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Documenti, 15/1995, 01/08/1995, pag. 478

Dire addio (Card. Godfried Danneels)

Godfried Danneels

Card. Godfried Danneels

Dire addio

"In ogni istante della nostra esistenza diciamo addio a qualcuno o a qualcosa. Sotto mille forme diverse. Sono tutte forme di sofferenza... perdere una persona cara, un bambino, una compagna di vita... la sofferenza per aver perso il lavoro... per un fallimento... per la nostra stessa morte che si avvicina inesorabile". Per farvi fronte abbiamo bisogno di "qualcosa di più della psicologia"; occorre "una risposta alla domanda sul perché". "Il cristianesimo non cerca... la soluzione nella rassegnazione... neppure in una prudente relativizzazione o nell'indifferenza. La fede prende assolutamente sul serio la sofferenza e la separazione: non ci gira attorno... Mai da sola, ma con Gesù. E con la ferma speranza di trovare dall'altra parte la vita nuova in Dio".

Dire addio. Vivere nella fragilità, è la lettera pastorale pubblicata dall'arcivescovo di Malines-Bruxelles, card. G. Danneels in occasione della Pasqua 1995, da cui è stata tratta una videocassetta destinata all'animazione degli incontri di gruppi parrocchiali, famigliari, ecc. Saggezza e tatto, empatia e ascolto non sono solo i consigli tematizzati (e riassunti in una sorta di decalogo sull'addio) ma anche il tratto stilistico di un testo di profonda umanità e religiosità.

 (La Documentation catholique 77(1995) 2116, 21.5.1995, 481. Nostra traduzione dal francese).

Care sorelle e fratelli,  

     perché ci leghiamo a così tante cose, dal momento che dovremo lasciare tutto, un giorno? Potremmo risparmiarci molte pene. Perché teniamo così accanitamente alla vita, dal momento che è assolutamente certo che moriamo?

La vita è un distacco

     "La vita è un distacco". Lo sappiamo. Ogni nuova conquista significa anche rinunciare a qualcos'altro. Ogni nascita significa, per la mamma, sacrificare parte della propria vita, della propria persona. Ogni volta che si fa una scelta, si lasciano perdere tutte le altre possibilità. Un giorno in più di esistenza, è un giorno in più verso la morte. La vita è un distacco. E il contrario? Non è ugualmente vero che distaccarsi è vivere?

     In ogni istante della nostra esistenza, diciamo addio a qualcuno o a qualcosa. Sotto mille forme diverse. Sono tutte forme di sofferenza. Ma noi non amiamo la sofferenza, tendiamo a fuggirne. E a buon diritto, perché siamo fatti per la felicità e per la gioia

     Cosa potremmo fare per addolcire la sofferenza dell'addio? La sofferenza di invecchiare, di vedere deperire le nostre forze; la sofferenza di perdere una persona cara: un bambino, una compagna di vita, un fratello o una sorella, un parente o un amico, una vicina di casa; la sofferenza per avere perso il lavoro o per avervi dovuto rinunciare, per un fallimento, per un colpo inferto alla propria reputazione, per tutte le occasioni mancate; la sofferenza per le tensioni e le ferite in ambito ecclesiale, per il venir meno di valori importanti o della fede, per i giovani che si mettono sulla cattiva strada; infine, la sofferenza per la nostra stessa morte, che si avvicina inesorabile.

Dove trovare aiuto?

     La sofferenza è un grido che pretende consolazione. L'addio è una lacerazione che cerca di ristabilire una continuità. Che fare?

     Ovunque vi sia una rottura, si scatenano le emozioni. E sono proprio queste che vanno addolcite. E' il campo proprio della psicologia. Si è lavorato discretamente in questo campo, negli ultimi anni. Sia sul piano pratico sia su quello teorico. Si è discusso e pubblicato molto. Vengono formati degli esperti in grado di accompagnare e consigliare. Si sono creati inoltre un gran numero di luoghi di ascolto e di colloquio in cui accogliere le persone in difficoltà. Tutta la società è coperta da una ben organizzata rete di "persone-risorse". Molti cristiani ne fanno parte. In famiglia o nel quartiere, nei movimenti o in parrocchia. E' bene che si abbiano alcune nozioni tecnico-psicologiche mirate ad aiutare le persone a superare le sofferenze dell'addio, nelle sue varie forme. Se non altro, per evitare dei clamorosi passi falsi.

     Ci serve qualcosa di più della psicologia. Non ci si sente consolati se non si riceve contemporaneamente una risposta alla domanda sul perché. Perché dobbiamo andarcene e dire addio? e' una domanda che tocca la concezione della vita. Una domanda filosofica, o ancora più profonda. La risposta viene cercata in molteplici direzioni. Alcuni dicono: "E' la tristezza primordiale dell'essere umano; l'accompagna sin dalla nascita". Altri si attengono a una filosofia del buon senso: "Le cose stanno come stanno, percié bisogna fare di necessità virtù, trarne il meglio possibile, cogliere l'attimo fuggente". Altri poi vanno più lontano, con un inconsapevole atteggiamento stoico: "La vita è dura. Bisogna farci il callo". Vi è in questo una sorta di nobiltà, che fa onore all'uomo. Altri ancora riprendono la filosofia dell'Ecclesiaste della Bibbia: "C'è un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per dire addio e un tempo per ritrovarsi, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci". Altri infine cercano la risposta a Oriente: "Sconforto e gioia sono le fuggevoli apparenze di un medesimo nulla, sono come le nuvole del cielo e come le onde del mare, passeggere e quindi senza importanza. Illusioni".

     Ma Dio, non avrà forse anche lui qualcosa a che fare con tutto questo? Che cosa dice la Bibbia dell'addio alle cose e alle persone, della morte? E cosa ne dice Gesù? Si tratta di un problema teologico e pastorale. Spesso rimane in secondo piano. Un medico cristiano lavora diversamente dai suoi colleghi non credenti? E la fede, fino a che punto ha valore terapeutico?

Che fare?

     Cosa possiamo fare? Non siamo tutti, in qualche modo, "custodi dei nostri fratelli", non siamo tutti "in cura d'anime"? Tutti abbiamo qualcuno che si è confidato con noi. E' questa la ragione della presente lettera pasquale: aiutarci nella nostra missione pastorale di accompagnamento di quanti sono provati a causa di un addio. Un cammino da compiere in tre tappe.

     La prima è quella dell'ascolto. Infatti, aiutare qualcuno a dire addio non è in primo luogo una faccenda di teologia, ma di empatia; non si tratta di convincere o d'istruire, ma di ascoltare l'altro e mettersi nei suoi panni. Prima di applicare il balsamo, bisogna sapere di che natura è la ferita. Tirar fuori una quantità di ragionamenti spesso è solo una cattiva medicazione. D'altronde, sapere cosa non si deve dire è più importante di quello che si dirà. Si tratta del primo capitolo di questo messaggio: imparare ad ascoltare e a osservare facendo meno danni possibili.

     La seconda tappa è quella della comprensione. E' vero che "la vita è una rinuncia" e che "rinunciare è vivere"? Per quale ragione? Un esercizio di riflessione, in altre parole una ricerca di senso. Ora il mercato abbonda di risposte di senso. Si va dal sapere pratico dell'uomo della strada fino al messaggio biblico compreso.

     La terza tappa è quella della guarigione. In entrambi i sensi del termine: come guarirsi da soli e come aiutare a farlo. Che cosa fare accanto a qualcuno che deve dire addio? Dieci regole d'oro per aiutare a guarire.

La secolarizzazione del senso del nascere e del morire sfida le chiese a riflettere sulla qualità del loro annuncio, della loro testimonianza, della loro speranza. In tempi recenti gli episcopati europei hanno accolto questa sfida, affrontando il tema: "Gli atteggiamenti contemporanei davanti alla nascita e alla morte: una sfida per l'evangelizzazione", nell'VII Simposio dei vescovi europei, Roma, 12-17 ottobre 1989 (Regno-att. 20,1989,598; Regno-doc. 21,1989,648). Tale riflessione è stata raccolta, tra gli altri, dalle diocesi lombarde con un convegno su "Nascere e morire oggi" (Regno-att. 2,1993,6; 12,1993,346), celebrato in più momenti tra il 1991 e il 1993 e concluso con la diffusione di un omonimo documento, dall'episcopato tedesco, con una lettera pastorale su La nostra cura per i morti e per i superstiti (Regno-doc. 5,1995,135), e dal testo che qui presentiamo.

I. Ascolto ed empatia

     Il dolore è qualcosa che sta dentro di noi. Sotto la scorza. Tuttavia, vi sono degli indici esteriori. Si può anche intuire qualcosa. Ma non sono che sintomi. Il dolore che si prova all'atto di una perdita è un'esperienza interiore. "Eh, se lei potesse guardarmi dentro!", dicono più o meno quelli ai quali, a scopo consolatorio, si fa notare che hanno l'aria in forma e che hanno splendidamente reagito alla loro disgrazia.

     Tale considerazione dovrebbe essere sufficiente a proteggerci dalla tentazione di parlare troppo presto. Questo tipo di consolazione spesso è solo un impacco sulla superficie della piaga, mentre si tralascia d'intervenire contro il pus che l'infetta in profondità. "Comunque, aveva raggiunto una bella età".   "Negli ultimi tempi, la sua esistenza si era ridotta a malattie e sofferenze: per lui è stata una liberazione".   "Non aveva figli; per fortuna non lascia nessuno dopo di sé"...

