Due secoli di concordati
Il 28 febbraio e il 1° marzo si è svolto, alla Pontificia università gregoriana, un congresso internazionale sul tema «Gli accordi della Santa Sede con gli stati (XIX-XXI secolo). Modelli e mutazioni: dallo stato confessionale alla libertà religiosa». I lavori sono stati aperti dalla Prolusione del cardinale segretario di stato Pietro Parolin, il quale nel suo discorso intitolato Concordia e concordati ha offerto un contributo per una «comprensione il più possibile ampia e approfondita degli accordi di diritto internazionale che sono stati firmati tra la Santa Sede e gli stati sulla posizione e sullo statuto giuridico della Chiesa in un determinato paese e che hanno spesso assunto la forma di concordati e convenzioni similari. Essi vengono presi in esame non solo alla luce delle pratiche diplomatiche, ma anche per quanto riguarda le dinamiche politico-religiose globali dal XIX al XXI secolo».
Dopo aver inquadrato la libertà religiosa come fondamento e limite dei concordati, e aver rilevato l’importanza che ricopre l’episcopato locale nell’elaborazione e stipula degli accordi, il capo della diplomazia vaticana si è interrogato sull’esistenza di un presunto «modello concordatario» e sulla necessità, per la Santa Sede, di raggiungere concordati con gli altri stati, chiudendo la sua riflessione con un accenno agli accordi multilaterali di cui è parte la Sede apostolica.
L’Osservatore romano 2.3.2019, 4. Cf. Regno-att. 8,2019,206.
Rivolgo a tutti voi un cordiale saluto, grato per l’invito che mi è stato rivolto di partecipare a questo convegno, che tocca un ambito di attività della Santa Sede al quale mi sono dedicato, con diverse responsabilità, ormai per quasi trent’anni. Sono lieto, quindi, di portare un mio contributo allo scopo che esso si prefigge, quello cioè di fornire una comprensione il più possibile ampia e approfondita degli accordi di diritto internazionale che sono stati firmati tra la Santa Sede e gli stati sulla posizione e sullo statuto giuridico della Chiesa in un determinato paese e che hanno spesso assunto la forma di concordati e convenzioni similari. Essi vengono presi in esame non solo alla luce delle pratiche diplomatiche, ma anche per quanto riguarda le dinamiche politico-religiose globali dal XIX al XXI secolo.
Si parte dal concordato napoleonico del 1801 che segna – in tema di accordi – il passaggio dal giurisdizionalismo delle monarchie assolute a quello degli stati liberali, e fu modello di tanti altri accordi del XIX secolo, tra i quali quelli siglati con gli stati americani appena affrancatisi dalla Spagna e dal Portogallo.
Se il passaggio tra i secoli XIX e XX conobbe una certa crisi dell’istituto concordatario, l’entrata in scena di nuovi stati europei dopo la Grande guerra (1914-1918) diede adito a quella che fu chiamata «nuova era concordataria», propiziata da Benedetto XV nella nota allocuzione In hac quidem[1] e tradotta poi nella realtà da Pio XI. Rilevante era, anche allora, l’evoluzione verso concordati fondati non più soltanto sul confessionalismo statale, essendo sufficiente – per motivare gli accordi – la garanzia del rispetto della libertà della Chiesa postulata spesso anche dalla presenza di un’alta proporzione di cattolici tra la popolazione.
Le mie vorrebbero essere alcune riflessioni di carattere generale circa il valore e il significato dei concordati e accordi della Santa Sede con gli stati nell’attuale contesto sia nazionale sia internazionale.
La libertà religiosa, fondamento
e limite dei concordati
In ogni accordo, questioni di principio s’intrecciano con questioni prettamente pratiche, addirittura strumentali: eppure, tutte mirano a garantire alla Chiesa locale il migliore spazio di libertà possibile. Sul terreno dei principi, le parti possono incontrarsi nel riconoscimento della presenza e del ruolo storico della Chiesa nella conformazione della nazione, come accade ad esempio con diversi accordi siglati con paesi dell’Europa centro-orientale dopo la caduta del muro di Berlino. Ma a partire dal concilio ecumenico Vaticano II (cioè l’ultimo quadrante dell’arco di tempo che prenderete in considerazione in questo congresso internazionale), un presupposto, direi necessario, è la libertà religiosa.
