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L’impotenza paterna

IV domenica di quaresima

Gs 5,9-12; Sal 34 (33); 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32

Parabola celebre, letta, commentata e riscritta mille volte, quella del «Padre misericordioso e dei due fratelli» (titoletto in cui è già racchiusa una delle possibili interpretazioni).

Uno dei motivi della sua perenne attualità sta nel fatto che, per quanto penalizzata dall’assenza di figure femminili, la lettera della parabola è facilmente trascrivibile nei termini della vita reale. La questione dell’eredità (vale a dire il fatto che i beni durano più della vita dei loro attuali possessori) costituisce una perenne questione intergenerazionale ed è spesso motivo di contrasto tra parenti.

Nel Nuovo Testamento vi sono poche narrazioni imperniate su famiglie concrete, questa penuria fa sì che sia una parabola a trasformarsi in un testo predisposto a incrociarsi con la vita reale. Letto sotto quest’angolatura, il padre misericordioso, più che essere figura di Dio, invita a pensare alle vicende del re Davide. Sul paragone pesa, però, la differenza costituita dalla presenza o dall’assenza di tre fattori: la dimensione politica, la struttura monofamiliare (peraltro sempre meno egemone anche nelle nostre società), la morte reale.

Dopo la nascita di Salomone, il secondo figlio avuto da Betsabea, in seno alla grande famiglia davidica si succedettero, senza tregua, grandi drammi. Spada e violenza non abbandonarono più quella casa: il primogenito Amnòn violenta la sorellastra Tamar e Assalonne, fratello della violentata, fa uccidere per vendetta il fratellastro (2Sam 13,8-15.21-36). In seguito Assalonne, dopo essere stato con le concubine del padre, si ribella a Davide, cerca di fondare un proprio potere regale, ma viene infine affrontato e ucciso in guerra (2Sam 18,19-19,9).

Davide assiste inerme alle lotte cruente che avvengono tra i suoi figli. Il suo volto si copre di lacrime dapprima per Amnòn, poi per Assalonne. Nel caso del primogenito, la cronaca risulta eloquente nella sua asciuttezza: «Il re fece lutto per suo figlio per lungo tempo» (2Sam 13,37). Di contro, quando viene informato della morte del figlio ribelle, il grido di lamento del padre non trova argini: «Figlio mio! Assalonne, figlio mio! Fossi morto io al posto tuo. Assalonne, figlio mio, figlio mio!» (2Sam 19,1).

Il generale Iaob (per certi versi archetipo del fratello maggiore della parabola lucana) rimprovera aspramente il proprio re che sembra dar mostra di amare coloro che lo odiano e di odiare coloro che lo amano. Davide, alla fine, si sforza e accetta la ragione di stato e si presenta al popolo (cf. 2Sam 19,6-9); il suo cuore continua però a piangere la morte del figlio ribelle. 

Al pari del padre della parabola, che non riesce a scongiurare il traviamento del figlio minore, anche Davide vive nell’impotenza. Non è in grado di guidare, di intervenire al momento opportuno e, incapace di agire, vede i suoi figli sviarsi fino all’orrore. Versa lacrime anche quando sono colpevoli. Il re diviene uomo e padre attraverso la sua capacità di far lutto per i propri figli, innocenti o colpevoli che siano. Non si cura della profezia che gli aveva promesso una grande discendenza (2Sam 7,11-14). Non pensa da re, vive da padre e in questo suo ritornare a essere uomo manifesta l’immagine e la somiglianza di Dio.

Da un padre siamo così invitati a risalire di nuovo al Padre. Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe è il Signore che vuole che i propri figli si amino tra loro (cf. Lv 19,18.34). Lui li ama per primo, ma troppo spesso è costretto a vedere che essi si detestano a vicenda, si fanno guerra e si ribellano a lui. Eppure egli, al pari di Davide e del padre della parabola, continua ad amarli: desidera mutare il loro cuore ma non vuole farlo senza il loro assenso. Attende quindi un doppio ritorno: a sé stessi («allora ritornò in sé», Lc 15,17) e a lui.

In Davide, nel padre della parabola e in Dio l’impotenza a prevenire lo sviamento è un volto sofferente dell’amore. L’uomo Davide, in virtù delle sue lacrime, afferma che c’è qualcosa di più alto dell’idea di dominio divino della storia, in cui giuste punizioni succedono alle colpe: si tratta della scelta di piangere sia sugli innocenti sia sui colpevoli.

Sono lacrime che Dio fa sue. Sorge però una domanda lacerante: su cosa mai possiamo appoggiarci, se neppure il Signore è in grado di mutare il cuore umano?

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