Un padre e due figli

IV domenica di Quaresima
Gs 5,9a.10-12; Sal 33 (34); 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32
Il Vangelo di questa domenica è tra i più conosciuti e forse è anche quello che ha ricevuto più titoli. Si parla di questo brano come la parabola del «figliol prodigo» o del «padre misericordioso» a seconda se si pone di più l’accento sul percorso di comprensione e pentimento del figlio minore o sull’atteggiamento di accoglienza e di perdono da parte del padre.
La storia è presto detta: c’è un padre che ha un’azienda di famiglia e due figli. Il minore a un certo punto chiede al padre di dargli la parte di eredità che gli spetta e di lasciarlo andare per la sua strada. Il padre acconsente e il risultato è che questo figlio non solo dilapida il suo patrimonio, ma cade in miseria al punto di piegarsi a divenire un mandriano di porci, animali considerati impuri per la fede ebraica, e a doversi cibare del loro stesso mangime, di carrube.
In questa situazione, capendo che non può esserci per lui nessun futuro, decide di giocare la carta del «pentimento» e di far ritorno a casa. Certamente non si aspetta che il padre lo stia aspettando, anzi gli corra incontro, e così il suo ritorno viene celebrato con una grande festa dove viene cucinato il vitello più grasso e dove, rivestito con abiti degni del suo status, gli vengono restituiti i calzari, segno di piena libertà, e l’anello, segno che è rientrato in pieno nell’azienda familiare.
La trama del racconto fa parte del background del mondo ebraico dell’epoca, nel senso che possiamo trovare molti riferimenti sia nella Mishnah (raccolte di testi di carattere giuridico-dottrinario risalenti al I-II d.C.) che in altri testi della tradizione ebraica successivi. Per dare un esempio, l’idea che allevare i maiali, per un ebreo, sia una cosa non solo indegna ma proibita, la si ritrova nel trattato della Mishnah Baba Kamma: «Nessuno, in nessun luogo, può allevare maiali».
Così anche la possibilità di concedere in eredità parte del proprio patrimonio mentre si è ancora in vita veniva vista come un qualcosa da evitare, un’azione estremamente rischiosa. Di questo parla in modo abbastanza chiaro anche il Siracide: «Al figlio e alla moglie, al fratello e all’amico non dare un potere su di te finché sei in vita. Non dare ad altri le tue ricchezze, perché poi non ti penta e debba richiederle. Finché vivi e in te c’è respiro, non abbandonarti al potere di nessuno. È meglio che i figli chiedano a te, piuttosto che tu debba volgere lo sguardo alle loro mani. In tutte le tue opere mantieni la tua autorità e non macchiare la tua dignità. Quando finiranno i giorni della tua vita, al momento della morte, assegna la tua eredità» (Sir 33,20-24). E in questo senso a essere prodigo, nel racconto, non è solo il figlio minore, ma anche il padre.
Dal punto di vista di un’oculatezza economica, il più saggio nella storia è allora il figlio maggiore, il quale, probabilmente, non solo non era d’accordo con il padre nel dividere la proprietà e lasciare andare il figlio minore, ma ancora di più sembra irrigidirsi nell’assistere al suo rientro e, soprattutto, al suo reintegro nell’azienda e nella famiglia.
Che il suo disappunto sia tale lo dimostra il fatto che non prende parte ai festeggiamenti: «Egli si indignò, e non voleva entrare». Il padre, resosi conto che forse fino a quel momento aveva dato per scontato che vi fosse comunione d’intesa tra lui e il figlio maggiore, cerca di rassicurarlo con queste parole: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Si tratta di una rassicurazione sul fatto che la sua parte di eredità non è stata diminuita dal ritorno del fratello, ma allo stesso tempo è anche una richiesta a «riconoscere» l’altro come «fratello», che in termini pratici (ed economici) significava una disponibilità ad aiutare il minore anche nel futuro.
E quale sarà la decisione del figlio maggiore non viene detto.
Se di solito l’attenzione viene posta sul figlio minore o sul padre, vorrei invece soffermarmi proprio su questo primo figlio che sembra essere «perfetto», ligio al suo dovere, oculato nel gestire le risorse economiche della famiglia, rispettoso delle regole, ma estremamente «distante» anche se fisicamente costantemente «presente».
La sua è una «distanza» del cuore, una non appartenenza dello spirito; ci sarebbe da chiedersi: che tipo di relazione ha avuto finora con suo padre? Perché un padre così, che non è disposto a perdere un figlio anche se gli ha girato le spalle, rinnegando persino la propria appartenenza culturale e religiosa – non dimentichiamo i maiali – è sicuramente una persona che vive, agisce «con il cuore», atteggiamento o habitus che va oltre la singola circostanza appena narrata. Vivere accanto a un padre così, «essere in relazione» con lui significa imparare a relazionarsi con gli altri, con i beni materiali e con la stessa vita non secondo «regole», ma con il «cuore», con una sapienza che si sperimenta solo nell’amore. In altre parole la «chiusura» di questo figlio maggiore è il vero problema; un problema di cui il padre sembra non si sia accorto fino a quel momento, ma che adesso, di fronte al ritorno del «figlio disubbidiente» appare in tutta la sua serietà.
Ed è un problema che può davvero provocare una spaccatura, una lacerazione, una divisione. Che famiglia sarà se il figlio maggiore rimarrà chiuso nella sua rigidità fatta di regole, osservanza e norme? Non solo, ma è davvero questo il «giusto» modo per preservare il patrimonio, per rendere onore alla «tradizione» di questa famiglia?
Come abbiamo visto ci sono molti modi di leggere questa parabola, tutti, ovviamente, molto validi; credo però che focalizzare l’attenzione sulla figura del «figlio maggiore», sul suo modo di pensare e relazionarsi, possa aiutarci a riflettere su ciò che la nostra «famiglia»/Chiesa è chiamata a vivere e a quali sfide, richieste e realtà è chiamata a rispondere.