     Parole come queste non portano nessuna consolazione: non guariscono il cuore, si accontentano di lisciare l'epidermide. La sola via possibile è ascoltare e cercare di vivere in empatia. Dare al dolore il suo diritto di cittadinanza, riconoscerlo nella sua dignità, entrarvi e non fare deviazioni. Ascoltare equivale spesso a decifrare un rebus: si percepiscono alcune lettere e segni, e bisogna ricostruire l'intera frase. O ancora, è come quel quiz televisivo in cui ogni dieci secondi ti danno una lettera in più di una parola che tu devi scoprire. Se cerchi d'indovinare troppo presto, perdi tutte le possibilità. Così, la prima condizione per poter aiutare è quella di prendersi del tempo, di non giudicare o concludere prematuramente, di lasciare che il dolore si esprima. Perché non si deve fermare il pus.

Dolore per la morte di un bambino piccolo

     Dire addio a un bambino piccolo - non ancora nato o che è appena nato  - è una pena senza uguali. Non vi è nulla a cui rapportarla. Gli altri, dall'esterno, la giudicano terribile, ma, a pensarci bene, non poi così tanto: "Non hanno neanche visto il loro bambino, o l'hanno appena visto. Non hanno quasi avuto il tempo di affezionarcisi. Il dolore passerà".

     Di fatto, lo sconforto dei genitori è sconfinato. Giacché il bimbo, anche se non è ancora nato, è già presente. C'è la vita: il bambino è lì, invisibile ma perfettamente percepito. "Un'ora fa, si muoveva ancora; poi più niente. L'ho perduto". Anche se i genitori non hanno visto il bambino, hanno pensato a lui di giorno e di notte, ne hanno parlato insieme, l'hanno immaginato dormire nella sua culla o sgambettare nel soggiorno o in giardino; gli hanno dato un nome e gli hanno preparato un intero piccolo guardaroba. In una parola, il bimbo era già lì. Ora, è partito. e' venuto, ma non è mai arrivato tra noi.

     Nella donna che ha perduto il frutto del suo seno, vi è un confuso senso di colpa; e insieme la sensazione di essere infinitamente sola. "Avrò fatto qualcosa che non dovevo, avrò corso troppi rischi? Forse non avrei dovuto sollevare quel cesto di biancheria, così pesante?...". Per non parlare dell'aborto. "Sì, mi vengono a trovare, ma non parlano; non dicono nulla; guardano fuori dalla finestra per non guardarmi in faccia; non mi sono mai sentita così sola".

     Quando un bimbo muore al momento della nascita, lo sconforto raggiunge il culmine. L'attesa era alla sua massima tensione, la disillusione è tanto più forte. Per una donna che deve restare nel reparto di maternità fra le altre mamme senza avere un bimbo, e che deve tornare a casa sua con tutta l'attrezzatura e il necessario per un bimbo ma senza bimbo, è un calvario.

     Un caso del tutto particolare è quello del dolore per la morte in culla. Si è invasi da un sentimento d'impotenza e di assurdità. Marinus van der Berg ha scritto in proposito: "Avevano atteso il loro bimbo per nove anni e nove mesi... Il piccolo dormiva ancora in tutta salute, quando lei si assenta pochi minuti per andare a prendere il marito alla fermata dell'autobus. Quando tornano da lui, il bimbo non respira più. Quello che accade dopo non si può quasi descrivere. Il dottore che mette il piccolo sul sedile posteriore della macchina. Il tragitto verso l'ospedale. Il verdetto incredibile: il loro piccolo, tento fervidamente atteso, è morto dell'incomprensibile morte in culla. In testa al necrologio, sul giornale: "Non riusciamo a comprendere". Al momento della cremazione, nove rose bianche: per i nove anni e per i nove mesi".

     Cosa si può fare, o meglio, cosa non bisogna fare? Niente parole di consolazione che non consolano per niente: "Dimenticate al più presto tutto... Siete ancora giovani: potete averne degli altri".   "Avete altri tre figli che sono un amore".   "Quel povero piccolo non sarebbe comunque stato normale... Non è meglio che le cose siano andate come sono andate?".   "Non ha nemmeno messo piede in casa vostra"... Parole che non fanno che accrescere la pena.

     Con l'idea di risparmiare i genitori, si tenta spesso di nascondergli il piccolo corpo senza vita, mentre un confronto reale è importantissimo. Bisogna piuttosto stimolare e aiutare i genitori ad andare a vedere il bimbo, a toccarlo, a tenerlo nelle loro braccia. Spesso bisognerà incoraggiarli, perché giunti al dunque non vogliono o non osano. Più tardi rimpiangeranno di non averlo fatto. Ma è una cosa che bisogna preparare con cura: raccontare com'è il bimbo, chiedere con che cosa avvolgere il corpicino, porgli accanto un giocattolo.

     Alcuni auspicano che il ricordo del bimbo morto sia cancellato il più in fretta possibile: "E' una pena per i genitori dover continuare a pensare a lui". E che cosa è bene? Bisogna al contrario fare attenzione perché rimanga una foto, conservare la sua targhetta d'identificazione o la coroncina di fiori del funerale, sapere dove è sepolto il corpicino.

     Bisogna soprattutto dare al bambino un nome, così che se ne possa parlare. Parlare di un essere senza nome è impossibile. D'altronde, si tratta di un richiamo autenticamente cristiano, poiché "ogni nome é scritto nel palmo della mano di Dio"; un bimbo morto è d'altra parte anche un piccolo intercessore presso di lui. Ci si può naturalmente rivolgere a lui nella preghiera.

     E ancora, per concludere: la nostra epoca sperimenta un fenomeno del tutto nuovo. Non sono più solo le coppie giovani a perdere il loro piccolo. Sempre più spesso, coppie meno giovani si trovano ad affrontare il morte di un figlio o di una figlia: essi sopravvivono ai loro bambini. E' una pena profonda: anche se l'età relativizza tante cose, una cosa così non si relativizza.

Vittime innocenti di un incidente stradale

     Non poche delle vittime degli incidenti stradali sono dei ragazzi. Viviamo in una civiltà "pericolosa": sempre più macchine, file di camion, ore di punta in cui quasi tutti sono per la strada. E in mezzo, il ragazzo indifeso sulla sua bicicletta. Anche solo la parola "vittima", riferita a lui, è già penosa e rivoltante, come se la morte di un ragazzo non fosse che la conseguenza inevitabile e oltre a tutto normale di una data situazione. Statisticamente, è impossibile sfuggire a questa fatalità: a una maggiore intensità della circolazione, cresce il numero degli incidenti.

     Al momento dei fatti, il mondo crolla. Tutto è spezzato: i suoi vestiti da casa su una sedia, i suoi quaderni divenuti inutili, i suoi libri e i suoi giornalini sullo scrittoio, il suo posto a tavola vuoto. Come se il tempo si fosse fermato.

     Ecco che sopraggiungono i sensi di colpa: "Se non l'avessimo lasciato andare con la bici...". "Non avremmo mai dovuto comprarglielo, quel motorino!". "Avrei dovuto accompagnarlo fino davanti alla scuola". Inutile ripetersi che il bambino non ha avuto alcuna responsabilità, che non aveva fatto niente che non si dovesse, che quel motorino era esattamente l'oggetto dei suoi più intensi desideri... niente da fare; il senso di colpa rimane, subdolo e tenace. Può trascorrere un bel po' di tempo prima che uno prenda coscienza che vi è un abisso tra senso di colpa e concreta responsabilità personale.

     Può anche svilupparsi l'aggressività. E spesso rivolta contro persone concrete. Contro il ragazzo defunto: "Perché, allora, non è stato più prudente?" -  o contro se stessi: "Non avrei mai dovuto permetterglielo" -  o contro colui o colei che ha provocato l'incidente. In quest'ultimo caso l'aggressività può volgersi in odio, specie nel caso in cui vi sia stata colpa flagrante, come nel caso di guida in stato d'ebbrezza. L'aggressività può anche avere per oggetto la società che non affronta con sufficiente vigore questo genere di problemi. E' un'aggressività che deve trovare sfogo: la si deve poter esternare. Forse scrivendo al responsabile dell'incidente. Spesso è questo il modo per arrivare a farsi una ragione: esclusi alcuni casi di gravi delitti, nessuno investe come niente fosse qualcun altro in modo deliberato.

     Talvolta vi è chi comincia ad assimilare l'idea del lutto solo molto tardi: chi attende ad esempio la sentenza del tribunale, spesso a un anno di distanza dagli avvenimenti, quando intorno a sé è rimasto poco più del ricordo dell'accaduto. La situazione è più penosa ancora nel caso in cui del ragazzo si è perduta ogni traccia, quando non si sa nemmeno se piangerne la morte; è insopportabile vivere tra la speranza e la disperazione. In entrambi i casi, lo stato di choc e il suo progressivo assorbimento vengono in generale tardi. E' il caso, in particolare, dei fratelli e delle sorelle, nei quali lo sconforto del lutto può emergere anche mesi dopo.