La dichiarazione conciliare Dignitatis humanae ha ribadito che lo spazio di autonomia, protetto da tale libertà civile, è pienamente conciliabile con le esigenze della libertas Ecclesiae (n. 13), che rimane primo e fondamentale principio dei rapporti fra la Chiesa e qualsiasi altra società: «Vi è quindi concordia – cito – fra la libertà della Chiesa e quella libertà religiosa che deve essere riconosciuta come un diritto a tutti gli uomini e a tutte le comunità e sancita nell’ordinamento giuridico». E la costituzione Gaudium et spes, dal canto suo, indica i vari aspetti della libertas Ecclesiae là dove dichiara: «(…) sempre e dovunque sia suo diritto predicare con vera libertà la fede e insegnare la sua dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la sua missione tra gli uomini e dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime» (n. 76; EV 1/1583).
La libertà religiosa è, al contempo, fondamento e limite dei concordati. Questi, infatti, rappresentano una «garanzia su misura», soprattutto della dimensione collettiva e istituzionale della libertà religiosa, senza la quale essa non può esistere nemmeno a livello individuale, come ha dimostrato l’esperienza dolorosa del cosiddetto socialismo reale, che puntava anzitutto a ostacolare la pratica comunitaria della religione. Al riguardo, ritengo che sia da sottolineare come quasi tutti i paesi europei, che hanno fatto tale esperienza, abbiano scelto il sistema di accordi confessionali nel ristabilire la libertà religiosa. La concertazione istituzionale, però, dalla quale nascono gli accordi concordatari, non può a sua volta comprimere la libertà religiosa personale dei cittadini, siano essi membri della Chiesa cattolica, di un’altra confessione o di nessuna. Negli accordi concordatari, la Chiesa cattolica non chiede allo stato di agire né come defensor fidei né come braccio esecutivo della legge canonica: intende soltanto ottenere uno statuto civile il più possibile adatto ai suoi specifici bisogni, entro la cornice del comune diritto costituzionale di libertà religiosa.
Sempre in tema di libertà religiosa, giova sottolineare l’evoluzione interna alla Chiesa, che, pur considerando che la «vera religione (…) sussista nella Chiesa cattolica» (Dignitatis humanae, n. 1; EV 1/1043), impara a meglio distinguere ciò che è proprio del discorso teologico e ciò che è proprio del discorso della comunità politica. Gli ultimi 50 anni di concordati esprimono in qualche modo un affinamento della distinzione, non tanto nella direzione della desacralizzazione o secolarizzazione della società, quanto in quella della capacità di collaborazione, senza sovrapposizione, secondo la classica visione cattolica del bene comune.
La rilevanza di questo diritto umano fondamentale nell’azione diplomatica della Santa Sede viene messa in luce soprattutto nei contesti nazionali dove i cattolici rappresentano una minoranza. A questo riguardo, vorrei accennare all’espansione del modello concordatario in paesi a tradizione religiosa non cristiana, particolarmente musulmana: basti ricordare gli accordi con la Tunisia (1964), con il Regno del Marocco (1983-1984), con lo Stato di Israele (1993; Regno-doc. 3,1994,81), con il Kazakistan (1998; Regno-doc. 11,1999,343), con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (2000; Regno-doc. 5,2000,162), con l’Azerbaigian (2011; Regno-doc. 15,2017,481), con il Ciad (2013; Regno-doc. 13,2017,389), con lo Stato di Palestina (2015; Regno-doc. 13,2017,396).
La contingenza della pratica concordataria
I bisogni della Chiesa, pur essendo sostanzialmente universali, acquisiscono connotati particolari a seconda dei luoghi, cioè delle culture e delle diverse situazioni di ogni singolo stato. Ciò fa sì che, entro le comuni pretese di libertà, in ogni negoziato le precise richieste avanzate possano presentare degli spunti singolari. Il ruolo assistenziale che, ad esempio, possono svolgere le scuole cattoliche non è lo stesso in uno stato dove esiste un maturo sistema scolastico pubblico e prevalente, che in luoghi ove tale sistema è ancora in fase di sviluppo.
