D
Documenti
Documenti, 5/2023, 01/03/2023, pag. 140

Ricomporre le tensioni nella sinodalità

Assemblea continentale per l’Europa del Sinodo 2021-2024 (Praga, 5-12 febbraio 2023)

«Abbiamo approfondito le intuizioni che le comunità ecclesiali del nostro continente hanno maturato grazie al processo sinodale, così come le tensioni e gli interrogativi che le Chiese europee si trovano di fronte». Si è svolta a Praga, dal 5 al 9 febbraio, l’Assemblea continentale europea del percorso del Sinodo dei vescovi, con 200 delegati (vescovi, presbiteri, diaconi, consacrate e consacrati, laici e laiche) provenienti da 45 paesi: 156 dalle 39 conferenze episcopali europee e 44 invitati dal Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (CCEE), più 270 delegati on-line. La bozza del documento conclusivo, recepito dai presuli nella loro riunione finale (9-12 febbraio), arriverà entro marzo e sarà redatta in una sintesi che, unitamente a quelle provenienti dai lavori delle altre assemblee che si stanno svolgendo tra febbraio e marzo (Oceania, Medio Oriente, Asia, Africa, Americhe), confluirà entro giugno nello Strumento di lavoro della prima delle due Assemblee generali del Sinodo, che si celebrerà nell’autunno 2023 in Vaticano.

I testi che pubblichiamo (l’omelia di apertura dell’arcivescovo di Praga Jan Graubner, il discorso introduttivo del teologo Tomáš Halík, l’omelia del segretario generale del Sinodo dei vescovi card. Mario Grech, le Raccomandazioni conclusive) esprimono un persistente divario tra le visioni ed esperienze delle Chiese europee occidentali e orientali, e la volontà di ricondurle a unità nel dialogo sinodale.

 

Stampa (13.2.2023) da sito prague.synod2023.org. Titolazione redazionale.

Una Chiesa in crisi
Omelia dell’arcivescovo di Praga

Eminenze, cari confratelli nel ministero episcopale e sacerdotale, cari diaconi, care sorelle e cari fratelli,

oggi siamo giunti qui da ogni parte d’Europa per riunirci nell’ambito del processo sinodale. Da molti mesi ormai cerchiamo, su invito di papa Francesco, di incontrarci in un’atmosfera aperta allo Spirito Santo e di imparare ad ascoltarci a vicenda. Dai risultati si evince che abbiamo raccolto tutto ciò che opprime o ferisce molte persone, ciò di cui hanno bisogno e che desiderano all’interno della comunità della Chiesa, ciò che vorrebbero cambiare. Tuttavia non abbiamo scoperto il sensus fidei dei fedeli. Si vede che molte persone, pur attive nella Chiesa, non conoscono né la Bibbia né gli insegnamenti della Chiesa, e ciò non depone proprio a favore del nostro operato. Penso che sia pertanto necessario ascoltare ora soprattutto la voce di Dio e chiedere: cosa ci dice Gesù, che ha fondato la comunità della Chiesa e ci ha invitati a esserne parte?

Viviamo in un periodo di prosperità senza precedenti nella storia dell’Europa. Allo stesso tempo stiamo vivendo diverse crisi, alcune delle quali sono proprio il risultato di quella prosperità che ha assunto un posto di assoluto rilievo nei nostri propositi. Anche i cristiani non sono esenti dal concentrarsi troppo su sé stessi e sui propri diritti. In molti casi Dio è diventato un semplice assistente nel realizzare i nostri progetti e inseguire la nostra felicità. Coloro che ritenevano che l’assistente non li avesse serviti a sufficienza, lo hanno licenziato dal proprio servizio. Hanno smesso di considerarlo. Non hanno più bisogno della Chiesa. Il cattivo esempio di alcuni credenti e gli scandali che hanno coinvolto alcuni sacerdoti sono serviti a giustificare quel loro atteggiamento. Questo è particolarmente evidente tra i giovani. Le parole di Gesù nel Vangelo di oggi sembrano proprio trovare applicazione qui: «Ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che a essere gettato via e calpestato dalla gente» (Mt 5,13).

Oggi Cristo ci ricorda con enfasi il nostro compito di essere la luce del mondo (Mt 5,14): «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (Gv 12,46). E altrove: «Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo» (Gv 9,5). Forse possiamo concludere da queste parole che siamo la luce del mondo solo nella misura in cui Cristo vive in noi. E l’apostolo Giovanni afferma: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3,19). Se dobbiamo giungere alla conclusione che noi, come Chiesa in Europa, non siamo una luce sufficiente per la società, allora dobbiamo ammettere con umiltà di essere anche noi tra coloro che hanno amato le tenebre perché alcune delle nostre azioni erano malvagie.

Non vi sono saggezza umana, astuzia o scuse che ci aiuteranno a uscire da questa situazione. Né tantomeno il tentativo di conformarsi al mondo. L’unico atteggiamento giusto è quello di accettare l’invito di Cristo con cui iniziò il suo discorso pubblico: «Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17). Alcuni hanno tradotto l’esortazione «convertitevi» in modo molto appropriato, e cioè: iniziate a pensare in modo diverso. Penso che oggi il significato possa essere: smettete di pensare in termini mondani e abbracciate il modo di pensare di Dio. Non imponete la vostra visione, ma abbracciate quella di Dio.

