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Le pecore sono del Signore

III domenica di Pasqua

At 5,27-31.40-41; Sal 30 (29); Ap 5,11-14; Gv 21,1-19

Nella redazione attuale, il Vangelo di Giovanni colloca nel suo ultimo capitolo una scena in qualche modo accostabile a quella matteana del «primato di Pietro» (Mt 16,17-19). In Matteo l’«investitura» è seguita immediatamente dal primo annuncio della passione; si tratta di parole non comprese da Pietro che, per questo motivo, rimprovera Gesù il quale, a sua volta, lo qualifica come «Satana» poiché gli è di scandalo ragionando secondo gli uomini e non già secondo Dio (Mt 16, 22-23). Nel quarto Vangelo il comando rivolto a Simon Pietro di pascere agnelli e pecore avviene, invece, nel contesto di un’apparizione del Risorto. Non è più il tempo di scandalizzarsi per l’annuncio della passione; è però ancora il momento di ricordare quanto avvenuto attorno al fuoco acceso nel cortile del sommo sacerdote.

I commenti antichi e moderni concordano nel riconoscere nella triplice attestazione di amore da parte di Pietro il controcanto al triplice rinnegamento avvenuto nella notte della Passione (Gv 13,38; 18,17.25-27). In entrambe le circostanze vi è un «altro discepolo»; nel primo caso è colui che intercede presso la portinaia (per lo più identificato con il «discepolo amato»), nel secondo è esplicitamente il «discepolo amato» rispetto al quale Pietro chiede ragguagli a Gesù (Gv 21, 20-23). L’«altro discepolo» è figura silente sia durante il tradimento sia nel corso della triplice dichiarazione di amore compiuta da Pietro. Sta sullo sfondo, tuttavia, nella sua silenziosa presenza, il discepolo mette, in un certo senso, in rilievo le parole rispettivamente di rinnegamento e di amore pronunciate da Simon Pietro. 

Nella triplice domanda rivolta a Pietro se fosse uno dei discepoli, l’apostolo risponde di non esserlo. Le traduzioni di solito aggiungono un «lo» assente nell’originale. Pietro infatti afferma semplicemente: «Non sono (ouk eimi) [così per es. anche nella seicentesca King James I am not”]» (Gv 18,17.25.27). Pietro nega la propria condizione di discepolo perché si contrappone implicitamente alla formula «Io sono (ego eimi)» con cui nel Vangelo di Giovanni Gesù è solito presentare se stesso (cf. per es. Gv 4,26; 6,20-35; 8,12.58; 10,7.11; 11,25; 14,6; 15,1). Il misconoscimento parla la lingua dell’antitesi; dicendo «non sono», Pietro rinnega sia Gesù sia se stesso. L’apostolo, cioè, volta le spalle al più profondo svelamento di sé compiuto dal Figlio. 

Pietro aveva detto: «Darò la mia vita per te!»; proprio allora Gesù gli preannunciò che, prima del canto del gallo, lo avrebbe rinnegato tre volte. «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la vita per le pecore» (Gv 10, 11). Solo uno è in grado di dare, in senso pieno, la propria vita perché altri l’abbiano in abbondanza (Gv 10, 9). Dopo che Gesù ha dato la propria vita e l’ha ripresa (Gv 10, 18), Pietro riceve l’ordine di pascere agnelli e pecore. Il Vangelo si preoccupa di porre sulle labbra di Gesù l’aggettivo possessivo di prima persona singolare: «Pasci i miei agnelli [...] pascola le mie pecore [...] pasci le mie pecore» (Gv 21,15.16.17).

Il gregge resta per sempre e solo del Signore. È lui che ha dato la vita per i suoi amici: «Nessuno ha amore più grande di quello di dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici se fate quello che vi ho comandato» (Gv 15,13-14); versetto empiamente citato, nella sua prima parte, da Vladimir Putin senza che le sue parole ricevessero un’esplicita condanna da chi, a Est e a Ovest, è chiamato, in primis, a pascere le pecore del Signore che ha dato la vita per noi. 

Il riferimento a dare la vita spiega le parole che succedono alla terza professione di amore pronunciata da Pietro. Subito dopo il comando di pascere le pecore, compariranno infatti sia il preannuncio della morte che subirà Pietro sia il comando «Seguimi» (Gv 21,19). Seguire Gesù comporta riproporre, nella luce della Pasqua, parole antiche: «Il tuo amore vale più della vita» (Sal 63,4). 

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