I cambiamenti sociali avvenuti nello scorso secolo, soprattutto dopo l’ultima guerra mondiale, sono tanti e talmente veloci che persino i termini, sulle prime felici, con cui li si vorrebbe ricapitolare, si esauriscono presto e mutano in continuazione. Per quel che riguarda l’oggetto del vostro impegno congressuale, il fatto di una società sempre più variegata ed eterogenea da tutti i punti di vista, anche religioso, implica l’accresciuta relatività delle classifiche e degli schemi aprioristici.
La lista dei paesi con i quali sono stati stabiliti accordi sottolinea sia una universalità che va al di là della realtà occidentale ed europea del passato sia realtà culturali e religiose diverse. Si tratta di una separazione Chiesa-stato nata non soltanto da una relazione spesso conflittuale ma anche da una volontà moderna di rendere migliori le condizioni dell’esercizio della libertà di religione.
Certamente ogni nazione vanta una sua storia, di cui fanno parte la presenza e il ruolo svolto dalle confessioni religiose lungo i secoli: ciò si riflette nella possibilità o impossibilità di arrivare ad accordi con la Chiesa; al riguardo, basti pensare alle finora non riuscite trattative con paesi di tradizione ortodossa.
Si può, quindi, dire che la storicizzazione delle trattative per la stipula degli accordi della Santa Sede aiuta a comprenderne le mutazioni.
Esiste un modello concordatario?
Una domanda relativa ai periodi più prolifici dei concordati riguarda l’esistenza o no, presso la Santa Sede, di una specie di modello concordatario da seguire. Indubbiamente la contingenza delle trattative relativizza la questione, ma l’idealità dei principi della Chiesa cattolica può richiedere, o almeno non escludere, un’esemplarità di valori di riferimento (presente non solo nei preamboli delle convenzioni ma anche in determinati articoli). Sarebbe interessante far luce sia sul tipo di visione prospettica che ha segnato di volta in volta le trattative della diplomazia pontificia, sia sulla fondatezza di tale visione. Ma è un lavoro che la Segreteria di stato affida alla sollecitudine degli studiosi e dei ricercatori, tenendo conto anche del segreto pluridecennale che copre gli archivi della Santa Sede.
Di per sé, presso la Santa Sede non esiste un modello concordatario da seguire. La prassi normale prevede che l’avvio di un negoziato nasca da una richiesta proveniente dal paese interessato: a volte è il governo che chiede alla Santa Sede di considerare l’opportunità di un accordo internazionale sulla Chiesa cattolica nel paese; ma più spesso l’iniziativa parte dalla conferenza episcopale, che avanza la richiesta attraverso la rappresentanza pontificia. La Segreteria di stato, una volta accertata la disponibilità di massima delle autorità governative a entrare in trattativa con la Santa Sede, autorizza la creazione di una delegazione ecclesiastica, presieduta dal rappresentante pontificio e integrata da alcuni esponenti della Chiesa locale (qualche vescovo e qualche specialista del posto). Si lascia poi alla delegazione ecclesiastica il compito di individuare i temi principali da inserire nello stipulando accordo e di redigere una bozza di testo. La Segreteria di stato viene informata costantemente sull’andamento del negoziato con la delegazione statale: esamina le varie proposte di modifiche della bozza dell’accordo, invia opportune istruzioni e segue i lavori fino alla parafatura del testo, cui seguiranno la firma dell’accordo ed eventualmente la ratifica. Nello stendere la bozza, la delegazione ecclesiastica si ispira agli accordi già vigenti. Pertanto, non esiste un modello preconfezionato, ma il testo è ritagliato sui bisogni pastorali e sulle concrete potenzialità di servizio della Chiesa nel paese.
Punto di partenza e centro dell’insieme è l’accordo afferente alle questioni giuridiche, poiché è in esso che si assicurano i contenuti principali della libertas Ecclesiae, ossia la sua autonomia e indipendenza nell’adempimento della sua missione religiosa, la predicazione e il magistero, la pratica del culto e l’esercizio della potestà di governo al proprio interno: a ciò corrisponde il riconoscimento civile della sua organizzazione e degli enti che ne fanno parte, così come delle iniziative che fanno capo a essa o alle quali l’attività dei fedeli può dare vita. Gli accordi parziali, dal canto loro, prendono in considerazione spazi concreti di collaborazione: scuola e cultura, supporto economico, patrimonio culturale, assistenza religiosa nelle sue diverse forme (forze armate, ospedali, penitenziari, opere sociali...).