La seconda lettura ci insegna come l’apostolo Paolo contrapponga coloro che abbagliano con la saggezza e l’eloquenza umana, con il potere umano e il successo umano, al Cristo crocifisso che egli professa non solo con parole e proclami, ma anche con la propria vita e il proprio lavoro. Cristo ha fatto sacrificio di sé stesso. E non dimentichiamo che lui dice anche: «Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,38).

Se vogliamo sperimentare la vicinanza del Regno dei cieli, dobbiamo iniziare a pensare in modo diverso e riscoprire il Crocifisso come nostro ideale. Senza di lui, la Chiesa non può esistere, né può essere rinnovata.

Nella prima lettura abbiamo ascoltato i consigli di Isaia su come pentirsi. Nei versetti precedenti, il Signore dice del suo popolo con stima: «Mi cercano ogni giorno, bramano di conoscere le mie vie, come un popolo che pratichi la giustizia e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio; mi chiedono giudizi giusti, bramano la vicinanza di Dio» (Is 58,2). Ma essi brontolarono: «“Perché digiunare, se tu non lo vedi, mortificarci, se tu non lo sai?”. Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai» (Is 58,3). Dio richiede un cambiamento nel pensare e nell’agire: atti d’amore disinteressati a favore dei bisognosi. Solo allora la luce arriverà a voi.

Care sorelle, cari fratelli, io penso che nella liturgia di oggi la parola di Dio ci dia un consiglio fondamentale per il nostro agire comune: trovate il coraggio di uscire dalle vostre tenebre e di prendere una nuova decisione a favore del Cristo crocifisso, di liberarvi e di uscire dalla prigione del vostro io, di spostare l’epicentro del vostro pensiero da voi stessi al tu di Dio, di non cercare la sapienza umana ma la stoltezza della croce, di uscire dalla nostra mentalità chiusa europea e di costruire una società del benessere che sia, generosamente, con amore sincero, al servizio dei più poveri del mondo, compresi coloro che soffrono in Ucraina e nell’Africa povera. Abbiate pietà dei bambini a cui nessuno ha insegnato ad amare il Signore Gesù. Solo allora la luce splenderà su di noi, solo allora Cristo stesso splenderà in noi, e allora attirerà a sé le giovani generazioni e interi popoli. Se non offriamo loro un incontro con il Dio vivente in noi e tra di noi, non abbiamo nulla da offrire loro. Solo Dio può ispirarli e attirarli a sé. Portiamo Dio a loro!

≅ Jan Graubner,

arcivescovo di Praga

Ripartire
dalla spiritualità
Tomáš Halík

All’inizio della loro storia, quando si chiese ai cristiani che cosa ci fosse di nuovo nella loro pratica, se fosse una nuova religione o una nuova filosofia, essi risposero: è la via. È questo il modo di seguire colui che ha detto: Io sono la Via. I cristiani sono costantemente tornati a questa visione nel corso della storia, soprattutto in tempi di crisi.

Il compito del Sinodo mondiale dei vescovi è l’anamnesi. È essere richiamati a ricordare, è ravvivare e approfondire il carattere dinamico del cristianesimo. In principio il cristianesimo fu la via e deve essere la via ora e per sempre. Così fu all’inizio, così deve essere ora e per sempre. La Chiesa come comunione di pellegrini è un organismo vivente, il che significa essere sempre aperta, in trasformazione e in evoluzione. La sinodalità, un cammino comune (syn hodos), significa una costante apertura allo Spirito di Dio, attraverso il quale Cristo vivente e risorto vive e opera nella Chiesa. Il Sinodo è un’opportunità per ascoltare insieme ciò che lo Spirito sta dicendo alle Chiese oggi.

Nei prossimi giorni saremo chiamati a riflettere insieme sui primi frutti del cammino per ravvivare il carattere sinodale della Chiesa nel nostro continente. È un piccolo tratto di un lungo cammino. Questo piccolo ma importante frammento dell’esperienza storica del cristianesimo europeo deve essere inserito in un contesto più ampio, nel variopinto mosaico del cristianesimo globale del futuro. Dobbiamo dire in modo chiaro e comprensibile ciò che il cristianesimo europeo oggi vuole e può fare per rispondere alle gioie e alle speranze, alla tristezza e all’angoscia del nostro pianeta – questo pianeta che oggi è interconnesso in vari modi e allo stesso tempo è diviso e minacciato globalmente in vari modi.

Ci incontriamo in un paese che ha una storia religiosa drammatica. Questa include i prodromi della Riforma nel XIV secolo, le guerre religiose del XV e XVII secolo e le gravi persecuzioni della Chiesa nel XX secolo. Nelle carceri e nei campi di concentramento dell’hitlerismo e dello stalinismo i cristiani hanno imparato l’ecumenismo pratico e il dialogo con i non credenti, la solidarietà, la condivisione, la povertà, la «scienza della croce».

Amanti della verità

Questo paese ha subito tre ondate di secolarizzazione dovute a cambiamenti socioculturali: una «secolarizzazione morbida» a seguito della rapida transizione da una società agricola a una industriale; una secolarizzazione dura, violenta sotto il regime comunista; e un’altra «secolarizzazione morbida» portata dalla transizione da una società totalitaria a una fragile democrazia pluralista nell’era postmoderna. Sono proprio le trasformazioni, le crisi e le prove che ci sfidano a trovare nuovi percorsi e opportunità per una comprensione più profonda di ciò che è essenziale.

