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Quale prestigio

Tre momenti nel Vangelo di Marco, tre piccoli episodi in cui Gesù offre un insegnamento sulle sofferenze che verranno, con parole decisive sui suoi e sulla Chiesa.

XXV domenica del tempo ordinario

Sap 2,12.17-20; Sal 54 (53); Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37

          Tre momenti, tre piccoli episodi in pochi versetti: questo schema ternario si ripete altre volte in Mc 8,27-10,45.

          Abbiamo infatti un insegnamento (edidasken, 9,31) ai discepoli sulle sofferenze che verranno. A differenza del precedente (erxato didaskein, 8,31) non vi sono elencati gli avversari tradizionali (anziani, sommi sacerdoti e scribi), compare invece l’opposizione tra «figlio dell’uomo» e «mani degli uomini»: del primo conosciamo l’identità, dei secondi non solo non si definisce un’identità, ma sono fatti coincidere con le loro «mani» – una parte del corpo, in questo caso, sentita come aggressiva e rapace. Non compare il verbo che dice una specie di necessità decisa altrove, come il dei di 8,31, ma il semplice verbo «consegnare» al passivo (9,31, paradidotai), che si può intendere come un passivo divino.

          È questo il verbo associato spesso a qualcosa di violento come la persecuzione, frequente nel racconto della passione di Marco, e con un significato giuridico come quello di consegnare una persona alla custodia di pubblici ufficiali o alla morte (Mc 14,41), non senza una sfumatura di consegna volontaria, in particolare nella sua forma attiva (cf. per esempio Gv 19,30).

          In questo «insegnamento» Gesù insiste sull’uccidere e sull’essere ucciso: sta infatti compiendo la sua unica e ultima «salita» a Gerusalemme dalla Galilea dove, secondo Marco, si è svolto il suo ministero. Il racconto presenta un brusco passaggio dai verbi al passato dello sfondo narrativo all’immediatezza del presente delle parole di Gesù, come se il tono diventasse drammatico.

          Il secondo momento è quello della reazione dei discepoli (la folla è scomparsa). Essi non capiscono, e avendo timore di fare domande (v. 32) mostrano di non voler sapere. La domanda la farà Gesù una volta giunti a Cafarnao, forse con un filo di ironia, tanto che essi continuano a tacere.

          È Marco stesso a dichiarare di che cosa parlassero (v. 34) e i loro discorsi dimostrano che il detto di abbandonare l’idolatria di sé stessi (8,34) è rimasto lettera morta.

          A Cafarnao, in casa, in una postura al tempo stesso autorevole e segnata dall’intimità, Gesù dice parole decisive sui suoi e sulla Chiesa.

          La prima affermazione riguarda il posto da tenere. Pare come un proverbio che gioca sul contrasto tra «primo» e «ultimo». Al detto, breve e incisivo, che potrebbe anche far parte della tradizione popolare per come suona, viene aggiunto «e il servitore di tutti» (kai panton diakonos, v. 35), che vuol esplicitare che cosa comporti l’essere ultimo. È tale chi si preoccupa di servire, non di avere un ruolo dirigenziale. Perché in una comunità fatta di discepoli non impeccabili è evidente che, se esisteranno ruoli diversi, ci saranno anche diverse ambizioni, magari sotto pretesto «di fare il bene».

          A questo punto entra in scena un bambino. Il termine paidion (v. 36) può essere variamente inteso. Nel Vangelo dell’infanzia di Matteo è Gesù infante, come Mosè in Eb 11,23; in senso proprio è un bambino di età inferiore ai sette anni o, appunto, un neonato, secondo il lessico delle iscrizioni; in senso traslato è una persona dal limitato sviluppo (Oepke), infine può essere un servitorello di casa.

          Qualora si trattasse di una persona limitata nel suo sviluppo fisico o mentale, il testo (v. 37) vorrebbe dire che si deve accogliere «uno di tali bambini» (ev ton toiouton paidion, v. 37; per toioutos cf. Moulton-Mulligan) senza esporlo né sopprimerlo (Yarbro Collins); qualora si trattasse di un piccolo servo di casa, ne uscirebbe rafforzata l’immagine del servizio di tutti e dell’ultimo posto, sia perché servo e sia perché bambino. Dunque: per un motivo o per l’altro, senza prestigio.

          Eppure è posto in mezzo e in piedi, in posizione di rilievo rispetto agli astanti. A dire che il prestigio è tutto da definire e questo spetta semmai a chi sa accogliere il debole e il servo, così come accoglie Gesù e colui che lo ha mandato.

          Nella comunità quindi c’è posto per chiunque, specie per chi non ha prestigio e per chi, pur avendolo, si comporta come se non lo avesse, mettendosi al servizio di tutti, nessuno escluso.

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