La soluzione di portare avanti negoziati parziali, cioè per materie, invece di un solo accordo complessivo, oltre che rendere, in teoria almeno, più flessibile l’opzione pattizia, consente di distinguere fra lo scopo primario di tale scelta e altre finalità o assunti che le girano attorno ma che sono più dipendenti dalle circostanze. In effetti, a volte la stesura dei differenti accordi è avvenuta in parallelo, ossia al contempo: così è stato, ad esempio, per gli accordi con la Spagna e con la Croazia.
L’episcopato locale
Pur rimanendo la Santa Sede il soggetto parte negli accordi a livello internazionale, nelle trattative deve essere tenuto in conto l’episcopato del paese, come prescrive il can. 365, § 2, del Codice di diritto canonico.[2] Al riguardo è noto che le conferenze episcopali, con l’autorizzazione della Santa Sede, sono spesso chiamate a stipulare intese con il competente organismo statale per l’applicazione di qualche disposizione concordataria.
Ma, accanto alla Santa Sede, appare rilevante la comparsa di altri soggetti ecclesiali come parte negli accordi di altro livello (nazionale, regionale, locale), in primis le conferenze dei vescovi. Si tratta, ovviamente, non di accordi internazionali – che vengono stipulati fra soggetti di diritto internazionale –, bensì di convenzioni di diritto privato. In questo tipo di contratti rientrano le intese di collaborazione con enti statali o intergovernativi, che possono essere stipulate – in maniera autonoma, ma coordinata, rispetto alla Santa Sede – dalle varie riunioni internazionali di conferenze episcopali (quelle per l’Africa centrale, meridionale, occidentale, orientale; per Africa-Madagascar; per l’Asia; per l’Oceania) o dai vari consigli (quelli dei patriarchi cattolici d’Oriente, delle conferenze episcopali d’Europa, dell’episcopato latinoamericano, dell’episcopato dell’America centrale, degli episcopati della Comunità europea).
Non c’è bisogno di dilungarsi qui su quanto questa novità corrisponda all’ecclesiologia conciliare, in particolare riguardo all’episcopato, alla collegialità e al ministero dei vescovi diocesani. Perciò non si tratta soltanto di un mero sviluppo tecnico nella distribuzione delle competenze, che rende più agevole e aderente alla realtà l’attuazione dei concordati (come accade con gli accordi settoriali): esso riflette, appunto, la struttura comunionale della Chiesa in cui la dimensione universale e quella locale non sono semplici livelli di organizzazione, ingranaggi più o meno grandi di un macchinario mosso da un unico motore. Infatti, l’unica Chiesa di Cristo esiste nelle e a partire dalle «Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa universale» (Lumen gentium, n. 23; EV 1/338) la quale «è veramente presente e agisce» (Christus Dominus, n. 11; EV 1/593) in ogni Chiesa particolare.[3]
Nella Chiesa dunque i rapporti fra livelli di governo, le competenze, le iniziative e le responsabilità sono articolati e spartiti seguendo criteri non strettamente tecnici. Tradurre queste peculiarità, che riguardano l’essere stesso della Chiesa, nel campo dei concordati e in generale negli accordi in cui essa è soggetto, rappresenta una sfida non dilazionabile: ne va di mezzo la sua libertà e autonomia.
Gli accordi della Santa Sede con gli stati sono necessari?
Una questione propriamente interna alla Chiesa riguarda la necessità o no di realizzare accordi con gli stati, in una tensione più artificiale che reale tra Chiesa istituzionale e Chiesa profetica, così come si manifestò soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. In realtà, la questione riguarda piuttosto la prospettiva delle trattative. Gli accordi siglati o da sottoscrivere possono indicare, allo stesso tempo, l’ottimismo e il pessimismo della Chiesa di fronte alle sfide storiche (si pensi al caso peculiare dell’Ostpolitik). La scesa a patti, infatti, può esprimere fiducia verso gli interlocutori e ottimismo nelle trattative e negli esiti futuri, ma anche resa rispetto al presente (cioè riconoscimento dell’impossibilità di un’azione ecclesiale più incisiva e comunque autonoma) e timore verso il futuro (per la mancanza di garanzie di sopravvivenza della comunità credente).