     Tutti concordano nell'affermare quanto sia importante poter continuare a parlare di quello che è capitato: del ragazzo e di ciò che la sua perdita ha comportato. Le tecniche anestetizzanti portano in questo caso solo un aiuto apparente. In fin dei conti, l'opera di guarigione è compiuta attraverso la commemorazione e non con l'oblio, meno ancora con la rimozione. Si deve poter dar sfogo ai propri sentimenti: con il marito, con la moglie, con gli altri figli, con gli amici.

     I genitori cristiani possono anche dare sfogo ai propri sentimenti col loro stesso piccolo defunto: possono dialogare con lui. Non è morto, vive altrove ed è possibile raggiungerlo. Possono anche dare sfogo con lui ai loro sensi di colpa: in Dio, egli può perdonare qualsiasi cosa abbia lasciato a desiderare nel loro comportamento. Questo accesso cosciente alla "comunione dei santi", l'unica e grande famiglia di Dio, porta tranquillità e pace. Anche dopo che è morto, si può dunque dare sfogo ai propri sentimenti con il proprio ragazzo. Preferibilmente, forse, nei luoghi in cui ci si sente più vicini a lui.

Perdere i propri genitori

     Una perdita che quasi tutti noi sperimentiamo è quella dei propri genitori. Le reazioni sono molto differenti a seconda dei casi. Se si giunge a un'età avanzata  - "sazio di giorni"  - l'addio si dà in genere in modo più sereno. Chi è sposato, d'altronde, ha egli stesso, in parte, lasciato già il padre e la madre "per unirsi alla sua donna (al suo uomo)". L'addio è invece più duro per chi è rimasto celibe in casa: in questo caso tutto cambia. Il che non è sicuramente meno vero per la figlia nubile che si è completamente votata ad assistere i suoi vecchi genitori. Da un momento all'altro la vita sembra senza scopo: "e adesso, per chi sono ancora al mondo?" Una situazione che può durare molto tempo, richiedere parecchi sforzi, per ricondurre tutta quella sollecitudine su un altro oggetto o su un'altra persona. Del resto, le persone non sposate rimangono più a lungo "il bambino" dei propri genitori. Quando questi se ne vanno, si sentono privati di una fonte di consolazione. Sta scritto nella Bibbia che dopo la morte della madre, Isacco si consola con la moglie Rebecca.

     In tale contesto, più o meno in tutti compare un certo senso di colpa. Tensioni e conflitti del passato nei confronti dei nostri genitori riemergono dalla memoria: "Siamo stati ingrati, indifferenti, orgogliosi e sprezzanti".   "Quando ha reso l'anima a Dio, avremmo dovuto essere là... Potevamo almeno rimanere un'ora di più!".

     Alla morte di uno dei genitori, ciascuno immediatamente scopre quanto gli assomiglia. Siamo dello stesso sangue. Ho preso in giro per anni papà per quel tic, e ce l'ho anch'io. Alla fin fine, abbiamo le stesse preferenze e le stesse avversioni. Modi di dire e proverbi cari alla mamma mi vengono spontaneamente alle labbra mentre sto conversando. Alla morte del padre e della madre si accetta (finalmente) il proprio albero genealogico. E si acquista in saggezza e in benevolenza.

     I problemi sono assai diversi quando la perdita del padre o della madre colpisce un bambino. Sulle prime, la sua percezione della morte è particolare. Nei primi anni di vita, il bambino può considerare la morte solo uno stato passeggero: una separazione, una partenza, ma non per sempre. Infatti tutto ritorna e il tempo è ciclico: "Ogni sera si va a letto, e ogni mattina ci si alza". Agli occhi dei bambini, i morti continuano a vivere, ma altrove e in un altro ambiente. Ciò spiega del resto come mai un bambino può cadere in una profonda angoscia quando la mamma va via: perchè partire è un po' morire. Ed ecco le domande del tipo: "Dov'è andato papà?".   "Che cosa sta facendo adesso?".   "Ha da mangiare?". Sarebbe però sbagliato pensare che i bambini non avvertano la perdita. Anche se apparentemente rimangono impassibili, essi soffrono.

     Quando sono un po' più grandi, tendono a personificare la morte. "Ti può portare via con sé".   "E' uno scheletro con la falce". Imparano anche a familiarizzare un po' con la morte e a esorcizzare la loro angoscia: "Se uno ci s'imbatte, può sfuggirle". Intorno ai dodici anni, la morte viene compresa, poco a poco, come irreversibile. In quel momento la percezione della morte � diventata corretta e adulta. Del resto, è spesso intorno a quell'età che essi fanno l'esperienza della morte del nonno o della nonna. Sarà bene portarli, con la dovuta preparazione, a vedere il defunto o la defunta. Diversamente, il primo morto che vedranno rischia di essere proprio il loro padre o la loro madre; se non hanno mai visto prima dei morti, lo choc emotivo sarà ancora più forte.

     Cosa fare e cosa non fare? In tutti i modi, evitare il silenzio. Alcuni sono del parere che sia meglio tacere, perché il bambino è ancora troppo piccolo: "Non può ancora capire".   "Bisogna stare attenti a non turbare la gioia spensierata dell'infanzia".   "Più avanti, avrà tutto il tempo di affrontare queste faccende più serie". Un'inchiesta ha mostrato che alla domanda "Cosa vorresti che uno facesse quando provi un dolore?", il 75% dei bambini intervistati ha risposto di desiderare che non si faccia silenzio rispetto al loro dolore: che ci sia qualcuno che testimoni comprensione per il mio dolore, che si sieda con calma vicino a me, che mi circondi di attenzioni, mi abbracci, mi parli, mi racconti cosa è successo, e lasci che sia io a raccontare il mio dolore, mi dia coraggio, mi coccoli...

     Alcune affermazioni sono nettamente sbagliate: "Il papà è partito per un lungo viaggio" oppure "Si è addormentato...". Quest'ultima espressione è molto sviante per il bambino, che rischia per il futuro di essere angosciato dall'idea di addormentarsi.

     Talvolta il bambino non chiede niente e tace. Questo silenzio non significa che il dolore è superato. Possono esserci altri segnali: perdita di concentrazione, arretramento nei risultati scolastici, risate improvvise, iperattivismo, comportamenti chiassosi insoliti.

     La reazione migliore, rispetto ad alcune domande del bambino, sarà talvolta porre a nostra volta la domanda: "E tu cosa ne pensi?".   "Dimmi come t'immagini la mamma in questo momento". In ogni modo, bisogna parlare al bambino della morte: fa parte della sua educazione e quindi bisogna parlargliene anche al di fuori di queste situazioni penose e cariche di emotività.

     Si possono e si devono richiamare alla mente e raccontare i ricordi riguardo alla mamma o al papà appena scomparsi. Può esserci su un mobile una foto con un fiore vicino. E' bene portare il bambino davanti alla tomba. E' importante fargli sentire che non è solo col suo dolore, e non farglielo percepire solo con delle parole. Man mano che il bambino cresce, il linguaggio diventerà dominante come mezzo di comunicazione. Ma il mostrarsi talvolta sopraffatti dall'emozione, è già un messaggio. Non bisogna dunque cercare di nascondere il proprio dolore: il bambino può vedere la mamma o il papà piangere dal dolore. A tavola, uno dei posti può restare vuoto per del tempo. Più avanti, le sedie saranno disposte diversamente: costituirà il segno che vi è stato un cambiamento nella casa, ma che la vita deve continuare, pur senza dimenticare.

     Il 52% dei bambini pensa che "il cielo è grande e bello, c'è Dio ed è pieno di persone gentili". Solo il 4% dice che "il cielo non esiste". Dunque, è indicato far pregare i bambini, farli parlare con il papà o la mamma defunti. Tanto più che questa credenza infantile è nella corretta linea del Vangelo. "Beh, pazienza - ha detto una bimbetta dopo che il suo palloncino si era slegato prendendo il volo -; adesso il mio fratellino lassù potrà giocare col mio bel pallone".

     Osservazioni analoghe si possono fare nel caso di bambini che hanno perduto un compagno di scuola. I maestri e le maestre tirano fuori dei gioielli d'inventiva in queste tristi occasioni: pregano con la classe, mettono una foto del piccolo defunto con qualche fiore nell'angolo delle cose preziose, fan venire fuori i ricordi, ricoprono i quaderni del piccolo e li portano presso di lui, fanno visita alla tomba con la classe, suggeriscono ai bambini di scrivere una lettera ai genitori...

Perdere il proprio sposo o la propria sposa

     Lui o lei possono morire giovani e in modo inaspettato o "sazi di giorni" dopo una lunga vita felice. All'improvviso o al termine di una lunga malattia nel corso della quale si vedeva che la fine era prossima. Ma il marito o la moglie si possono perdere anche a seguito di un divorzio. In ciascuno dei casi ci sarà un particolare andamento del lutto e varie cose che si potranno fare o che si dovranno evitare.

     Vi è certamente una notevole differenza tra la perdita del proprio compagno per morte o per un divorzio. Tale differenza consiste, secondo qualcuno, nel fatto che nel caso di una separazione l'altro è ancora vivo, va ancora in giro per la strada e lo si può ancora incontrare. C'è poi un altro elemento: quando una donna perde il marito perché morto, tutti la trattano con compassione e rispetto, ma quando c'è stato un divorzio, ci si chiede: "Di chi è la colpa?".