Nel corso di una visita a questo paese, papa Benedetto ha espresso per la prima volta l’idea che la Chiesa debba, come il Tempio di Gerusalemme, aprire un «cortile dei gentili». Mentre le sette accettano solo chi è pienamente osservante e impegnato, la Chiesa deve lasciare uno spazio aperto ai cercatori spirituali, a coloro che, pur non identificandosi pienamente con i suoi insegnamenti e le sue pratiche, sentono comunque una certa vicinanza al cristianesimo. Gesù ha dichiarato: «Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,40); ha messo in guardia i suoi discepoli dallo zelo dei rivoluzionari e degli inquisitori, dai loro tentativi di recitare la parte degli angeli del Giudizio universale e di separare troppo presto il grano dalla pula. Anche sant’Agostino sosteneva che molti di quelli che pensano di essere fuori in realtà sono dentro, e molti di coloro che pensano di essere dentro sono in realtà fuori.

La Chiesa è un mistero; sappiamo dove sia la Chiesa, ma non sappiamo dove essa non sia.

Crediamo e confessiamo che la Chiesa è un mistero, un sacramento, un segno (signum): un segno dell’unità di tutta l’umanità in Cristo. La Chiesa è un sacramento dinamico, è una via verso quella meta. L’unificazione totale è una meta escatologica che può essere pienamente raggiunta solo alla fine della storia. Solo allora la Chiesa sarà completamente e perfettamente una, santa, cattolica e apostolica. Solo allora vedremo e rispecchieremo pienamente Dio, così come egli è.

Il compito della Chiesa è quello di mantenere sempre presente nei cuori umani il desiderio di questa meta e, allo stesso tempo, di resistere alla tentazione di considerare definitiva e perfetta qualsiasi forma della Chiesa, qualsiasi stato della società e qualsiasi stato della conoscenza religiosa, filosofica o scientifica.

Dobbiamo sempre distinguere la forma concreta della Chiesa nella storia dalla sua forma escatologica; ossia dobbiamo distinguere la Chiesa in cammino, la Chiesa che lotta (Ecclesia militans), dalla Chiesa vittoriosa nei cieli (Ecclesia triumphans). Considerare la Chiesa nel corso della storia come la perfetta Ecclesia triumphans porta al trionfalismo, una pericolosa forma di idolatria. Inoltre l’«Ecclesia militans», se non resiste alla tentazione del trionfalismo, può diventare una peccaminosa istituzione militante.

Confessiamo con umiltà che questo è accaduto ripetutamente nella storia del cristianesimo. Queste tragiche esperienze ci portano ora alla ferma convinzione che la missione della Chiesa sia quella
di essere una fonte d’ispirazione e trasformazione spirituale, nel pieno rispetto della libertà di coscienza di ogni persona umana e nel rifiuto di qualsiasi uso della forza, di qualsiasi forma di manipolazione. Come il potere politico, anche l’influenza morale e l’autorità spirituale possono essere abusate, come ci hanno mostrato gli scandali degli abusi sessuali, psicologici, economici e spirituali nella Chiesa, in particolare l’abuso e lo sfruttamento dei più deboli e vulnerabili.

Il compito permanente della Chiesa è la missione. La missione nel mondo di oggi non può essere la «reconquista», un’espressione di nostalgia per un passato perduto, o il proselitismo, la manipolazione, un tentativo di spingere chi è in cerca entro i confini mentali e istituzionali esistenti della Chiesa. Piuttosto, questi confini devono essere ampliati e arricchiti proprio dalle esperienze compiute da quanti si mettono alla ricerca.

Se prendiamo sul serio il principio della sinodalità, allora la missione non può essere intesa come un processo unilaterale, ma piuttosto come un accompagnamento in uno spirito di dialogo, una ricerca di comprensione reciproca. La sinodalità è un processo di apprendimento in cui non solo insegniamo ma anche impariamo.

L’invito ad aprire il «cortile dei gentili» all’interno del tempio della Chiesa per integrare chi è in cerca è stato un passo positivo sulla via della sino-
dalità nello spirito del concilio Vaticano II. Oggi, però, dobbiamo andare oltre. È successo qualcosa a tutta la forma del tempio della Chiesa e non dobbiamo ignorarlo.

Prima della sua elezione al soglio di Pietro, il card. Bergoglio ha ricordato le parole della Scrittura: Gesù sta alla porta e bussa. Ma oggi, ha aggiunto, Gesù bussa dall’interno. Vuole uscire e noi dobbiamo seguirlo. Dobbiamo superare i nostri attuali confini mentali e istituzionali per andare soprattutto verso i poveri, gli emarginati, i sofferenti. La Chiesa deve essere un ospedale da campo: occorre sviluppare ulteriormente questa idea di papa Francesco. Un ospedale da campo deve avere il sostegno di una Chiesa che sia in grado di offrire una diagnosi competente (leggere i segni dei tempi); prevenzione (rafforzare il sistema immunitario contro ideologie infettive come il populismo, il nazionalismo e il fondamentalismo); terapia e guarigione a lungo termine (compreso il processo di riconciliazione e di guarigione delle ferite dopo periodi di violenza e ingiustizia).