Dall’inizio della loro esistenza fino a oggi, gli accordi della Santa Sede con gli stati rappresentano uno sforzo permanente di adeguazione ai cambiamenti sociali e alla realtà religiosa. Gli adattamenti di questo genere sono validi per la difesa dei diritti umani, e in particolare della libertà religiosa, anche nel quadro statale contemporaneo di una società secolarizzata o non secolarizzata. Sarebbe erroneo pensare che nel passato gli accordi si facessero solo perché gli stati erano cristiani: la Santa Sede ha sempre cercato di trattare con i sovrani o i governi anche non cattolici o non cristiani circa le condizioni concrete di vita della Chiesa. Pure nel corso della storia europea, in mutazione da secoli con la separazione tra le Chiese di Occidente e di Oriente e con la Riforma, la Santa Sede si è adoperata per stabilire le migliori relazioni con le autorità civili di un paese, cattolico o no.
Dunque, oggi come nel passato, gli accordi tra la Santa Sede e gli stati si rivelano utili in ragione della necessità di regolare la vita della Chiesa e di assicurare la sua indipendenza di fronte al desiderio dei sovrani e dei governi – una volta anche cattolici – d’interferire nella vita e nell’organizzazione della Chiesa cattolica. Anche nel contesto di una società profondamente legata al cattolicesimo si rivelava necessario stabilire regole per prevenire le tentazioni dell’autorità civile di interferire negli affari della Chiesa.
Tuttavia l’utilità degli accordi vale anche in ragione dell’opportunità di coordinare e facilitare l’attiva partecipazione della Santa Sede e della Chiesa alla costruzione di una società umana, giusta e solidale, secondo quella prospettiva luminosa che è delineata nella costituzione conciliare Gaudium et spes.
Relazioni con gli stati senza alcuna convenzione
Un ultimo aspetto significativo riguarda la capacità della Santa Sede di intessere relazioni senza la stipula di alcuna convenzione. In un convegno sugli accordi Chiesa-stato interessa rendere ragione anche del bilaterale senza accordi e disaccordi. Al riguardo appare non secondario notare l’assenza di convenzioni con paesi anglosassoni (come Gran Bretagna e Stati Uniti d’America) o di cultura anglofona (sia in Africa che in Asia). Questo fatto potrebbe essere spiegato come una problematica di natura culturale e non d’impostazione anticlericale, che invece è piuttosto presente nei paesi di cultura latina.
Un caso, in apparenza analogo ma in realtà diverso, è quello dell’accordo orale. Esso è quasi estraneo alla moderna prassi internazionale, e di per sé non conforme alle tradizioni stilistiche della diplomazia, che resta arte essenzialmente scritta: però si tratta di una categoria teoricamente configurabile. Anzi, la storia insegna che, a volte, le materie più delicate e importanti sono state regolate segretamente fra sovrani o fra capi di stato, fondandosi esclusivamente sulla parola data.
Ancora diverso è il Gentlemen’s Agreement, l’accordo informale tra due parti, la cui caratteristica essenziale è che la sua realizzazione si basa sull’onore, sulla buona fede e sul rispetto della parola data, e che non può essere difeso giudizialmente. Un caso concreto è rappresentato dal Vietnam, dove le nomine episcopali avvengono secondo una procedura concordata oralmente con il governo. Un Gentlemen’s Agreement, però, può essere anche in forma scritta.
Infine un caso sui generis è l’accordo sulla nomina dei vescovi, firmato il 22 settembre 2018 tra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese: un accordo internazionale fra due parti per le quali ancora non c’è un riconoscimento reciproco formale.
Qui mi sia permesso di ricordare quanto il compianto card. Agostino Casaroli disse a un minutante della Segreteria di stato: «L’importante non è il concordato, ma la concordia». Questa affermazione non è la negazione del valore dei concordati o accordi, ma ben al contrario significa che accordi negoziati sono necessari per favorire l’armonia e la convivenza dentro le società odierne.