     Affronteremo qui solo la perdita provocata dalla morte. A proposito di questo genere di sofferenza, possiamo qui richiamare quanto scriveva Agostino nelle Confessioni, quindici secoli fa, a proposito della morte di un amico: "L'angoscia avviluppò di tenebre il mio cuore. Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte. Era per me un tormento la mia patria, la casa paterna un'infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo avuto in comune con lui, la sua assenza aveva trasformate in uno strazio immane. I miei occhi se lo aspettavano dovunque senza incontrarlo, odiavo il mondo intero perché non lo possedeva e non poteva più dirmi: "Ecco, verrà", come durante le sue assenze da vivo. Io stesso ero divenuto per me un grande enigma. Chiedevo alla mia anima perché fosse triste e perché mi conturbasse tanto, ma non sapeva darmi alcuna risposta..."

     "Mi stupivo che gli altri mortali vivessero, se egli, amato da me come non avesse mai a morire, era morto; e più ancora, che io vivessi se era morto colui, del quale ero un altro se stesso, mi stupivo. Bene fu definito da un tale il suo amico la metà dell'anima sua. Io sentii che la mia anima e la sua erano state un'anima sola in due corpi; perciò la vita mi faceva orrore, poiché non volevo vivere a mezzo" (Le Confessioni, libro IV, 9 e 11, tr. it. a cura di C. Carena, Citt� Nuova, Roma 1965).

     Cos'altro si può aggiungere? E' già detto tutto: le tenebre che avvolgono il cuore, lo choc, la città e le cose che non dicono più nulla, l'amico cercato e non trovato. Le cose non rispondono più. E l'anima è sorda. E Agostino si sorprende che il mondo continui a girare e che gli uomini continuino a vivere; è addirittura stupito di essere lui ancora vivo. Si sente come tagliato in due: un uomo a metà.

     "I miei occhi se lo aspettavano dovunque senza incontrarlo", dice Agostino.

     La parola più amara quando si vive un lutto è "mai più": mai più potrò chiedergli qualcosa, mai più potremo andare a passeggiare insieme, mai più fare una gita, mai più girare assieme in bicicletta... "Quando andavamo in autobus, mi aiutava a scendere. Mi apriva la porta quando ero carica di pacchi. Quando la mia bibicletta era sgonfia... quando la grondaia era ostruita... quando si guastava il riscaldamento... quando l'acqua gelava nei tubi... quando saltava il contatore della luce... e quando arrivavano tutte quelle carte..." (Marinus van der Berg).

     E' bene che quelli che desiderano dare una mano in questi casi, si rendano conto che i più duri non sono i primi giorni dopo la morte. Ai primi tempi, ci si aspetta ancora che lui o lei ritornino. Sembra quasi di sentire i suoi passi sulle scale; si lasciano i suoi abiti nell'armadio e le sue carte sul tavolo. Poi le cose si smorzano, vengono i giorni difficili, talvolta la depressione. I primi giorni si era spesso pieni di gente intorno, ma pian piano due costatazioni s'impongono. Diviene evidente che la situazione è irreversibile. E di colpo l'attenzione delle persone intorno diminuisce: "poco a poco deve aver superato il dolore". Può allora sopraggiungere lo scoraggiamento, accompagnato dalla collera, dalla ribellione tanto verso Dio quanto verso gli uomini: "Mi lasciano soffocare!". "Odiavo il mondo intero" diceva Agostino.

     E' allora che siamo simili a Giobbe. Anche lui ha conosciuto questa depressione, un'uguale collera e un'uguale ribellione. Ma egli aveva qualcuno cui rivolgersi. Poteva parlarne con Dio. Fintanto che continuiamo a parlare con Dio, anche se c'è ribellione in noi, la situazione non è poi così negativa. Si racconta che due rabbini, detenuti ad Auschwitz, gridavano al cielo: "Dio, a guardare tutto quello che succede qui, tu non esisti affatto"; dopo aver gridato per due ore, l'uno ha detto all'altro: "Andiamo a pregare". Gesù, sulla croce, è andato ancora oltre. Ha detto: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Un'accusa? Sì, ma rivolta al Padre. Una donna ha detto: "Niente, in questo momento, mi è di aiuto, né la preghiera, né la chiesa, né parlare con qualcuno. Niente!". Sbagliava solo in una cosa: non rivolgere le sue parole a Dio.

Suicidio

Al giorno d'oggi, per fortuna, si sta sempre più vicini ai congiunti delle persone che si suicidano. Non molto tempo fa, le case e i luoghi dove uno si era dato la morte costituivano l'oggetto di un rifiuto collettivo. Come se persone e cose fremessero d'orrore all'unisono. L'opinione pubblica, la predicazione e la catechesi cercavano di porre un freno a questo modo nefando di morire attraverso l'intimidazione. Nei cimiteri, c'era un angolo di "terra non benedetta" riservato ai bambini non battezzati e ai suicidi. Erano come segnati sulla fronte, alla maniera di Caino.

     C'è stata in merito una grande evoluzione. Tuttavia, il marchio dell'infamia non è scomparso del tutto. Continua a cadere il silenzio quando, in un villaggio, un parente entra nel negozio o nell'ufficio postale. E si sente dire: "Se ti sposi con qualcuno di loro, sai il rischio che corri. Sono tutti un po' fragili di nervi".

     Come aiutare i congiunti di una persona che ha posto fine ai suoi giorni? Talvolta si cerca di consolarli accanendosi nella ricerca delle cause dell'atto: una spiegazione a scopo consolatorio. "Ah, è una cosa frequente in quest'epoca tormentata, che non ha più alcun ancoraggio morale e spirituale!". Come non si può soffrire di vertigini in una civiltà soggetta al mal di mare, mentre tutto vacilla intorno a noi? Non si aiuta per niente con questo genere di ragionamenti. Le emozioni non si governano con dei discorsi. Ciò di cui queste persone hanno bisogno è un terapeuta, non un filosofo o un teologo. Meglio di tutti sarebbe senza dubbio... un saggio.

     Le persone tentate dal suicidio vivono spesso in una bolla di sapone: s'isolano. Non li colpisce più niente, anche se vedono e sentono tutto. I loro parenti hanno colto in effetti qualche segnale. Ma si tranquillizzano ricorrendo alla saggezza popolare, che dice che chi ne parla molto non lo fa. Del resto, si sentono impotenti e si ripetono: "Purché non ci tocchi anche questo!". Oppure si consolano pensando che il medico o lo psichiatra sono persone competenti: ne hanno cura loro, noi da soli ne siamo del tutto incapaci. Poi tornano i giorni senza nuvole: sembra che nel figlio o nella figlia non ci sia più niente che non va. "Era davvero radiosa ieri sera!" La persona interessata ne parla anche lei sempre meno: "E' inutile. Mi rispondono invariabilmente: "non vorrai sul serio farci questo? Hai pensato ai tuoi bambini?""... Sul biglietto lasciato dallo sventurato o dalla sventurata, si legge talvolta: "Ah, se avessi potuto parlarne prima!".

     Ma non è mai una cosa facile, e se ne ha paura. "In famiglia è già successo... Ho paura per il mio figlio maggiore. Vedo sul suo viso un'espressione che avevo già visto su quello di mia moglie".

     E' difficile aiutare le persone che pensano di suicidarsi. In verità è disponibile un'assistenza di tipo professionale. Utile e buona. Ma in questi casi l'ascolto, la tenerezza, l'empatia possono essere ancor più d'aiuto. Non ragionare e non voler convincere, non redarguire e non cospirare, non analizzare e non cercare le cause. Accontentarsi di far vedere che ci mettiamo nei loro panni, che anche noi ci sentiamo vulnerabili di fronte all'angoscia esistenziale. E affidarli giorno dopo giorno al Signore di ogni vita.

     E i congiunti, dopo che è successo? Ci sono dei gruppi di aiuto reciproco piuttosto buoni, dove ci si può esprimere liberamente. Ricordare i precedenti ("Aveva tagliato tutti i ponti"), attenuare i sensi di colpa ("Avrei dovuto aprirgli la porta quando tornava tardi e non dirgli: se torni dopo mezzanotte dormi fuori"), superare lo sfinimento ("Ho fatto per lui tutto quello che potevo, ed ecco i risultati..."). In questi gruppi s'impara a ridare senso all'esistenza ("la prima cosa che ho fatto quando è arrivata la polizia, è stato togliere dal fuoco la pentola delle patate. Mi sono detta che non ce n'era più bisogno, che non dovevo più preparare da mangiare").

     Poi, ci sono le immagini. Specie quando uno ha fatto la triste scoperta da sé, sono immagini che non si cancelleranno più. Medici, poliziotti, pompieri, macchinisti e ferrovieri sono messi di fronte quasi brutalmente a questo genere di scoperta. Ci si pensa molto poco. Ma anch'essi, a modo loro, sono dei congiunti.

     La principale pietra d'inciampo nei casi di suicidio è la questione del perché. Vorremmo sapere in seguito a che le cose sono arrivate a quel punto. La causa è in lui o in lei, in noi, nella situazione di quel momento, nel passato? Questo desiderio è legato alla nostra profonda convinzione che riuscire a spiegare una situazione, significa averne il controllo. Comprendere è dominare. Ma forse, dovremmo rinunciare a chiederci il perché e accettare che, in caso di suicidio, non possiamo in alcun modo avere il controllo della situazione... Capita che dei parenti si arrabbino con il morto ("Perché ci ha fatto questo!") o con gli altri ("Quando uno muore di crisi cardiaca, tutti lo elogiano perché era un lavoratore accanito; ma se uno non è più in grado di affrontare la vita perché è troppo dura, è solo un debole!").

