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Nell’attesa del «veniente»

Questa seconda domenica di Avvento si apre con la lettura della profezia di Isaia. Una profezia piena di speranza che guarda alla venuta di un germoglio, una nuova nascita.

II domenica di Avvento

Is 11,1-10; Sal 71 (72); Rm 15,4-9; Mt 3,1-12

 

Questa seconda domenica di Avvento si apre con la lettura della profezia di Isaia. Una profezia piena di speranza che guarda alla venuta di un germoglio, una nuova nascita: si tratta dell’annuncio del Messia davidico, «che spunterà dal tronco di Iesse», padre di Davide. Un Messia re, di stirpe davidica, che è animato dallo «spirito del Signore» ed è capace di governare con giustizia e rettitudine. Tale capacità di governo, poi, si ripercuoterà su tutto il creato, ristabilendo l’armonia, la pace e la tranquillità dell’inizio della creazione: non ci sarà più violenza nemmeno tra gli animali e la loro convivenza sarà pacifica e in sintonia anche con gli uomini.

Il riferimento ai primi due capitoli di Genesi si fa ancora più chiaro con la menzione del cibo: tutti gli animali saranno vegetariani, si ciberanno solo di erba. In qualche modo, insomma, si realizza il disegno iniziale di Dio, o forse – se consideriamo che i primi due capitoli di Genesi non sono tanto ciò che ci sta alle spalle, quanto ciò che è davanti a noi – dovremmo dire il disegno finale di Dio, la completa realizzazione del mondo, dell’universo, così come è stata pensata e voluta dal creatore e così come è stata a noi rivelata.

Dal rapporto uomo-animale si passa poi al rapporto tra i popoli, che saranno «inondati» fino a essere ricoperti della «conoscenza del Signore»; una sorta di nuovo diluvio, questa volta però non distruttivo o mortale, ma vitale e trasformante. Tutto questo, afferma il profeta, avverrà quando la «radice di Iesse si leverà a vessillo per i popoli». Di nuovo, quindi, si ribadisce come il Messia, l’unto, sarà un re di stirpe davidica riconosciuto tale da tutti i popoli.

Questo dunque è il nostro orizzonte, la nostra speranza, la nostra attesa: una parola di pienezza e di armonia che attende il suo compimento, la sua rivelazione ultima; una rivelazione data a tutti i popoli, perché resi capaci di riconoscerla e di accoglierla, proprio nella loro diversità e particolarità.

Anche per noi cristiani questa profezia rimane tale, anche noi attendiamo la venuta definitiva del Messia e speriamo e crediamo che la direzione in cui il mondo va, nonostante tutte le contraddizioni che ben conosciamo, sia proprio quella della pienezza, della luce, dell’armonia, della pace.

Che cosa c’è dunque in più o di diverso per noi? La possibilità di cogliere che tale definitiva venuta è stata preceduta e annunciata da una prima venuta, che il Messia atteso ha un volto, un nome, una storia e, soprattutto, un messaggio performante, dato che tutto in lui, consumato totalmente nell’amore, è già redenzione, cambiamento, pienezza di vita, punto di non ritorno. La realtà del Risorto permea e assume tutta la nostra realtà e la nostra storia, racchiudendola in sé: egli è l’alfa e l’omega, il principio e la fine e tutto quanto è attesa, speranza, è in lui già compimento.

Questa certezza ci dovrebbe dare respiro, dovrebbe disporre i nostri animi a una visione diversa, dovrebbe darci la possibilità di uno sguardo che sia «oltre» l’umano sentire. A volte, invece, o forse spesso, più che seguaci del Risorto ci ritroviamo discepoli del Battista, predichiamo punizioni, auspichiamo una violenta giustizia, una definitiva condanna dei cattivi e una separazione dei buoni, con il conseguente drammatico dilemma di chi sono i «veri» buoni e chi i «veri» cattivi.

Certo seguire il Battista è più facile, è dividere la realtà in bianco e nero, senza zone o sfumature di grigio, ma il pericolo è che alla fine – com’è stato per lo stesso Giovanni Battista – ci si può ritrovare spiazzati, forse anche delusi, sicuramente confusi. L’autenticità del Battista è fuori discussione, così anche la sua rettitudine e buona fede, ma alla fine è proprio la sua rigidità, il suo desiderio di separare i giusti dai cattivi, i santi dai peccatori, «il grano dalla paglia» a confonderlo, e così prima di morire manderà a chiedere a Gesù: «Sei tu quello che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3; Lc 7,19-20). Triste domanda sia per chi la fa che per chi la riceve.

Chi stiamo dunque aspettando? A quale ad-ventus dobbiamo rivolgere lo sguardo? Forse prima di rispondere, o anziché tentare di rispondere a questa domanda, ci farebbe bene immergerci nella profezia di Isaia, una profezia ancora viva, sperata, attesa, una profezia che ci fa percepire di quale «destino» siamo fatti, «tutti», nella nostra diversità di popoli, lingue e nazioni. Entrare solo con l’ascolto e con la visione interiore in «quel mondo» da sempre e per sempre voluto da Dio e lasciarci trasformare il cuore e l’intelletto da tale «prossima, precedente e futura» realtà è ciò che ci permette di vivere l’«attesa», la «venuta» di «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,8).

Edward Hicks, Regno pacifico, 1830-32 circa. New York, Metropolitan Museum of Art.

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