiano ancora fede (oupo echete pistin, vv. 40), quasi sovrapponendo i due termini e la vita dipendesse dalla fede.

          In questo caso i discepoli non sono oligopistoi, «di poca fede», ma è come se proprio non avessero fede e quindi non avessero neppure vita. Il loro timore infatti non viene dal senso del numinoso, come in alcune teofanie del Primo Testamento (cf. Sal 29), ma è un segno della loro povertà umana.

          La tempesta è stata per loro un banco di prova: se il seme cresce anche durante il sonno del contadino (Mc 4,26ss), la presenza divina resta anche se Gesù dorme: torna il vecchio problema della fede dell’evidenza e del bisogno di constatare.

          Ma resta ancora una domanda che i discepoli si rimandano l’un l’altro e che riguarda l’identità di Gesù.

          È una strana domanda, perché essi hanno implicitamente riconosciuto che la loro vita dipende da lui, così come ne riconoscono l’autorevolezza magisteriale (cf. al v. 38: didaskale, qui per la prima volta) e tuttavia si chiedono chi egli sia usando un pronome che pone una certa distanza (tis ara houtos estin, v. 40).

          Pare che l’interrogativo sia dettato, più che da timore reverenziale, dallo sconcerto. Paurosi e senza il coraggio di chiedere a lui direttamente chi sia; da commiserare più che da rimproverare.

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