     I cristiani sanno che lo stesso Gesù, nell'orto degli ulivi, non ne poteva più. "Padre, allontana da me questo calice...". Pongono i loro fratelli e sorelle che non hanno più la forza di vivere intorno al Signore, sotto gli ulivi del Getsemani. Spesso non possono fare di più. Tranne, forse, vegliare con loro e non assopirsi come gli apostoli. Gesù dice loro: "Non riuscite a vegliare un'ora sola con loro?".

Depressione

     La depressione è un'altra forma di addio. Chi vive con una persona depressa è ugualmente una specie di congiunto, di sopravvissuto. Le persone depresse sono spesso una specie di "morti viventi". Naturalmente li si può incontrare ovunque, per la strada, al lavoro, alle feste o alle serate. Ridono e si divertono in società, a volte sono allegri fino all'euforia, trascinano gli altri. Ma nessuno sa quanto sono soli, né fino a che punto sia morto il loro cuore. Spesso l'ignora persino il loro coniuge. Quanto al loro giro di conoscenze, non ne vogliono nemmeno sentir parlare: "Non è malato, non più di me!".   "Ha troppo tempo per pensare; se avesse tutto il lavoro che ho io! non ho certo tempo di essere depresso, io!".

     Da dove viene la depressione? Colui che è psichicamente provato, deve addolcire lo stato di pena. Una cosa che richiede tempo e fatica. Nel frattempo, poniamo dei fusibili tra la realtà e la nostra sensibilità, una specie di strato d'argilla. Con l'intelligenza realizziamo l'entità del danno subito, ma per un po' la nostra sensibilità non potrebbe reggere il colpo. E' la ragione dello strato isolante. Solo che è uno strato poroso, e poco a poco lo sconforto s'infiltra fino al nostro cuore. Allora emergono irritabilità e persino collera: un ribollire simile a quello dell'acqua sulla calce viva. Dapprima tutto questo è rivolto verso gli altri, ma piano piano la vittima diventiamo noi stessi: mandiamo giù la nostra insoddisfazione, e si fanno strada i sensi di colpa. S'instaura la depressione. Forse sono necessarie una vera assistenza professionale, delle terapie. Ma davanti al paziente c'è un deserto da attraversare! Chi lo aiuta, chiunque sia, deve soprattutto accompagnarlo, cercare l'oasi più vicina. E non abbandonarlo mai.

     A volte, assistenti e consulenti potranno forse solo tacere, seduti vicino al loro paziente. Imparare a stare in silenzio, e rinfoderare tutte le risposte, i consigli, le spiegazioni e le analisi. Imparare a sedersi a fianco senza fare niente. Cosa non facile, perché quando non si ha niente da dire ci si ritira con un senso di colpa. E' nella nostra natura.

     Possiamo fare di più che far vedere che abbiamo udito il lamento? Un cristiano, sì. Ha il libro dei Salmi, che almeno per un terzo è pianto di lamenti e suppliche di persone malate, provate, disilluse se non indignate. Rivolte tutte a Dio, spesso il solo che possa aiutare in questo genere di cupo dolore. Non si tratta evidentemente di fare del Salterio una lettura obbligatoria per depressi, ma non bisogna nemmeno fare come se non esistesse.

...Tutti dobbiamo morire un giorno!

     Vi è anche questa sorta di dolore anticipato: per il fatto che tutti dobbiamo morire un giorno. Non occorre far molti commenti su questo punto, se non per dire che dobbiamo prepararci, perch� non potremo dire che non lo sapevamo.

     Ognuno di noi desidera riuscire nella vita. Ma � ancora pi� importante riuscire nella morte. Perch� la morte � il momento pi� importante dell'esistenza. E l'unico modo per morire bene � vivere bene. infatti in ogni momento della nostra vita, � gi� anticipata la morte: moriamo gi� da vivi.

     Cosa fare? Poich� la morte � un distacco, l'unico modo possibile per esercitarsi a morire � distaccarsi. Ma distaccarsi � amare: ritenere gli altri   e l'Altro   pi� grandi di s� e servirli.

     La morte � presente dappertutto e in modo diffuso. E tuttavia, nella nostra cultura, � completamente truccata, abbellita, affidata a ditte specializzate; � diventata un fatto tecnico, preferibilmente "vissuto" nell'incoscienza.

     Una morte tranquilla � spesso legata a un sentimento di soddisfazione verso tutta una vita. In quel caso, come Simeone, l'uomo se ne va calmo e in pace. Ma cosa succede quando uno muore giovane, quando uno ha sbagliato vita o almeno lo crede, quando uno ha davvero vissuto nel peccato?

     Ci si pu� rassegnare, stanchi e cinici a un tempo, o semplicemente dire: "Comunque, � finita". Il cristiano non si comporta in nessuno di questi due modi. Per il male compiuto in vita, supplica il Signore misericordioso che perdona i peccati: "Signore, non considerare i peccati della mia giovinezza...". Non pu� pi� accettare che tutto sia finito qui. "Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere pi� di tutti gli uomini... Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perch� domani moriremo..." (1Cor 15,19.32b).

Perdere il lavoro

     Perdere il lavoro � una ben grave forma di addio. Soprattutto quando si tratta di un lavoro retribuito, di un lavoro di cui uno ha bisogno per vivere. E per di pi� quando uno non pu� farci niente: malattia, chiusura dell'azienda, fallimento dovuto a cattiva gestione, et� troppo avanzata per una riconversione. O ancora quando � il caso di un commerciante che ha lavorato giorno e notte per metter su la sua attivit�, ed ecco che nei pressi aprono un grande supermercato... Perdere il lavoro � un po' morire, specie in una civilt� in cui, agli occhi della gente, "essere" qualcosa equivale a "fare" qualcosa.

     Ma essere obbligati a lasciare un'attivit� di volontariato � pure un addio che pu� far male. Si diventa troppo vecchi oppure non si va d'accordo con le idee dei nuovi arrivati. O ancora si scivola improvvisamente gi� dalla barca senza che si sia verificato alcun incidente: semplicemente non hanno pi� bisogno di te.

     Perdere un lavoro retribuito ha spesso delle immediate conseguenze materiali. Con la malattia, si dovr� ricorrere a un aiuto supplementare in famiglia; ci si deve riorganizzare la vita, distribuire diversamente la giornata; forse, trovare un alloggio pi� modesto. O ancora, disfarsi della casa messa su grazie a un prestito. Non si pu� pi� comprare tutto quello che si desidera; per la prima volta, a ogni nuovo acquisto si deve riflettere e fare i conti.

     Ma la perdita di un lavoro � pesante soprattutto sul piano psichico e morale. Ci si trova di colpo fuori dalla societ�. Magari solo per scherzare, ma � facile che la gente dica: "Adesso, hai la tua vita tranquilla a casa, con la mamma!" Comincia allora l'interminabile sequela di disillusioni presso i potenziali datori di lavoro. Ogni volta, la risposta che non viene o la parola gentile per dire che non ci sono assunzioni in vista. Uno si lascia cadere le braccia e nemmeno racconta pi� che sta cercando un lavoro. Ma non ci si abitua. E quando si viene a sapere che un altro ha trovato il lavoro ancor prima di avere in tasca il diploma... Anche il giro delle conoscenze comincia a restringersi. � che il lavoro conferisce considerazione, potere, dignit�. In un certo senso, la disoccupazione trasforma in paria.

     Chi diventa disoccupato passa attraverso differenti fasi. Sulle prime � uno choc. Anche quando la cosa era prevedibile, arriva tutto d'un colpo: "Sono senza lavoro". � un sentimento strano, che solo lentamente penetra in te. Sei come anestetizzato, ti gira la testa. Segue una fase d'ottimismo. Pieno di fervore, scrivi una gran quantit� di domande di lavoro, e ogni mattina vai fuori incontro al postino. "Una risposta arriver� di sicuro. Tanto, di lavoro ce n'� dappertutto!". Dopodich� si cade nell'apatia. Ha ancora senso cercare un lavoro? "Nessuno ha bisogno di me!". Si avvertono con durezza le osservazioni della gente all'esterno, e fanno male. Si fa fatica a togliersi dal letto, la mattina, e con altrettanta fatica ci si torna a coricare, alla sera. Non si fa pi� niente, nemmeno in casa; tutto � rinviato al giorno dopo. "Ho tempo dei mesi per farlo...". Colui che rimane a questo stadio, arriva a sprofondare del tutto. Beati quelli che possono raggiungere la quarta fase, quella in cui ci si riprende in mano, in cui si cercano delle occupazioni alternative, a rigore del lavoro di volontariato, in campo culturale o sociale. Costoro si costruiscono una nuova vita.

     Le persone senza lavoro non sono malate n� in lutto per un membro della loro famiglia, tuttavia soffrono e piangono. Anch'essi devono dire addio. Spesso lo si dimentica. Anche con loro, occorrer� sapersi sedere e ascoltare, mettersi nei loro panni.

