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Nelle mani del Figlio

IV domenica di Pasqua

At 13,14.43-52; Sal 99 (100); Ap 7,9.14-17; Gv 10,27-30

La IV domenica dopo Pasqua è chiamata «domenica del buon Pastore». In questa occasione negli anni precedenti (A e B) sono state proposte le parti iniziali del decimo capitolo di Giovanni (A: Gv 10,1-10; B: Gv 10,11-18). Nel terzo anno (C) si legge un passaggio evangelico in cui viene ripresentata, in modo esplicito, la figura delle pecore (Gv 10,27-30) e, in maniera implicita, quella del pastore.

Si è solo pochi versetti dopo, tuttavia il contesto è divenuto profondamente diverso. In precedenza si era parlato delle pecore che si trovano nel recinto, poi di altre pecore che, pur essendo del pastore, stanno ancora altrove (Gv 10,16); le une e le altre sono tuttavia chiamate a formare un solo gregge.

Esiste però anche chi sta al di fuori. Il contesto si è fatto bruscamente polemico. I Giudei sfidano Gesù a dire apertamente se è il Cristo (il Messia, cf. Gv 1,41). Al che Gesù risponde che sono le opere da lui compiute a dargli testimonianza: «Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore» (Gv 1,26). Il versetto (che precede immediatamente la breve lettura evangelica di questa domenica) inquieta; lo si comprenderebbe più facilmente se i termini fossero invertiti: voi non fate parte delle mie pecore perché non credete.

«E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10,16). I verbi sono al futuro. Ciò comporta che, nel presente, quelle pecore ignorino di stare altrove e di avere un altro pastore. A saperlo è solo quest’ultimo. Quando le pecore lo incontreranno e ascolteranno la sua voce, conosceranno quanto è stata grande la loro passata lontananza e quanto è preziosa la loro attuale vicinanza. Nella vita dei chiamati alla fede è sempre così: seguire il buon Pastore significa essere tratti fuori dal proprio recinto per abitare nel suo. Ciò comporta uscire da sé stessi per trovare il proprio autentico sé nella relazione con lui.

La realtà diviene più drammatica quando si tratta di rapportarsi con il rifiuto. Il linguaggio si fa duro specie quando Gesù, rivolto ai Giudei, afferma: «Non fate parte delle mie pecore» (Gv 10,26). Anche il Figlio a volte è dunque costretto a parlare il linguaggio dell’esclusione? La liturgia di questa domenica priva il testo di questo versetto introduttivo; la scelta tende, evidentemente, a porre l’attenzione sui comportamenti che devono contraddistinguere chi fa parte del gregge: ascoltare la voce di Gesù, conoscerlo e seguirlo.

Quanto rende possibile l’ascoltare, il conoscere e il seguire è un’appartenenza che precede ogni possibile azione compiuta dai credenti: «Nessuno le [pecore] strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti» (Gv 10,28). Le mani del Figlio ci precedono. Il gregge è custodito dal solo pastore che ha dato la vita per esso (Gv 10,11). La fede si fonda su quest’unica verità. Il rifiuto, visto come antitesi alla fede, è collegato a un’incredulità che consegue alla non appartenenza al gregge. 

«Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30): i Giudei colgono la frase come una bestemmia pronunciata da chi, pur essendo uomo, vuole farsi come Dio (Gv 10,33). Sulle prime ci si chiede se la frase non sarebbe stata più consona se avesse invertito i termini: «Il Padre e io siamo una cosa sola». Non è così. Il ricorso alla prima persona singolare qui non rappresenta un tentativo di sollevarsi verso l’alto; al contrario, siamo di fronte a un modo per affermare che è dall’operare che si rivela l’unità: «Le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me» (Gv 10,25).

Anche in un ambito semplicemente umano si può comprendere come la più autentica testimonianza a favore di sé stessi avviene quando si agisce in nome e a vantaggio di altri. L’identità che proviene dalla volontà di porsi come punto di riferimento è sempre falsa e pericolosa. Gesù dà la vita per le pecore e opera in nome del Padre suo. Quando, in senso collettivo o individuale, si agisce per affermare sé stessi si ingenerano infatti catastrofi, grandi o piccole che siano.

 

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