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Pace in cielo

Domenica delle Palme

Lc 19,28-40; Is 50,4-7; Sal 22 (21); Fil 2,6-11; 22,14-23,56

In ogni messa cattolica si recita il Sanctus. Il breve inno, posto in conclusione del prefazio, è composto da due parti: la prima «celeste», la seconda «terreste». Entrambe riprendono passi biblici.

Le parole iniziali (attestate nella liturgia cristiana fin dal IV secolo) derivano dalla visione di Isaia, nel corso della quale il profeta udì i serafini cantare: «Santo, santo, santo il Signore delle schiere (zevaoth). Tutta la terra è piena della tua gloria» (Is 6,3; cf. Ap 4,5).

L’altra parte (presente nella messa romana dal VII secolo) proviene dalla frase gridata dalla folla all’ingresso di Gesù a Gerusalemme: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei cieli» (Mt 21,9), parole riprese dal Salmo 118 (117), 26 («Benedetto colui che viene nel nome del Signore»), mentre dal verso precedente deriva «Osanna» («da’ salvezza», hoshi‛ah na, «Ti preghiamo, Signore, da’ salvezza»).

Il Salmo, recitato per la «frondosa» e autunnale festa delle Capanne (Sukkot), presentava questo passo come un dialogo tra chi saliva al tempio e invocava salvezza e vittoria e chi rispondeva dal tempio con una formula di benedizione accogliente. La novità evangelica sta dunque nell’introdurre l’espressione «nel più alto dei cieli».

Alle soglie del canone e della consacrazione, la liturgia da un lato rende l’assemblea celebrante partecipe alla gloria degli angeli, mentre dall’altro fa memoria del suo Signore che, in terra, entra a Gerusalemme per andare incontro alla sua pasqua. Il Sanctus attesta che l’eucaristia congiunge tra loro cielo e terra. Il canto dei serafini si incontra con un «Osanna» che, proprio come avviene nella domenica delle Palme, introduce alla Passione.

Il riferimento all’Osanna dipende da Matteo e Marco. La traslitterazione della parola ebraica è invece assente in Luca, al suo posto troviamo: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli» (Lc 19,38). Gli esegeti fanno rilevare che la traslitterazione dall’ebraico sarebbe suonata poco comprensibile ai destinatari del Vangelo lucano. Osservazione pertinente ma, specie se riproposta nei nostri duri giorni, irrimediabilmente riduttiva. 

Che l’invocazione di salvezza contenuta nell’«Osanna» sia diventata un tesoro nascosto è provato dal fatto che nel linguaggio comune essa è assunta come espressione di trionfo e non già come una richiesta; è colta come sigillo di quello che c’è e non già di quanto manca. Tuttavia, in queste settimane, quanto è proprio dell’«Osanna» va applicato alla «pace»; la parola scelta da Luca ci dice, più di ogni altro termine, sia quello a cui aspiriamo sia quello di cui siamo privi.

Il grido messo in bocca alla folla dei discepoli nei pressi della discesa del monte degli Ulivi (Lc 19,37) richiama quanto proclamato a Betlemme da una moltitudine di voci angeliche: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Alla nascita di Gesù creature celesti esaltano la presenza della gloria in cielo e della pace sulla terra. La via della pace (cf. Lc 1,79; Is 52,7) appariva allora spianata. Nei pressi del monte degli Ulivi la voce di creature terrestri colloca, invece, in cielo sia la gloria sia la pace. Perché? Pur privo di ogni sostegno esegetico, un pensiero si impone alle nostre menti: si invoca pace in cielo perché neppure là ci può essere pace fino a quando sulla terra c’è guerra.

Luca afferma che i discepoli gridavano «pieni di gioia» (Lc 19,37), eppure, subito dopo le acclamazioni rivolte verso una pace che deve regnare in cielo, si introduce una scena nella quale è scomparsa ogni gioia.

Il terzo Vangelo, spoglio di fronde (si parla solo di mantelli stesi per terra), indica una distanza tra le grida di giubilo nei pressi della discesa nel monte degli Ulivi e l’ingresso in città. Nel momento in cui all’orizzonte compare Gerusalemme, il tono muta radicalmente: «Quando fu vicino alla vista della città [Gesù] pianse su di essa (…) Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te» (Lc 19,41-44).

Molte altre sono le città su cui oggi occorre versare lacrime.

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