Dolore a causa della fede

e a causa della chiesa

     Oggigiorno si soffre molto a causa della fede e a causa della chiesa. Accade a ragione e a torto: tutti e due. Ma la sofferenza c'�. Sofferenza di ogni tipo.

     N� la fede n� la chiesa sono pi� scontate nella nostra societ�: hanno perso nello stesso momento la loro posizione di forza. Dove sono finite quelle belle chiese piene, e perch� siamo cos� pochi alla domenica? Ciascuno si sente a disagio, per come sono pochi quelli che la pensano come lui, tra i suoi, tra i vicini, tra i colleghi. Dunque, sono proprio solo?

     Vengono apertamente propagandati altri valori, senza vergogna e senza scrupoli. Per vederlo e sentirlo, basta sedersi in poltrona davanti alla TV: si rimane stupefatti di cosa sia possibile. E in modo esplicito! I giovani percorrono qualunque strada, ma difficilmente quella che porta alla chiesa.

     Scompaiono antiche tradizioni: pratiche, canti, riti, folklore che accompagnavano le grandi feste. Natale non � pi� per niente il Natale di una volta! E la Settimana santa, che cade spesso durante le vacanze? La si fa al mare, anzich� in chiesa. Peggio: "Hanno cambiato la fede. Una volta, Dio era un sovrano esigente che non chiudeva gli occhi su niente. In seguito � diventato iper-misericordioso: un babbo troppo buono, che perdona qualunque cosa. Oggi qualcuno arriva a dire che pu� soffrire come noi".

     E cosa dire dei dissidi all'interno della chiesa? Dov'� finito il tempo del consenso incondizionato? Non eravamo pi� contenti quando eravamo tutti d'accordo? Ovunque, su giornali e riviste, si ritrovavano le proprie idee. Oggi come oggi, ciascun libero pulpito della stampa pu� mandare al rogo quello del giorno prima. Per non dire delle dichiarazioni dottrinali e morali provenienti dalle alte gerarchie, che sono ben lungi dall'essere accettate da tutti.

     "Che fine ha fatto il Vaticano II?", si sente dire.

     Anche in ambito religioso, vi � dunque sofferenza. Tuttavia il Vangelo trabocca di parole e di fatti che dovrebbero riaccendere la speranza malgrado tutti gli ostacoli. Forse che gli apostoli, ben prima di noi, non hanno faticato per tutta una notte, senza prendere neanche un pesce? Nondimeno hanno gettato la rete, e questa quasi si rompe per la quantit� di pesce. � bastata una sola parola di Ges�.

     La fede � una pianta che ha sempre dovuto crescere in un terreno ingrato. Nelle quattro piccole parabole che Ges� racconta ai suoi discepoli al capitolo 4 di Marco, si trova esattamente descritto cosa bisogna fare nei tempi difficili. Primo: seminare, anche quando si incontrano degli ostacoli, terreno sassoso, rovi spinosi, il bordo di un sentiero calpestato, uno strato troppo sottile di terra. Il grano seminato trova sempre la sua strada verso il terreno buono, e produrr� trenta, sessanta, cento volte tanto. Dunque, seminare; e non darsi pi� preoccupazione del seminatore che, dopo la semina, va tranquillamente a dormire. Perch� il seme germoglia e cresce da solo. Seminare. Anche se il seme � piccolo quanto un granello di senapa, esso cresce e diventa un grande albero su cui gli uccelli del cielo possono fare il nido. E infine, non dimenticate: quando avete acceso la lampada, non nascondetela, ma lasciate che faccia luce. Quando avete cominciato a evangelizzare, non ritiratevi alla chetichella, perseverate.

II. Comprensione

     Dunque, immediatamente s'impongono l'ascolto e l'empatia. Ma poi bisogna che andiamo oltre: vogliamo anche comprendere. Perch� vivere � dire continuamente addio e perch� � una cosa cos� difficile? Domande cui � stata data pi� di una risposta. Alcuni dicono "Questo � il nostro destino! Cos� � la vita! Inutile cercare oltre". L'Oriente va al di l� di questa semplice costatazione: � possibile sfuggire a tutta questa sofferenza, basta non attaccarsi a niente. Sii morbido come una nuvola: non badare alla tua forma esterna. Ma cosa dice la Bibbia, cosa dice la fede? Vivere, dicono, � partecipare alla Pasqua di Ges�: dopo la morte viene la resurrezione. E se vuoi salvare la tua vita, devi perderla.

"Vivi alla giornata..."

     "Cos'� la vita umana? Una rinuncia, dall'inizio alla fine. Si comincia al momento della nascita e si continua fino alla morte. Serve qualche ulteriore spiegazione? Inutile cercare oltre".

     La vita dell'uomo inizia con una perdita evidente: quella della sicurezza discreta del seno materno. La sua nascita � gi� l'esito di una lacerazione. Anche per la mamma, la nascita � una perdita: il suo bambino si distacca da lei, respira, si muove, ha delle sensazioni proprie, indipendentemente da lei, senza di lei. Per la madre e per il bambino � una sorta di dolore originario.

     Il processo continua con l'educazione. Infatti educare significa per i genitori distaccarsi dal loro bambino, e per il bambino distaccarsi dai genitori, fino alla separazione definitiva. Crescere, significa progressivamente separarsi, ed educare significa rinunciare.

     Man mano che cresciamo perdiamo anche, per cos� dire, la nostra innocenza: l'aspetto ingenuo e spontaneo, spensierato, senza calcoli, irrazionale della nostra esistenza si disperde. Perdiamo il diritto di dire e fare di tanto in tanto delle asinate, o di dare libero sfogo alle nostre emozioni senza altra sanzione se non un sorriso indulgente. E un bel giorno, cadiamo definitivamente dal nido.

     Dobbiamo fare fronte a non poche delusioni. Alla prova dei fatti, siamo persone molto differenti da quanto avevamo sperato. Quanto agli altri, la delusione � spesso ancora pi� cocente. Infatti, all'inizio si � contenti di trovare il proprio compagno molto simile a s�, una specie di replica, un sosia; ma il prosieguo dell'esistenza rivela che � molto diverso, quasi un estraneo.

     Parimenti, dobbiamo staccarci progressivamente dal nostro corpo: la giovinezza se ne va. La prima malattia grave rivela spesso la futura causa della nostra morte. Gli ultimi tempi sono sempre pi� lunghi, e quello che ci resta scivola via come la sabbia in una clessidra. Concludiamo la nostra corsa abbandonando tutto nella morte. E cos� si dir�: perch� farsi tante domande a proposito di tutto questo? Tale � il nostro destino.

     Arrivati a questo punto, si pu� reagire in due maniere. La prima consiste nel "vivere alla giornata" e approfittare di quel che la vita pu� dare, perch� domani tutto sar� finito. Non riflettere, non fare domande, non indugiare: prendere e godere. Punto, e basta.

Un amabile pessimismo

     � possibile una seconda reazione: una specie di rassegnazione disincantata, un amabile pessimismo, che sostiene l'opportunit� di prendere le distanze. � l'atteggiamento dell'Ecclesiaste nella Bibbia: "Vanit� delle vanit�, dice Qo�let, vanit� delle vanit�, tutto � vanit�... Per ogni cosa c'� il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C'� un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace" (Qo 1,2; 3,1-8).

     A prima vista, pare che l'Ecclesiaste non arrivi a conclusioni diverse da quelle degli epicurei. Dice, in effetti: "Ho concluso che non c'� nulla di meglio (per gli uomini) che godere e agire bene nella loro vita" (3,12). Per� prosegue: "ma che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro � un dono di Dio" (3,13). In questo caso non si tratta dunque solo di approfittare il pi� possibile del tempo presente ma anche di rendere grazie a Dio per questo bene limitato e fuggevole.

L'Oriente

     Altri cercano una soluzione pi� lontano e pi� in profondit�. La cercano nel pensiero orientale. Molti dei nostri contemporanei, qui in Occidente, subiscono il fascino della visione orientale delle cose, e cercano nelle relative tecniche un balsamo per la propria anima sofferente. Da dove proviene dunque questo forte potere di seduzione dell'Oriente?

     La nostra civilt� occidentale ha sviluppato da un secolo o due l'illusione del dominio dell'universo. Vogliamo comprendere tutto, spiegare tutto, dominare tutto. Fra poco, non ci sar� quasi pi� nulla che non controlliamo. Tutto il nostro modo di vivere � retto da quattro criteri: bellezza, rapidit�, efficienza e piacere. La nostra esistenza fila come un treno. Malattia, sofferenza e morte sono ridotte a problemi tecnici, di cui col tempo finiremo per venire a capo. E di fatto, abbiamo gi� realizzato dei progressi inauditi, e le prospettive future sono ancora tanto pi� inaudite.

     Ma nello stesso tempo, sono sorti inaspettati altri problemi... Compaiono malattie sempre nuove, l'ambiente non regge il ritmo della tecnologia, si assiste a un totale caos nella circolazione stradale, e il mantenimento di una vita sociale � possibile solo con un'intricata selva di leggi e decreti. Sono tempi estenuanti. Ciascuno � stanco, e le malattie psichiche proliferano come funghi sul tronco della civilt�. Tutti sono impelagati nella corsa verso l'"avere", e trascurano l'"essere".

