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Vi lascio la pace

VI domenica di Pasqua

At 15,1-2.22-29; Sal 67 (66); Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29

Nelle domeniche che vanno da Pasqua all’Ascensione la liturgia ripropone passi giovannei tratti dai lunghi «discorsi di addio» pronunciati da Gesù alla vigilia della sua passione. Può apparire una specie di immotivata inversione temporale. Perché soffermarsi, dopo la risurrezione, su parole dette prima del «tutto è compiuto» pronunciato da Gesù sulla croce (Gv 19,30)? Perché sostare su un preannuncio del Paràclito, anche dopo che il Risorto, con il suo soffio, donò lo Spirito Santo ai suoi discepoli (Gv 20,21)?

La risposta esegetica va ricercata all’interno della complessa «architettura» del quarto Vangelo. Tuttavia, in questi giorni, quanto più preme sul cuore è focalizzarsi su un punto specifico, vale a dire sul reciproco richiamarsi di alcuni versetti posti, rispettivamente, prima e dopo Pasqua: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27); «Venne Gesù, stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi!”» (Gv 20,21).

In questi due contesti, il comune saluto ebraico «shalom» (contrazione del più ampio «shalom ‛alekhem», alla lettera «pace su di voi») assume un significato legato, a filo doppio, allo Spirito. Nei «discorsi di addio» la pace è immediatamente preceduta dalla promessa del Paràclito, lo Spirito Santo mandato dal Padre in nome di Gesù (Gv 14,26). Dopo la Pasqua, il saluto di pace anticipa invece l’atto di soffiare lo Spirito compiuto dal Risorto. Nella promessa è detto che sarà il Padre a inviare lo Spirito in nome del Figlio; nell’apparizione ai discepoli è Gesù stesso ad alitare e a riproporre, in una dimensione nuova, l’atto originario che formò il primo essere vivente (Gen 2,7). 

Sorge, inevitabile, una domanda: la pace dello Spirito è quella che il mondo non è in grado di donare? Dalle parole di Gesù si deduce che il mondo è comunque capace di dare una sua pace. Sarà precaria, provvisoria, ma quando mancano armistizi o tregue l’esito è uno solo: la guerra. Vista nello specchio della storia, la pace promessa e data da Gesù non porta con sé la mancanza di scontri bellici nel mondo. Si è chiamati ad aver parte a una pace non travolta dalle guerre; questa «alterità» attesta che qui non ci si sta misurando con le vie diplomatiche adottate per risolvere i conflitti, strade di cui peraltro si patisce enormemente la mancanza. 

«Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv 14,27): nel passo è contenuta un’anomalia stilistica già colta da sant’Agostino. Una sola volta appare l’aggettivo «mio» ed è legato al verbo «dare», mentre esso è assente nel caso di «lasciare». Si sarebbe indotti a ipotizzare la presenza di un rafforzativo. Si potrebbe quasi proporre questa specie di parafrasi: «Vi lascio la pace, ma siccome voi vivrete fra le tribolazioni del mondo, vi assicuro che, anche così, la mia pace sarà comunque con voi. La mia pace sarà circondata da conflitti, perciò è quella che il mondo non può dare».

Non si tratta tuttavia di una realtà solo spirituale e interiore in grado di sussistere qualunque cosa avvenga nel mondo. Non ci si trova in un tiepido recinto isolato. Anche la pace connessa al dono dello Spirito conosce il rifiuto. Il soffio del Risorto è seguito subito da queste parole: «A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,22). A prescindere da ogni recezione sacramentale del passo (la cui seconda parte è priva, forse non a caso, del riferimento diretto alla parola «peccati»), qui è indicata sia la via del perdono e della riconciliazione (senza la qualenon c’èpace), sia la difficoltà di percorrerla: «Laudato si’, mi’ Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore /et sostengo infirmitate et tribulatione».

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