Per questo compito molto delicato, la Chiesa ha urgente bisogno di alleati; il suo cammino deve essere condiviso, un cammino comune (syn hodos). Non dobbiamo avvicinarci agli altri con l’orgoglio e l’arroganza di chi possiede la verità. La verità è un libro che nessuno di noi ha ancora letto fino in fon-
do. Non siamo proprietari della verità, ma amanti della verità e amanti dell’Unico che può dire: io sono la Verità.

Gesù non ha risposto alla domanda di Pilato con una teoria, un’ideologia o una definizione della verità. Ma ha testimoniato la verità che trascende tutte le dottrine e le ideologie; ha rivelato la verità che sta accadendo, che è viva e personale. Solo Gesù può dire: io sono la Verità. E allo stesso tempo dice: io sono la via e la vita.

Cerchiamo Cristo vivente

Una verità che non fosse viva e non fosse una via sarebbe più simile a un’ideologia, a una mera teoria. L’ortodossia deve essere combinata con l’ortoprassi – il retto agire. E non dobbiamo dimenticare la terza dimensione, più profonda, del vivere nella verità. È l’ortopatia, la passione retta, il desiderio, l’esperienza interiore – la spiritualità. È soprattutto attraverso la spiritualità – l’esperienza spirituale dei singoli credenti e di tutta la Chiesa – che lo Spirito ci introduce gradualmente all’interezza della verità. Queste tre dimensioni hanno bisogno l’una dell’altra.

Sebbene l’ortodossia (idee rette) possa essere intellettualmente attraente, senza l’ortoprassi (retto agire) è inefficace e senza l’ortopatia (retto sentire) è fredda, insensibile e superficiale. La nuova evangelizzazione e la trasformazione sinodale della Chiesa e del mondo costituiscono un processo in cui dobbiamo imparare ad adorare Dio in modo nuovo e più profondo: in Spirito e verità.

Non dobbiamo temere che alcune forme della Chiesa stiano morendo: «Se il chicco di grano non cade in terra e non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Non dobbiamo cercare i vivi tra i morti. In ogni periodo della storia della Chiesa dobbiamo esercitare l’arte del discernimento spirituale, distinguendo sull’albero della Chiesa i rami che sono vivi e quelli che sono secchi e morti.

Il trionfalismo, l’adorazione di un Dio morto, deve essere sostituito da un’umile ecclesiologia kenotica. La vita della Chiesa consiste nel partecipare al paradosso della Pasqua: il momento del dono di sé e dell’autotrascendenza, la trasformazione della morte in risurrezione e vita nuova.

Con gli occhi della fede, possiamo vedere non solo il processo continuo della creazione (creatio continua). Nella storia – e soprattutto nella storia della Chiesa – possiamo anche vedere i processi continui di incarnazione (incarnatio continua), sofferenza (passio continua) e risurrezione (resurrectio continua).

L’esperienza pasquale della Chiesa nascente racchiude la sorpresa che la risurrezione non è una risuscitazione del passato, ma una trasformazione radicale. Teniamo conto che anche gli occhi di quanti gli furono più vicini e più cari non riconobbero Cristo risorto. Maria Maddalena lo riconobbe dalla sua voce, Tommaso dalle sue ferite, i pellegrini di Emmaus allo spezzare del pane.

Ancora oggi, una parte importante dell’esistenza cristiana è l’avventura della ricerca del Cristo vivente, che si presenta a noi in molte forme sorprendenti, a volte anonime. Arriva attraverso la porta chiusa della paura; sentiamo la sua mancanza quando ci rinchiudiamo nella paura. Viene a noi come voce che parla al nostro cuore; non ce ne accorgiamo se ci lasciamo assordare dal rumore delle ideologie e della pubblicità commerciale. Si mostra a noi nelle ferite del nostro mondo; se ignoriamo queste ferite, non abbiamo il diritto di dire con l’apostolo Tommaso: mio Signore e mio Dio! Egli si mostra a noi come lo sconosciuto sulla strada di Emmaus; non riusciamo a incontrarlo se non siamo disposti a spezzare il pane con gli altri, anche con gli sconosciuti.

La Chiesa in quanto «signum», segno sacramentale, è simbolo di quella «fratellanza universale» che è la meta escatologica della storia della Chiesa, della storia dell’umanità e di tutto il processo della creazione. Crediamo e confessiamo che è un signum efficiens, uno strumento efficace di questo processo di unificazione. E, per realizzarlo, occorre coniugare contemplazione e azione.

Richiede una «pazienza escatologica» nei confronti della santa inquietudine del cuore, che può cessare solo tra le braccia di Dio alla fine dei secoli. La preghiera, l’adorazione, la celebrazione dell’eucaristia e l’«amore politico» sono elementi reciprocamente compatibili del processo di divinizzazione, la cristificazione del mondo.

La diakonia politica crea una cultura di vicinanza e solidarietà, di empatia e ospitalità, di rispetto reciproco. Costruisce ponti tra persone di popoli, culture e religioni diverse. Allo stesso tempo, la diakonia politica è anche un servizio di culto, parte di quella metanoia in cui la realtà umana e interpersonale viene trasformata, conferendole una divina qualità e profondità.