     Cos� non fa meraviglia che, per una sorta di riflesso compensatore, andiamo a cercare quello di cui siamo cos� drammaticamente a corto. L'Occidente vive dentro la civilt� del cambiamento, della produzione, del dominio e del rinnovamento perpetuo. � diventato come una boutique, dove tutto deve andare in liquidazione prima che arrivi la nuova collezione. Ecco quindi che si comincia a sognare una civilt� della stabilit� e della calma, della permanenza e del mantenimento, della continuit�. � proprio ci� che ha il primo posto nel pensiero orientale. Laddove la nostra nozione di tempo � lineare   tutto si sviluppa, va in avanti, imperturbabilmente e in linea retta  , l'Oriente ha una concezione ciclica del tempo: le cose girano intorno al loro asse e ritornano sempre. Tutto nasce, prospera e scompare. Se una cosa non muore, non pu� continuare a durare. Solo dicendo addio alla propria giovinezza si diventa adulti. L'universo intero mostra un medesimo dinamismo interno e l'uomo ne � parte integrante. Se vuole essere felice, deve seguirne il movimento.

     L'Oriente parla di complementariet�. La realt� comprende un aspetto chiaro, espansivo (yang). Il giorno, la luna piena, la primavera e l'estate, la crescita e la maturit�, il periodo attivo, il maschile, il pensiero e la coscienza sono elementi yang. L'aspetto oscuro, recessivo, � il lato yin. La notte, la luna nuova, la sensazione e l'inconscio sono elementi yin. La natura prevarr� sempre sulla cultura perch� continuamente decompone tutte le conquiste umane e le sotterra nel proprio seno materno per rigenerarle. Il femminile prevale sul maschile.

     Cos� la vera arte di vivere consiste nel non fare, entrare in raccoglimento e rinunciare in assoluto a tutto: ecco il bene supremo. Distaccarsi, � vivere. Perch� il nuovo pu� venire solo quando l'antico � scomparso. Quando dico addio al giorno che finisce accogliendo la notte, in tal modo preparo il giorno seguente. La scomparsa della coppia anziana che ha avuto tre figli, permette che sboccino tre nuove famiglie. Una perdita crea sempre una cosa nuova. E mostrarsi senza forza � la forza suprema.

La Pasqua

     In quest'ambito, cos'ha da dire la fede? Tutta la problematica della rinuncia necessaria alla vittoria � gi� presente nell'Antico Testamento. Israele non deve forse abbandonare le "pentole della carne dell'Egitto" per entrare, dopo un lungo percorso nel deserto, nel "paese dove scorre latte e miele"? Rinunciare, � guadagnare.

     Ma le cose diventano ancora pi� chiare con Ges�. Tutta la sua vita si iscrive in un unico movimento di rinuncia, di "kenosi". Paolo esprime "l'avventura" di Ges� per mezzo di questo doppio polo: abbandonare e ricevere in cambio.

     "(Cristo Ges�), pur essendo di natura divina, non consider� un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogli� se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umili� se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce!" (Fil 2,6-8).

     Ovunque nel Vangelo, si ritrova lo stesso movimento pasquale - dalla sofferenza alla gloria - che Ges� accetta e adempie come una sorta di comandamento divino del Padre. Egli ne trae la legittimazione che segna tutta la sua esistenza e ne determina la fecondit�: "In verit�, in verit� vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12,24).

     Immediatamente, Ges� ne deduce la regola di vita di tutti i suoi discepoli: "Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserver� per la vita eterna" (Gv 12,25). Ma perch� deve essere cos�? Perch� la Pasqua - l'esodo dalla sofferenza verso la gloria - � il passaggio obbligato?

     La risposta a tale domanda si trova nella parola che compare di continuo in questo contesto: obbedienza. � una parola centrale nella vita di Ges�. "Padre, io vengo per fare la tua volont�". E Ges� ha imparato l'obbedienza proprio alla scuola della sofferenza (cf. Eb 5,8). C'� una cosa che deve essere chiaramente restaurata, corretta e guarita nell'uomo, il suo orgoglio: "servo inutile sono". La rinuncia � l'antidoto alla condizione di tenace attaccamento. Ecco perch�, per l'uomo, vivere � rinunciare, e rinunciare � vivere. Perch� c'� stato un punto in cui il suo diventare-uomo, la sua umanizzazione ha deragliato. Questo � il significato del mistero pasquale di Ges�, del suo passaggio dal Venerd� santo alla mattina di Pasqua: egli ci precede.

     Ma ci porta anche con s�. Al battesimo. Infatti, Ges� non � solo un modello da contemplare, � un Salvatore che ci libera e ci attira a s�. "O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Ges�, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perch� come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, cos� anche noi possiamo camminare in una vita nuova" (Rm 6,3ss).

Anestetizzarsi, relativizzare, rassegnarsi?

O prendere sul serio la morte e attraversarla?

     Siamo qui molto lontani dalla filosofia del "carpe diem". Molto lontani dal pessimismo pi� o meno sorridente dell'Ecclesiaste. La saggezza orientale � tutt'altra cosa. Infatti non si tratta d'un cieco conformarsi delle cose e della storia a delle leggi, della complementarit� di due aspetti della realt�, di un'apologia del non-agire, della passivit�. N� di un'eterno ripetersi in cui non spunta nulla di veramente nuovo, in cui tutto � la stessa pasta che cambia solo di forma.

     Rinunciare per vivere in Cristo non � un cieco conformarsi delle cose a delle leggi, � un passo in avanti dell'umanit�: oltre l'affermazione di s�, verso l'amore obbediente e prodigo. � un passaggio dalla morte alla vita, lineare, reale. E ne verr� qualcosa di assolutamente nuovo: la risurrezione. Il fatto che la vita sia rinuncia e la rinuncia vita, non fa parte della saggezza popolare e non � una ricetta della felicit�; non � neppure la rassegnazione di fronte all'inesorabile conformarsi delle cose a delle leggi. Che la vita sia rinuncia e la rinuncia vita, � una realt� di cui si fa garante Dio stesso. L'ha mostrato nella croce e nella risurrezione di Ges�.

     Il cristianesimo non cerca quindi la soluzione nella rassegnazione, nell'insensibilit� o in una compensazione attraverso il piacere; non la cerca neppure in una prudente relativizzazione o nell'indifferenza. La fede prende assolutamente sul serio la sofferenza e la separazione: non ci gira attorno, ci passa decisamente in mezzo. Mai da sola, ma con Ges�. E con la ferma speranza di trovare dall'altra parte la vita nuova in Dio.

III. Guarigione

     Rispondere alla domanda del perch� non � ancora sufficiente. Occorre guarire; e anche qui c'� bisogno di saggezza pratica e di tatto.

Una carta stradale

     La strada per guarire � lunga. E chi si mette in viaggio fa bene a portarsi una carta per sapere dove si trova. Per un fatto di orientamento, ma anche per sapere quanto cammino � stato percorso e quanto ne rimane. Inoltre � fonte d'incoraggiamento poter dire: "Oh, bene! Comunque sono gi� arrivato qui!". Lo stesso accade per un addio, un dolore, un lutto.

     Lungo la strada vi sono dei punti di riferimento, una serie di sfide da affrontare per chi ha perduto una persona cara. Un primo imperativo � accettare che una perdita c'� stata, che � realmente cos�: ho davvero perduto qualcuno. Non � raro che, dopo una morte, si continui a cercare il defunto: una debole traccia della sua presenza, un segno che forse � ancora qua. Oppure si conserva cos� com'� tutto quello che questi ha lasciato, come se si volesse tenere tutto pronto per il suo ritorno. Questa negazione della realt� rende la guarigione impossibile, o comunque la rallenta notevolmente.

     La seconda tappa � adattarsi a un ambiente dal quale il defunto � assente. In genere ci si arriva solo dopo mesi, specie in caso di perdita del proprio coniuge: occorrono lunghi mesi prima che il coniuge superstite si abitui a un'esistenza senza l'altro. Bisogna vivere da soli, educare da soli i figli, affrontare da soli i problemi finanziari; andare da soli alle feste.

     Infine, bisogna arrivare a staccare dal defunto la carica emotiva e a reinvestirla. Vi sono molti che provano delle difficolt� con questo terzo suggerimento. Temono di tradire il defunto spostando la loro attenzione su altre cose o su altre persone: una larvata infedelt�. O ancora hanno paura che il nuovo rapporto finisca anch'esso con una perdita. Alcuni non possono o non vogliono pi� legarsi. Sono bloccati: la loro vita si ferma al primo addio.

     Per guarire, � utile saper leggere questa carta stradale. Sia da parte di chi porta il lutto, sia da parte di chi desidera aiutare a elaborarlo.

La consolazione dei riti

     I riti hanno un valore insostituibile lungo le linee di frattura dell'esistenza. Le rotture ci scuotono e ci rendono instabili; i riti ci forniscono dei nuovi punti d'appoggio: stabilizzano, placano, costituiscono dei rifugi. Non possiamo vivere senza riti; senza, vi saranno sempre pi� persone che finiranno in mare, condannati, dopo un lutto, a essere sballottati di qua e di l� come un relitto dopo la tempesta.

