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Ritornare alla vita

XIII domenica del tempo ordinario

Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 30 (29); 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

Due racconti stilisticamente dissimili s’intrecciano e sono in qualche modo accomunati. Accade in Marco (5,21-43), ma la stessa sistemazione del testo compare anche negli altri sinottici (Mt 9,20-22; Lc 8,42-48).

          Il racconto del risveglio della figlia di Giairo – l’unico personaggio con un nome proprio – secondo Marco, che incornicia quello della donna affetta da perdite di sangue, è costruito su verbi al presente storico, con periodi brevi e pochi participi: è un racconto vivace, paratattico; quello della donna ha verbi all’aoristo e all’imperfetto, frasi più lunghe e participi.

          È perciò probabile, come molti commentatori sostengono, che alla fonte i due racconti fossero separati. Che cosa ha fatto sì che fossero messi insieme l’uno nell’altro? Probabilmente, appunto, svariate coincidenze verbali e di situazione; per esempio almeno due fatti lessicali e uno tematico.

          Due volte compare l’avverbio euthus, «subito» (vv. 29.42), che sottolinea la velocità con la quale i due miracoli si verificano.

          Tre volte il termine «figlia» (thygater) – di cui una volta nella forma vezzeggiativa («figlioletta») – ai vv 23.34.35, una come vocativo.

          Il tema è quello del sacro e dell’impuro e qui è raccontato attraverso due storie di guarigione. Non tutti gli studiosi concordano nel mettere a tema sacro e impuro, eppure i due miracoli riguardano il sangue e la morte, elementi centrali dell’impurità e del sacro.

          Il sacro (qodeš) è una «qualità ontologica della realtà del mondo divino che incontrando il mondo profano senza le dovute cautele causa una sorta di corto circuito letale» (Rota Scalabrini). L’impuro si colloca nello stesso ambito; entrambi sono contagiosi e capaci di rendere inidonei al culto. Sono legati al mistero della vita e della riproduzione, mistero che riguarda solo Dio in quanto signore unico della vita. Da qui i divieti e le restrizioni che conosciamo, soprattutto dal libro del Levitico. Il termine «impuro» genera equivoci, in realtà si tratta di rispetto reverenziale.

          Nel nostro racconto abbiamo a che fare con una bambina alle soglie della pubertà – ha dodici anni –, dapprima in punto di morte, e poi morta, e con una donna con perdite di sangue da dodici anni. Anche se non pare che il numero abbia valore simbolico, esso comunque accomuna le due donne: la malattia dell’una è cominciata quando l’altra è venuta alla luce. La guarigione quasi contemporanea di entrambe ha il sapore di una nuova nascita.

          Entrambe si rivolgono a Gesù indirettamente: una, senza saperlo, attraverso il padre, l’altra semplicemente toccandone il vestito (imation), nascosta tra la folla. Le loro storie hanno così un movimento contrario: dal pubblico al privato la prima, dal privato al pubblico la seconda.

          Entrambe si concludono con un appello di Gesù che chiama «figlia» la donna sconosciuta e «fanciulla» la figlia di Giairo. Il verbo sozo, «salvare», oltre che dall’infermità ha, in altri testi, relazione con la vita eterna (cf. Mc 8,35, 10,26, 13,13); chi ascolta può perciò percepire vari livelli di lettura: la salvezza è qualcosa che riguarda la persona nella sua interezza: dal fisico ai rapporti sociali al Regno. Nel caso della donna il fatto di citare la fede (v. 34) come elemento decisivo per la sua salvezza conferma questi diversi livelli di lettura. Ancora più forte l’esortazione che Gesù rivolge a Giairo: me phobou, monon pisteue (v. 36), in cui l’esortazione alla fede è preceduta da un antico imperativo negativo.

          Mentre la donna sparisce tra la folla così come era arrivata tornando alla sua solita esistenza totalmente guarita (v. 34), la guarigione della fanciulla si conclude con l’esortazione a darle del cibo, segno definitivo della continuità della vita. Si offre da mangiare infatti a chi sia in lutto o a chi al lutto partecipi, ma qui nella casa di Giairo si riprende la vita normale: mangiare, dormire, lavorare, andare in sinagoga e, per la figlioletta, crescere.

          Il cibo come segno della vita tornerà del resto nei racconti delle apparizioni dopo la risurrezione. In essi Gesù non solo mangia, ma si preoccupa che gli apostoli mangino (Gv 21,12), riportandoli a una normalità del vivere dopo il dramma della sua passione.

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