La Chiesa partecipa alla trasformazione del mondo soprattutto attraverso l’evangelizzazione, che è la sua missione principale. La fecondità dell’evangelizzazione sta nell’inculturazione, l’incarnazione della fede in una cultura viva, nel modo in cui la gente pensa e vive. Il seme della Parola deve essere piantato in un buon terreno alla giusta profondità. L’evangelizzazione senza inculturazione è un mero indottrinamento superficiale.

Il cristianesimo europeo è stato considerato un esempio paradigmatico di inculturazione: nella civiltà europea il cristianesimo divenne la forza dominante. Gradualmente, però, sono emersi i difetti e le ombre di questo tipo di evangelizzazione. A partire dall’Illuminismo, abbiamo assistito in Europa a una certa «ex-culturazione» del cristianesimo, una secolarizzazione della cultura e della società. Il processo di secolarizzazione non ha causato la scomparsa del cristianesimo, come taluni si aspettavano, ma la sua trasformazione. Alcuni elementi del messaggio evangelico che erano stati trascurati dalla Chiesa durante la sua associazione con il potere politico sono stati incorporati nell’umanesimo secolare. Il concilio Vaticano II tentò di porre fine alle «guerre culturali» tra il cattolicesimo e la modernità secolare e di integrare proprio questi valori (ad esempio l’enfasi sulla libertà di coscienza) nell’insegnamento ufficiale della Chiesa attraverso il dialogo (Hans Urs von Balthasar ha parlato di «saccheggiare gli egiziani»).

La prima frase della costituzione Gaudium et spes suona come una promessa di matrimonio: la Chiesa ha promesso all’uomo moderno amore, rispetto e fedeltà, solidarietà e ricettività alle sue gioie e speranze, alle sue tristezze e angosce.

Tuttavia, questa cortesia fu poco ricambiata. Per l’«uomo moderno» la Chiesa era una sposa troppo vecchia e brutta. Inoltre la benevolenza della Chiesa nei confronti della cultura moderna giunse in un momento in cui la modernità stava volgendo al termine. La rivoluzione culturale del Sessantotto rappresentò verosimilmente sia il culmine sia la fine dell’epoca della modernità. Il 1969, l’anno in cui l’uomo mise piede sulla Luna e l’invenzione del microprocessore dette il via all’era di Internet, può essere visto come l’inizio simbolico di una nuova epoca postmoderna. Quest’epoca è stata caratterizzata in particolare dal paradosso della globalizzazione: da un lato l’interconnessione quasi universale, dall’altro la pluralità radicale.

Dalla globalizzazione
alla fratellanza universale

Il lato oscuro della globalizzazione si sta mostrando oggi. Si pensi alla diffusione globale della violenza, dagli attacchi terroristici agli Stati Uniti del 2001 al terrorismo di stato dell’imperialismo russo e all’attuale genocidio russo in Ucraina; alle pandemie di malattie infettive; alla distruzione dell’ambiente naturale; alla distruzione del clima morale attraverso populismo, fake news, nazionalismo, radicalismo politico e fondamentalismo religioso.

Teilhard de Chardin fu uno dei primi profeti della globalizzazione, che chiamò «planetarizzazione», riflettendo la sua collocazione nel contesto dello sviluppo complessivo del cosmo. Teilhard sosteneva che la fase culminante del processo di globalizzazione non sarebbe scaturita da una sorta di automatismo dello sviluppo e del progresso, ma da una svolta consapevole e libera dell’umanità verso «un’unica forza che unisce senza distruggere». Egli vedeva questa forza nell’amore come è inteso nel Vangelo. L’amore è autorealizzazione attraverso l’autotrascendenza.

Credo che questo momento decisivo stia accadendo proprio adesso e che la svolta del cristianesimo verso la sinodalità e la trasformazione della Chiesa in una comunità dinamica di pellegrini possano avere un impatto sul destino dell’intera famiglia umana. Il rinnovamento sinodale può e deve essere un invito, un incoraggiamento e un’ispirazione per tutti a camminare insieme, a crescere e a maturare insieme.

Il cristianesimo europeo ha oggi il coraggio e l’energia spirituale per scongiurare la minaccia di uno «scontro di civiltà», convertendo il processo di globalizzazione in un processo di comunicazione, condivisione e arricchimento reciproco, in una «civitas oecumenica», una scuola di amore e «fratellanza universale»?

Quando la pandemia di coronavirus ha svuotato e chiuso le chiese, mi sono chiesto se questo lockdown non fosse un avvertimento profetico. Questo è come potrebbe apparire tra poco l’Europa se il nostro cristianesimo non viene rivitalizzato, se non comprendiamo ciò che «lo Spirito sta dicendo alle Chiese» oggi.

Se la Chiesa deve contribuire alla trasformazione del mondo, deve essere essa stessa permanentemente trasformata: deve essere «Ecclesia semper reformanda». Perché la riforma, un cambiamento di forma, ad esempio di alcune strutture istituzionali, porti buoni frutti, essa deve essere preceduta e accompagnata da una rivitalizzazione del «sistema circolatorio» del corpo della Chiesa, ovvero la spiritualità. Non è possibile concentrarsi solo sui singoli organi e trascurare di curare ciò che li unisce e che li infonde di Spirito e di vita.