La Santa Sede e gli accordi internazionali multilaterali
Un aspetto interessante, che va oltre il tema del presente congresso, è la partecipazione della Santa Sede ad accordi internazionali multilaterali nella forma sia della sottoscrizione e della ratifica sia dell’adesione. A questo riguardo vorrei limitarmi alla seguente riflessione.
La stipulazione degli accordi della Santa Sede, ripresa durante il pontificato di papa Giovanni Paolo II e proseguita durante quelli di papa Benedetto XVI e di papa Francesco, è la prova che nel contesto mondiale e globale attuale la libertà di religione è una libertà di prima importanza, considerando che esistono numerosi testi adottati dalla comunità internazionale che trattano di tale libertà, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e dal successivo Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966.
Gli accordi attuali della Santa Sede sono anche nella logica della sua attiva partecipazione all’elaborazione di testi internazionali. Al riguardo, valga come esempio il ruolo da essa svolto come membro a pieno titolo della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE), iniziato a Helsinki nel 1972, e ancora effettivo con la sua appartenenza all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE).
In relazione alla CSCE, ora OSCE, si sa che la decisione di Paolo VI fu presa in considerazione dell’esistenza di una corbeille chiamata «dimensione umana», che poneva il tema dei diritti umani nel dialogo tra l’Occidente e il mondo comunista e sovietico. Molti ritenevano che il tema della dimensione umana sarebbe rimasto probabilmente senza frutto. La realtà fu il contrario, e in questo modo la Santa Sede ha portato avanti il tema della libertà religiosa.
Gli accordi contemporanei della Sede apostolica in Europa, in particolare in quella centrale e orientale, si integrano in questo contesto di impegni presi nella CSCE-OSCE, che sono stati adottati da tutti gli stati europei di oggi, compresi gli stati dell’ex Unione Sovietica, dagli Stati Uniti d’America e dal Canada. L’azione diplomatica della Santa Sede nel negoziare accordi specifici si conforma, dunque, a quanto è desiderato e determinato dalla comunità internazionale secondo il diritto internazionale e secondo gli impegni internazionalmente presi fino a oggi dagli stati.
Pietro card. Parolin,
segretario di stato vaticano
[1] Allocuzione pronunciata durante il concistoro segreto del 21.11.1921: AAS 13 (1921), 521-524.
[2] Codice di diritto canonico, can 365: «§ 1. È inoltre compito peculiare del legato pontificio che esercita contemporaneamente una legazione presso gli stati secondo le norme del diritto internazionale: 1° promuovere e sostenere le relazioni fra la Sede apostolica e le autorità dello stato; 2° affrontare le questioni che riguardano i rapporti fra Chiesa e stato; trattare in modo particolare la stipulazione e l’attuazione dei concordati e delle altre convenzioni similari. § 2. Nella trattazione delle questioni di cui al § 1, a seconda che lo suggeriscano le circostanze, il legato pontificio non ometta di richiedere il parere e il consiglio dei vescovi della circoscrizione ecclesiastica e li informi sull’andamento dei lavori».
[3] Sebbene il papa, «in virtù del suo ufficio di vicario di Cristo e di pastore di tutta la Chiesa», abbia su di essa «la potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente» (Lumen gentium, n. 22; EV 1/337), ciò non toglie che a loro volta i vescovi presiedano «in luogo di Dio al gregge, di cui sono i pastori, quali maestri di dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo» (Lumen gentium, n. 20; EV 1/333). Essi «reggono le Chiese particolari a loro affidate, come vicari e delegati di Cristo», e «questa potestà, che personalmente esercitano in nome di Cristo, è propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in definitiva regolato dalla suprema autorità». (…) «A essi è pienamente affidato l’incarico pastorale ossia l’abituale e quotidiana cura del loro gregge, né devono essere considerati i vicari dei romani pontefici, perché esercitano una potestà che è loro propria e con tutta verità sono detti sovrintendenti (antistites) dei popoli che governano. La loro potestà quindi non è sminuita dalla potestà suprema e universale, ma anzi è da essa affermata, corroborata e rivendicata» (Lumen gentium, n. 27; EV 1/352).