     Ma nella nostra societ� i riti funebri si sono molto appannati. Hanno perso tra l'altro la loro impronta personale o domestica. Un tempo, nella camera mortuaria c'erano le finestre chiuse e la radio spenta. Il villaggio aveva delle tradizioni che costituivano concretamente un sostegno per la famiglia che si trovava nella prova. "Dove sono finiti i funerali di una volta?" ...I vicini portavano la bara con il defunto e tutto il villaggio l'accompagnava; a ogni incrocio che il corteo attraversava, si deponeva una croce di paglia. Ci si vestiva a lutto: ci� indicava a tutti la famiglia colpita e in tal modo la proteggeva.

     La famiglia oggi � tenuta sempre pi� a distanza dall'avvenimento. Gli impresari di pompe funebri si fanno pubblicit�: "Ci occupiamo noi di tutto; voi non dovrete fare nulla". Si raccomanda una totale passivit�. Certo � comodo, ma si � tenuti a distanza e il proprio cuore non pu� pi� avvicinarsi al defunto. Scompare dal rituale funebre qualunque personalizzazione. Il mazzolino di fiori composto da soli e poggiato sul feretro vale per� infinitamente di pi� della corona ordinata per telefono e pagata carissima. E che dire delle camere ardenti asettiche, della musica di circostanza, la stessa per tutti, e della conseguente accoglienza standardizzata?

     L'incertezza tra sepoltura e cremazione non � fortunatamente pi� questione di principio, giacch� vi sono talvolta delle buone ragioni per procedere alla seconda. Ma in quel caso si perde un che d'umano: non c'� pi� un posto determinato in cui ritrovare il defunto, dove recarsi e sostare coi propri ricordi. Ognissanti e il Giorno dei morti si celebrano, a rigore, solo nel proprio cuore. Dove altro andare, coi propri ricordi?

     Infine tutto deve andare alla massima velocit�. "Mio marito � morto in giardino. Non � pi� entrato dentro casa. Tutto � stato cos� veloce... Hanno detto che era meglio cos�. In quei momenti, uno non ha nemmeno la forza di reagire. Avrei tanto desiderato averlo in casa un'ultima volta". (M. Van den Berg).

L'unzione degli infermi

     La chiesa ha riti suoi specifici che riguardano la malattia, l'addio e la morte. Per quanto l'unzione degli infermi non sia il sacramento dei morenti (quest'ultimo � il "viatico", la comunione al momento della morte), essa si colloca in un punto di profonda frattura dell'esistenza, quello di una malattia grave.

     E l'essere malati � dire addio: i punti di appoggio hanno ceduto. Prima nel corpo: improvvisamente, non obbedisce pi� a quanto gli si ordina. Non ci si muove pi�, o solo con fatica; si respira con difficolt�. Un tempo, il corpo era un docile servitore; � diventato un valletto capriccioso che si rifiuta di dare ascolto. Questa situazione pu� fortemente irritare, anche se uno � inchiodato all'immobilit� sul proprio letto.

     Ma si perde anche il contatto con l'ambiente. Fuori, la vita continua: il lavoro, le macchine per la strada, la scuola dei bambini, le settimane, le stagioni. Tu invece, sei lontano da tutto questo. C'� una rottura. Con le persone � la stessa cosa. All'inizio, i colleghi ti vengono a trovare volentieri; ma con l'andar del tempo le visite si diradano: "Ci siamo gi� stati". "Forse non gliene importa pi� molto, o addirittura sentire le nostre storie gli procura sofferenza?". Talvolta li prende poco a poco la paura: "Non ha certo una bella cera".

     Infine, c'� la solitudine dell'anima. Dio viene bombardato dai perch�. Ci si ribella, come Giobbe... E la chiesa? Conta ancora qualcosa per me?

     Il sacramento degli infermi lega di nuovo il malato a un qualche ancoraggio. Lo riconcilia con il proprio corpo martoriato grazie alla fede nel potere di guarigione di Dio e nella risurrezione. Lo riconcilia con quanti gli stanno intorno: i familiari, gli amici, gli altri credenti. C'� anche decisamente da augurarsi che, per quanto possibile, tutti i parenti e gli amici siano l� attorno al malato, al momento dell'unzione. Parimenti, il sacramento degli infermi restaura il legame con Dio, Signore della vita che pu� strappare dalla morte. Infine, il malato entra in Ges� per attraversare con lui il mistero pasquale.

Il funerale

     Per quanto sia forte il calo della pratica religiosa, la liturgia funebre rimane sempre su percentuali elevate. L'88% dei defunti passa per la chiesa al momento del funerale.

     Bisogna dire che il funerale cristiano � un rituale profondamente consolante. La morte viene presa sul serio. Il defunto � presentato in mezzo a tutti i suoi amici. Egli entra ancora una volta nella casa di Dio e della comunit�, anche se ha vagato a lungo, anche se, dopo il battesimo, non vi ha messo piede tanto spesso. � di nuovo presso di lui.

     Si leggono brani, dall'Antico e dal Nuovo Testamento, che parlano di morte e di vita, di Lazzaro - il ricco e il povero - della croce e della risurrezione di Ges�. Si sente Paolo che risponde alla domanda dei cristiani di Tessalonica e di Corinto: "Che fine fanno i nostri morti?".

     Ma non ci si accontenta di parlare, c'� qualcosa che accade sotto i nostri occhi: Cristo viene e continua il suo cammino pasquale dal Venerd� santo alla mattina di Pasqua. Cos'altro � l'eucaristia, se non questo? Poi ci comunichiamo per il defunto: perch� Dio gli perdoni quello che ha fatto di male e porti a compimento ci� che � rimasto imperfetto.

     Allora deponiamo dolcemente il nostro defunto nella terra. Questo gesto solenne e simbolico � l'ultimo servizio che, al massimo grado possibile, possiamo rendergli: affidarlo alla nostra madre terra da cui � stato tratto. Quando i becchini giunsero nei pressi della tomba, si racconta, chiesero: "Lo lasciamo fuori?". "No", rispose il primogenito, "deponetelo nella terra: � il pi� bel gesto che ancora possiamo fare per lui. Dobbiamo compiere per lui tutto quello che va fatto".

     Durante il funerale, � bene affidare un compito a ciascun membro della famiglia, per quanto possibile: distribuire le letture, formulare le intenzioni di preghiera. Anche i bambini devono poter fare qualcosa, anche solo deporre un fiore o circondare il feretro con una candela in mano al momento dell'ultimo addio. Vi sono una quantit� di piccoli gesti possibili che sono degli altrettanti riti consolatori. In un villaggio nei pressi della Schelda, al momento del commiato, il celebrante accende due ceri presso la statua della santa Vergine. Li lasciano bruciare finch� non si consumano e si spengono da soli. Chi entra in chiesa nel corso della giornata, li vede: il defunto se ne va lentamente, Maria lo porta nelle sue mani.

     Durante il funerale, bisogna stare attenti che le parole restino nella discrezione. Infatti, al di fuori di Dio, chi pu� parlare con cognizione di causa del defunto e della sua esistenza? Fermiamoci dunque essenzialmente alla parola divina. Non c'� niente di pi� fastidioso di un'orazione funebre piena di luoghi comuni o fredda come un atto notarile. Il silenzio � di gran lunga pi� eloquente.

Dieci regole d'oro

     Per chi desidera aiutare a superare un dolore o ad affrontare la pena di un addio, possono essere utili i consigli che seguono.

     1. Prendersi del tempo.

     2. Rompere il silenzio. Lasciare sempre che colui che soffre racconti tutta la sua pena, stando zitti e senza mai interromperlo.

     3. Lasciare esprimere fino in fondo i sensi di colpa. Non assopirli, minimizzarli o affrettarsi a relativizzarli. Infatti, riconoscere e confessare � liberatorio.

     4. Non rispondere subito ai perch�. Prima di tutto ascoltare fino alla fine e aiutare le persone a vivere coi loro perch�.

     5. Aiutare le persone a compiere gesti concreti in rapporto alla loro disgrazia. Sottrarli all'apatia, alla paralisi.

     6. Osare far visita a chi piange la perdita di una persona cara. Non pensare mai: "Forse gli far� male". Continuare ad andarci, pensando piuttosto: "A quest'ora, avranno sicuramente superato il colpo".

     7. Non domandarsi mai: "Cosa gli posso andare a dire?". Non c'� da dire niente, c'� solo da ascoltare.

     8. Dopo un anno, scrivere una breve frase, una parola amorevole o un piccolo ricordo che riguarda il defunto.

     9. Non accontentarsi di parlare del defunto passando sotto silenzio il dolore dei superstiti.

     10. Astenersi da considerazioni di tipo religioso se non si � abituati a farle o se, personalmente, ci si crede solo fino a un certo punto. Ma se ci si crede, non esitare a dire tranquillamente dove si attinge la propria forza e la propria consolazione.

 

     Sorelle e fratelli, eccoci ancora una volta a vivere i giorni che precedono la Pasqua. Volgete lo sguardo a Ges�. In tutte queste cose, egli ci ha preceduto. La sua vita � stata rinuncia, la sua rinuncia � stata la vita. Ecco la Pasqua!. Ed � questa la Pasqua che mi preme augurarvi.

     Auguri di una santa Pasqua 1995!

     Godfried card. Danneels

     arcivescovo di Malines-Bruxelles

Tipo Documento
Tema Pastorale - Liturgia - Catechesi Cultura e società
Area EUROPA
Nazioni