Oggi molti «pescatori di uomini» provano sentimenti simili a quelli dei pescatori galilei sulle rive del lago di Genesaret quando incontrarono per la prima volta Gesù: «Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla». In molti paesi d’Europa chiese, monasteri e seminari sono vuoti o semivuoti.

Gesù ci dice la stessa cosa che disse ai pescatori esausti: provate di nuovo, andate al largo, nelle acque profonde. Riprovare non significa ripetere i vecchi errori. Ci vuole perseveranza e coraggio per abbandonare i fondali bassi e andare in acque profonde. «Perché avete paura, non avete fede?», dice Gesù in tutte le tempeste e le crisi.

La fede è un viaggio coraggioso verso il profondo, un viaggio di trasformazione (metanoia) della Chiesa e del mondo, un viaggio comune (syn-hodos) di sinodalità. È un viaggio dalla paura paralizzante (paranoia) alla metanoia e alla pronoia, alla lungimiranza, alla prudenza, al discernimento, all’apertura al futuro e alla ricettività alle sfide di Dio nei segni dei tempi.

Che il nostro incontro a Praga sia un passo coraggioso e benedetto in questo lungo e impegnativo cammino.

Tomáš Halík

Un Sinodo
di preposizioni
Card. Mario Grech

Non abbiamo una lingua comune, ma c’è qualcosa di comune nelle nostre lingue. Parliamo lingue diverse, proveniamo da tradizioni linguistiche diverse, ma tutte le lingue del nostro continente fanno uso di preposizioni. Le preposizioni sono essenziali per farsi capire. I sostantivi, senza preposizioni che indicano luogo, direzione, temporalità, avrebbero poco o addirittura nessun senso. Le preposizioni sono infatti essenziali. Senza di esse, la lingua non funziona... ma non solo la lingua.

Anche la teologia, il nostro discorso su Dio e sull’umanità, proprio perché è un discorso, non potrebbe funzionare senza preposizioni. Guardiamo ciò che Gesù dice nel Vangelo di oggi. È un Vangelo difficile da comprendere. Quanto sarebbe più difficile farlo senza le preposizioni. Infatti, l’intero significato del Vangelo si basa sulle preposizioni utilizzate. Non vi è nulla fuori dell’essere umano che, entrando in lui, possa corromperlo, ma è quanto esce dall’essere umano, questo è ciò che lo corrompe. Senza le preposizioni questa frase non avrebbe senso. L’enfasi sembra essere posta proprio sulle preposizioni. Non vi è nulla fuori dell’essere umano che, entrando in lui, possa corromperlo, ma è quanto esce dall’essere umano, questo è ciò che lo corrompe l’uomo. Extra, in, de sono le preposizioni utilizzate dalla Vulgata.

In questo Vangelo, le preposizioni sono usate per operare distinzioni e per renderle chiare. Ciò che è fuori è diverso da ciò che è dentro, e l’uno non va confuso con l’altro. Qui le preposizioni sono utilizzate per spiegare il movimento, per specificare cosa entra e cosa esce. Ma c’è di più. Le preposizioni implicano sempre una relazione. Qualificano la relazione tra un oggetto e un altro oggetto, o tra un oggetto e il tempo o lo spazio. In altre parole, non esiste preposizione senza relazione. Questo è chiaro nel Vangelo di oggi. Ciò che è esterno può essere compreso come esterno solo se considerato in relazione all’interno. L’entrare può essere compreso come entrare dentro solo se inteso in relazione all’uscire fuori. Non vi è distinzione senza una relazione. Ogni distinzione implica e presuppone una relazione. E tutto questo viene trasmesso e comunicato attraverso le preposizioni. A può essere diverso da B, ma A non può essere compreso come distinto se non viene considerato in relazione a B, e viceversa. E questo è ciò che fa Gesù, egli delimita chiaramente il dentro e il fuori. Ma ciò che è interno non può essere compreso se non in relazione a ciò che è esterno, e l’esterno non può essere compreso se non in relazione all’interno.

Tutto questo in che modo è rilevante per l’evento che stiamo celebrando oggi? Questo in che modo è rilevante per il nostro Sinodo sulla sinodalità? Ritengo che sia molto rilevante. Credo che il nostro Sinodo sia e debba essere un Sinodo di preposizioni. Un Sinodo di preposizioni – non necessariamente un sinodo di proposizioni–, ma sicuramente un sinodo di preposizioni.

Che cosa intendo? Il Sinodo è stato spesso descritto – da teologi, persone di Chiesa, dai media – in termini di preposizioni. E questa è la cosa giusta da fare. La domanda, piuttosto, è: abbiamo inteso correttamente le preposizioni? Infatti, quante volte questo Sinodo è stato dipinto come una battaglia dei conservatori contro i liberali? Quante volte è stato letto come una contrapposizione tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud? In altre parole, quante volte questo Sinodo è stato letto ponendo una eccessiva enfasi sul fattore distintivo delle preposizioni? Quante volte le preposizioni sono state usate esclusivamente come indicatori di distinzioni e separazioni?

