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Una fede che costa

XXIV domenica del tempo ordinario

Is 50,5-9; Sal 115 (114); Gc 2,14-18; Mc 8,27-35

Ancora una volta siamo di fronte a una domanda di Gesù. Non è subito diretta. In un primo momento infatti egli chiede quali opinioni girino su di lui tra «gli uomini» (oi anthropoi, 8,27). Sembra una semplice conversazione che si tiene per strada, camminando. Siamo nell’Alta Galilea; il gruppo si muove dal Golan (Betsaida, v. 22) a Banias, una delle sorgenti del Giordano, ai limiti della terra d’Israele, e siamo anche alla fine del ministero di Gesù, che si è svolto pressoché totalmente in Galilea. Dunque è un momento decisivo di cui il gruppo ignora ancora la portata. 

Immediatamente prima c’è stata la guarigione di un cieco (8,22-26), in cui possiamo vedere forse la volontà del narratore di manifestare come anche i discepoli siano bisognosi di una guarigione che apra loro gli occhi. Peraltro l’episodio può avere sia le caratteristiche del racconto popolare (Jeremias), sia manifestare una sorta di incertezza da parte di Gesù (vv. 23-25, Cuvillier), perché avviene come graduandone l’intervento.

La stessa gradualità si vede nell’interrogazione dei discepoli, chiedendo prima che cosa pensino altri, poi direttamente che cosa pensino loro.

La risposta di Pietro appare involontariamente interlocutoria. Dire semplicemente Christos sembra proprio esigere una spiegazione, in un’epoca e in un paese di «unti» diversi l’uno dall’altro e capaci di compromettere una delicata situazione politica tanto da rivelarsi, alla fine, inattendibili. Tuttavia il desiderio della gente era grande e si moltiplicavano i segnali. Quale Christos, dunque? Da svariate fonti sappiamo che molti, nel I sec. ev, aspettavano un messia davidico che avrebbe sconfitto romani e loro collaboratori. Ne danno prova anche alcuni titoli come Bar Abba (cf. Gv 18,40).

Ma con l’esplicitazione di Cristo ci troviamo davanti al primo dei tre annunci della passione lasciatici da Marco (8,31, cf. 9,31 e 10,33-34). 

In realtà l’ideologia messianica era tutt’altro che monolitica e non si presentava solo in chiave di liberazione politica. Il ricordo del servo di Is 52,13-53,12, per esempio, associato sovente al nome di Geremia o al Maestro di Giustizia, aveva creato tra le altre, benché minoritaria, anche l’aspettativa di un messia sofferente. 

Così il figlio dell’uomo «deve» (dei, v. 31) affrontare una situazione di sofferenza e rifiuto fino alla morte. Non si tratta di semplice lungimiranza nel valutare i fatti e prevederli, ma di una sorta di necessità che implica un’interpretazione teologica degli eventi (Yarbro Collins). Essa scaturisce dalla violenza verso l’unto di Dio, attraverso la quale Dio offre uno speciale volto di sé, umile e sconfitto, che Pietro non è disposto ad accettare, fino a rimproverare Gesù.

La cui risposta suona come un vero rimprovero e un richiamo alla sequela (upage opiso mou, v. 33), rifuggendo dalla tentazione di fuggire in avanti, di prevenire e di evitare la vera prova che attende non solo Gesù ma anche i discepoli.

Da tale risposta nasce la condizione – quasi una legge – per il discepolato che viene proclamata alla folla (ochlos, v. 34), improvviso e immotivato uditorio, dato che fino a quel momento sono stati citati solo i discepoli. 

Tale condizione è espressa con una sorta di formula che richiama l’alleanza: inizia ponendo una condizione (ei tis thelei «se qualcuno vuole», v. 34) cui seguono tre clausole: «rinneghi» (aparnesastho), «prenda» (arato), «segua» (akoloutheito). 

Dei tre, il primo verbo pare il più interessante, indica infatti un’apostasia da se stessi o la decisione di rinnegare l’idolatria di sé per seguire/mettersi dietro a Gesù. Non una semplice decisione ascetica quindi, ma una costosa adesione di fede, il rovesciamento dell’atteggiamento di Pietro che poi rinnegherà Gesù (il verbo aparneomai del v. 36 è un composto di arneomai di Mc 14,68.70) nel momento decisivo. 

Il riconoscimento del Messia è dunque legato a un patto, la cui posta in gioco è la vita (psyche), che come mostra la sentenza – che pare un proverbio – del v. 35, fa sì che paradossalmente s’invertano i termini del «salvare» (sosai) e del «perdere» (apolesai), in un complesso gioco di parole.

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