Peccatori inermi?

III domenica di Quaresima
Es 3,1-8a.13-15; Sal 102 (103); 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
Il Vangelo di questa domenica ci rimanda a una qualsiasi triste pagina dei nostri giornali quotidiani: ci sono dei morti, vittime della violenza di qualche potente tiranno; nel nostro caso l’assassinio di tali persone ha connotati sia religiosi – si trovavano nel tempio per i sacrifici – che politici, dato che il termine «galilei» può significare anche zeloti, per cui la violenta strage poteva essere stata anche la repressione di una sommossa. Che Ponzio Pilato non avesse mezze misure è un fatto storicamente risaputo, quindi l’episodio sembra più che plausibile.
Ma ciò che sorprende non è tanto la notizia in sé, quanto il modo in cui Gesù reagisce a tale annuncio: «Credete che quei galilei fossero più peccatori di tutti i galilei, per aver subìto tale sorte?».
Che Pilato fosse un tiranno e che reazioni violente di tal genere fossero all’ordine del giorno – come, purtroppo, ancora oggi in diverse parti del mondo – non sorprende il Maestro, o meglio non è l’oggetto della discussione. E questo lo si capisce proprio dalla sua risposta, che non verte su considerazioni politiche o sociali ma su una certa mentalità che attribuiva ogni «disgrazia» a Dio, per cui la fine di quei «galilei» era il segno del fatto che erano peccatori.
È questa la questione di fondo a cui Gesù vuole dare una risposta: c’è o non c’è una correlazione tra il male che si subisce e il peccato che si compie? Il tema è ulteriormente comprovato dal resto del discorso del Maestro: «O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?». Con questo caso Gesù adduce un altro esempio, dove, questa volta, non si tratta di un’esecuzione punitiva voluta dal tiranno, ma di una tragedia causata forse da un difetto di costruzione che vede coinvolte persone che passavano di lì per caso. Anche in questo ultimo esempio la domanda è la stessa: queste persone erano «più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?». Si ribadisce così la vera questione per cui Gesù viene interpellato, ovvero se la morte di queste persone è da considerarsi o meno come conseguenza di una loro condotta peccaminosa non meglio specificata.
Gesù respinge l’idea di una giustizia espressamente punitiva, come anche quella che le calamità in genere dimostrino una colpevolezza maggiore delle vittime: non vi è una correlazione «deterministica» tra il male commesso e quello ricevuto ma, soprattutto, non è questo modo di pensare quello che può portare davvero a un cambiamento del mondo che ci circonda. Di fatto la maggior parte di noi non è responsabile di «catastrofi» o di azioni violente di repressione, ma non per questo possiamo sentirci unicamente spettatori, inerti e impotenti di fronte a quanto avviene.
Ognuno di noi è chiamato a essere parte attiva nella possibilità di costruire un mondo migliore, un mondo di non violenza, di giustizia e di fraternità, e questo a partire dalla nostra «conversione», dal nostro «pentimento», dalla vigilanza e costante attenzione ai nostri sentimenti, alle nostre azioni, ai nostri pensieri. Un’attenzione che può essere tale solo se tutto questo viene vissuto come un «ritorno», un costante «ritorno» a Dio, un costante volgere lo sguardo la mente e il cuore a quella nostalgia e desiderio di Dio che è alla base della nostra fede.
Questo messaggio è davvero rivoluzionario e comporta una vera e propria «metanoia», un radicale cambio di prospettiva, di pensiero. In un mondo in cui l’«universale» conta più del «particolare», l’insegnamento di Gesù riporta l’attenzione e lo sguardo proprio su quel «particolare» che siamo noi, la nostra vita, il nostro piccolo mondo fatto di relazioni, dove ogni giorno siamo chiamati a scegliere come agire o reagire, come porci di fronte all’altro, chiunque esso sia, siamo chiamati a rispondere dell’autenticità e trasparenza dei nostri intenti, delle nostre azioni.
Così scrive Enzo Bianchi nella prefazione a un bellissimo libretto di Martin Buber, edito in italiano da Qiqajon con il titolo Il cammino dell’uomo: «È necessario allora, per compiere l’opera grande, iniziare da se stessi, percorrere il cammino della teshuvà, del ritorno, e quindi raggiungere gli altri uomini con la coscienza che un uomo autentico contribuisce alla trasformazione del mondo solo attraverso la propria trasformazione». O come lo stesso Buber scrive: «Il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso».
È interessante che, dopo l’invito alla propria conversione, nel testo evangelico Gesù prosegua con un’altra immagine, questa volta presa dall’ambiente contadino: ci sono il padrone di una vigna, un contadino che se ne prende cura e un albero di fico che non ne vuole sapere di produrre frutti. Alla decisione del padrone di «tagliare» il fico, il vignaiolo risponde con la richiesta di dare alla pianta ancora del tempo. Che cosa sia avvenuto di quel fico non si sa, la parabola termina così, sospesa.
Qualsiasi altra cosa il pentimento comporti, c’è comunque la necessità di una nuova comprensione del tempo, di un discernimento del tempo, di capire come la nostra esistenza si muova all’interno del tempo. Non sappiamo quando verremo chiamati a rendere conto della nostra vita, non possiamo saperlo. Potremmo avere a disposizione ancora un tempo lungo o uno breve, ma forse è proprio qui il punto: i «frutti» di «oggi» non devono aspettare il «domani»: per ciò che è possibile oggi, il domani potrebbe essere «troppo tardi».