All’interno di una relazione

Esiste, tuttavia, un modo speculare e altrettanto problematico di leggere il Sinodo. Quante volte abbiamo sentito dire che questo è un Sinodo che dovrebbe eliminare tutte le distinzioni? Quante volte abbiamo sentito dire che questo Sinodo dovrebbe essere aperto al cambiamento e che dovrebbe attenuare la distinzione tra ciò che è all’interno della tradizione cattolica e ciò che ne è fuori? Mentre il primo approccio accentua le preposizioni, il secondo approccio elimina le preposizioni. Il primo vuole enfatizzare le distinzioni, il secondo vuole eliminare le distinzioni e pertanto non utilizza preposizioni. Un Sinodo senza preposizioni è un Sinodo senza distinzioni. È un Sinodo in cui va bene tutto. 

Entrambe le interpretazioni dimenticano una cosa importante che ho menzionato prima a proposito delle preposizioni. Le preposizioni non indicano semplicemente una distinzione, ma una distinzione all’interno di una relazione. Qualcosa è diverso solo in quanto diverso da un altro. La distinzione segnalata attraverso una preposizione non può essere compresa senza la relazione sottintesa nella preposizione.

Penso che qualcosa di simile dovrebbe accadere nel Sinodo. Il Sinodo non è fatto per distruggere le distinzioni, per distruggere l’identità cattolica. Non è fatto per spazzare via le distinzioni. Piuttosto, è fatto per sostenere le distinzioni, per comprendere il Vangelo e ciò che rende la Chiesa cattolica veramente una, santa, cattolica e apostolica. Ma, come per le preposizioni, questi tratti distintivi della Chiesa possono essere compresi a fondo solo se considerati in relazione a ciò da cui sono distinti. L’unità della Chiesa può essere compresa solo in relazione alla diversità. La sua santità solo in relazione a ciò che è corrotto. La sua universalità in relazione a ciò che è particolare. E questa non è mai una relazione statica, bensì dinamica.

Le preposizioni non vanno dette una volta per tutte. Le preposizioni devono essere proferite ogni giorno. Ogni giorno dobbiamo chiederci cosa ci distingue come Chiesa cattolica. Ma dobbiamo anche chiederci: in che modo ciò che ci rende distinti implica che siamo anche in relazione? Infatti, secondo le parole di Rowan Williams, «il linguaggio crea un mondo, e pertanto comporta una perenne perdita e riscoperta di ciò che s’incontra. La connessione del linguaggio con quanto non è linguaggio è un modello mutevole di correlazione, non una relazione di causa ed effetto come, ad esempio, un indice».

È in questo modo che intendo e che guardo, con speranza, al Sinodo sulla sinodalità. Che il nostro sforzo non diventi un esercizio di distinzione esclusiva tra chi è dentro e chi è fuori. In altre parole, una distinzione senza relazione che alla fine porta a nessuna distinzione. Tuttavia, che il nostro sforzo non diventi neanche una relazione senza distinzione che alla fine porta a nessuna relazione. Possa il nostro Dio, che è totalmente diverso ma totalmente in comunione, guidare la sua Chiesa a diventare distinta, ma in relazione.

≅ Mario card. Grech,

segretario generale del Sinodo dei vescovi

Raccomandazioni conclusive

Al termine di quattro giorni di ascolto e di dialogo a partire dalle risonanze suscitate dal Documento di lavoro per la tappa continentale in seno alle Chiese da cui proveniamo, come Assemblea continentale europea ci rendiamo conto di aver vissuto un’esperienza profondamente spirituale attraverso il metodo sinodale.

È questo il frutto per cui rendiamo grazie allo Spirito che ci ha guidati e che vogliamo qui condividere. Abbiamo approfondito le intuizioni che le comunità ecclesiali del nostro continente hanno maturato grazie al processo sinodale, così come le tensioni e gli interrogativi che le Chiese europee si trovano di fronte.

Soprattutto ancora una volta abbiamo sentito il dolore delle ferite che segnano la nostra storia recente, a partire da quelle che la Chiesa ha inflitto attraverso gli abusi perpetrati da alcune persone nello svolgimento del loro ministero o incarico ecclesiale, per finire con quelle provocate dalla violenza mostruosa della guerra d’aggressione che insanguina l’Ucraina e dal terremoto che ha devastato Turchia e Siria.

Questo lavoro, che è stato ricco e appassionante, anche se non privo di problemi e difficoltà, ci ha permesso di guardare negli occhi la Chiesa che è in Europa, con tutti i tesori delle due grandi tradizioni latina e orientale che la compongono. Con una consapevolezza accresciutasi durante lo svolgimento dell’Assemblea, sentiamo oggi di poter affermare che la nostra Chiesa è bella, portatrice di una varietà che è anche la nostra ricchezza. Sentiamo di amarla ancora più profondamente, nonostante le ferite che ha inferto, per le quali ha bisogno di chiedere perdono per poter passare davvero alla riconciliazione, alla guarigione della memoria e all’accoglienza delle persone ferite. Siamo convinti che questi sentimenti riempiano il cuore anche di tutte le persone che a partire dal settembre 2021 si sono lasciate coinvolgere dal cammino del Sinodo 2021-2024. 

Lungo i giorni di svolgimento dell’Assemblea abbiamo vissuto un’esperienza spirituale che ci ha condotto a sperimentare, per la prima volta, che è possibile incontrarci, ascoltarci e dialogare a partire dalle nostre differenze e al di là dei tanti ostacoli, muri e barriere che la nostra storia ci mette sul cammino. Abbiamo bisogno di amare la varietà all’interno della nostra Chiesa e sostenerci nella stima reciproca, forti della fede nel Signore e della potenza del suo Spirito. 

Per questo desideriamo continuare a camminare in uno stile sinodale: più che una metodologia, lo consideriamo uno stile di vita della nostra Chiesa, di discernimento comunitario e di discernimento dei segni dei tempi. Concretamente desideriamo che questa Assemblea continentale non resti un’esperienza isolata, ma diventi un appuntamento periodico, fondato sull’adozione generalizzata del metodo sinodale che permei tutte le nostre strutture e procedure a tutti i livelli. In questo stile sarà possibile affrontare i temi su cui i nostri sforzi hanno bisogno di maturare e intensificarsi: l’accompagnamento delle persone ferite, il protagonismo dei giovani e delle donne, l’apertura ad apprendere dalle persone emarginate... 

Lo stile sinodale consente anche di affrontare le tensioni in una prospettiva missionaria, senza rimanere paralizzati dalla paura, ma traendone l’energia per proseguire lungo il cammino. Due in particolare sono emerse nei nostri lavori. La prima spinge a fare unità nella diversità, sfuggendo alla tentazione dell’uniformità. La seconda lega la disponibilità all’accoglienza come testimonianza dell’amore incondizionato del Padre per i suoi figli con il coraggio di annunciare la verità del Vangelo nella sua integralità: è Dio a promettere «Amore e verità s’incontreranno» (Sal 85,11).

Sappiamo che tutto questo è possibile perché lo abbiamo sperimentato durante questa Assemblea, ma ancor di più perché lo testimonia la vita delle Chiese da cui proveniamo. Pensiamo qui in particolare al dialogo ecumenico e interreligioso, la cui eco è risuonata con forza nei nostri lavori. Ma soprattutto crediamo che è possibile perché c’è di mezzo la grazia: costruire una Chiesa sempre più sinodale, infatti, è un modo per dare concretezza all’uguaglianza in dignità di tutti i membri della Chiesa, fondata nel battesimo che ci configura come figli di Dio e membri del corpo di Cristo, corresponsabili dell’unica missione di evangelizzazione affidata dal Signore alla sua Chiesa.

Siamo fiduciosi che il prosieguo del Sinodo 2021-2024 ci possa sostenere e accompagnare, in particolare affrontando a livello di Assemblea sinodale alcune priorità:

– approfondire la pratica, teologia ed ermeneutica della sinodalità. Abbiamo da riscoprire qualcosa che è antico e appartiene alla natura della Chiesa, ed è sempre nuovo. Questo è un compito per noi. Stiamo facendo i primi passi di un cammino che si apre via via che lo percorriamo;

– affrontare il significato di una Chiesa tutta ministeriale, come orizzonte in cui inserire la riflessione su carismi e ministeri (ordinati e non ordinati) e sulle relazioni tra di essi;

– esplorare forme per un esercizio sinodale dell’autorità, ovvero del servizio di accompagnamento della comunità e di custodia dell’unità;

– chiarire i criteri di discernimento per il processo sinodale e a che livello, da quello locale a quello universale, vanno prese le decisioni;

– prendere concrete e coraggiose decisioni sul ruolo delle donne all’interno della Chiesa e su un loro maggiore coinvolgimento a tutti i livelli, anche nei processi decisionali (decision making e decision taking);

– considerare le tensioni intorno alla liturgia, in modo da ricomprendere sinodalmente l’eucaristia come fonte della comunione;

– curare la formazione alla sinodalità di tutto il popolo di Dio, con particolare riguardo al discernimento dei segni dei tempi in vista dello svolgimento della comune missione;

– rinnovare il senso vivo della missione, superando la frattura tra fede e cultura per tornare a portare il Vangelo nel sentire del popolo, trovando un linguaggio capace di articolare tradizione e aggiornamento, ma soprattutto camminando insieme alle persone invece di parlare di loro o a loro. Lo Spirito ci chiede di ascoltare il grido dei poveri e della terra nella nostra Europa, e in particolare il grido disperato delle vittime della guerra che chiedono una pace giusta.

Amare la Chiesa, la ricchezza della sua diversità, non è una forma di sentimentalismo fine a se stesso. La Chiesa è bella perché così la vuole il Signore, in vista del compito che le ha affidato: annunciare il Vangelo e invitare tutte le donne e tutti gli uomini a entrare nella dinamica di comunione, partecipazione e missione che costituisce la sua ragion d’essere, animata dalla perenne vitalità dello Spirito. Amare la nostra Chiesa europea significa allora rinnovare il nostro impegno per portare avanti questa missione, anche nel nostro continente, in una cultura segnata dalle tante differenze che conosciamo.

Affidiamo la continuazione della nostra assemblea sinodale ai santi patroni e martiri d’Europa! Adsumus Sancte Spiritus!

 

Tipo Documento
Tema Chiese locali Pastorale - Liturgia - Catechesi Sinodo dei vescovi
Area EUROPA
Nazioni