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La parola e il tempo: Paterson

Nel film Paterson, tradurre la vita in versi significa sovvertire e riabilitare allo stesso tempo il quotidiano, da cui la poesia prende forma. «L’ispirazione è nelle cose».

 

Il critico letterario statunitense Peter Brooks scriveva che le nostre vite sono incessantemente intrecciate alle narrazioni. «Noi viviamo immersi nelle narrazioni, ripensando e soppesando il senso delle nostre azioni passate, anticipando i risultati di quelle progettate per il futuro, e collocandoci nel punto d’intersezione di varie vicende non ancora completate».[1]

La narrativa – continua Brooks – «è un sistema di comprensione a cui ricorriamo nei nostri negoziati con il reale, e in particolare con i problemi della temporalità: i condizionamenti che l’uomo subisce da parte del tempo, la sua coscienza di esistere solo entro i limiti precisi fissati della morte».[2]

Si tratta di un approccio molto antico, che trova le sue radici nei miti, scaturiti, secondo Mircea Eliade, dal desiderio e dalla speranza di «liberarsi dal peso del “tempo morto”, dal tempo che schiaccia e uccide».[3]

Questo desiderio di accedere ad altri ritmi temporali, al posto di quello in cui si è costretti a vivere e lavorare, ha trovato il suo luogo forte soprattutto nella letteratura, secondo Eliade, nella quale, più che in ogni altra forma d’arte, è possibile ravvisare una vera e propria rivolta contro il tempo storico.[4] Un tentativo di sovvertire il tempo, anche se in maniera fittizia, che significa sostanzialmente cercare di mettersi in salvo da tutto ciò che il tempo rappresenta: l’irreversibilità della propria fine.

Ma l’uomo non teme solo la fine del proprio tempo ma anche l’oblio che lo può accompagnare: tutti vogliamo evitare di vivere un tempo vuoto, senza significato.

C’è un film che ultimamente ha riflettuto sul rapporto tra parola e tempo in modo nuovo e delicato, riuscendo a essere allo stesso tempo profondo e incisivo: Paterson. Scritto e diretto da Jim Jarmusch, uno dei più importanti cineasti del panorama indipendente statunitense, Paterson sta riscuotendo un grande successo da parte sia del pubblico sia della critica anche in Italia, pur essendo al di fuori del circuito mainstream. La pellicola è uscita nelle sale italiane alla fine di dicembre e ha ottenuto, tra i diversi riconoscimenti internazionali, anche una candidatura come miglior film straniero al David di Donatello 2017.

Il film narra le vicende di Paterson (Adam Driver), autista di autobus nell’omonima cittadina del New Jersey, e della moglie Laura (Golshifteh Farahani). Paterson e Laura conducono una vita ordinaria, fatta di poche emozioni e dei soliti riti quotidiani. Ogni giorno, durante il lavoro e il giro serale con il cane Marvin, Paterson osserva e ascolta le persone che lo circondano, per poter esercitare la sua vera e unica passione: la poesia.

Laura invece è una giovane artista che passa tutto il suo tempo in casa, decorando stoffe e oggetti e tentando d’imparare a suonare la chitarra per diventare una cantante country. La vita della coppia è monotona e nessun evento interviene a interromperne la routine. Per Paterson e Laura il tempo si ripete sempre uguale senza che ci sia, almeno in apparenza, via d’uscita dalla ripetitività senza novità del quotidiano.

Tuttavia Paterson sembra aver trovato nella poesia un modo per uscire dalla tirannia del tempo ciclico: «Fin da bambini crediamo che ci siano tre dimensioni: la larghezza, l’altezza e la profondità, ma ce ne è una quarta: il tempo».

La poesia, ancor più che il racconto, possiede uno speciale rapporto con il tempo. Essa è tempo in modo essenziale, e tuttavia sembra trascendere la consueta relazione tra inizio e fine di un arco temporale per aprirsi verso una dimensione nuova, trascendente del tempo stesso, in cui le cose della vita acquistano una nuova luce.

A ben guardare il nuovo film di Jarmusch riprende e sviluppa, sotto una differente prospettiva, i temi già da lui affrontanti nell’affascinante pellicola precedente, Solo gli amanti sopravvivono (2013). Quest’ultima narrava le vicende di Adam e Eve, una coppia di vampiri che vive tra Detroit e Tangeri. Se in Paterson il tempo è quello ciclico e sempre uguale, in Solo gli amanti sopravvivono, attraverso la figura del vampiro, Jarmusch ci presentava invece il tempo lineare e infinito che scorre inesorabile senza alcuna possibilità di essere arrestato, accumulando sulla coppia protagonista le rovine delle culture e delle ere da loro attraversate nella loro condizione di non morti.

Non è un caso che il maestro di Adam ed Eve sia Christopher Marlowe (anche lui è un vampiro nel film), poeta e drammaturgo inglese noto per il suo Dottor Faust, dramma pubblicato nel 1604. Nel mito di Faust infatti il tempo, e in particolare la possibilità di prolungare la propria vita, è l’elemento centrale.

Paterson abbandona i toni gotici e notturni del suo predecessore e ci presenta sempre una coppia, una sorta di Adamo e Eva, non al centro del paradiso, ma in un mondo in cui il quotidiano può diventare un girone infernale, in cui si è condannati a ripetere senza sosta i medesimi e vuoti gesti.

In questo senso la poesia per Paterson agisce come un kairos, un momento significativo, un’opportunità in cui fa breccia un tempo nuovo, o almeno la possibilità di un rinnovamento al quale è finalmente possibile l’accesso. Ma la poesia in Paterson non è semplice evasione: per il protagonista è un vero e proprio strumento di trascendenza, o meglio la possibilità di umanizzare le cose per poterne mettere a nudo l’anima.

Tradurre la vita in versi per Jarmusch significa sovvertire e riabilitare allo stesso tempo il quotidiano, da cui la poesia prende forma. «L’ispirazione è nelle cose».

 

[1]     P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Einaudi, Torino 1995, 3.

[2]     Ivi, VII.

[3]     M. Eliade, Mito e realtà, Borla, Roma 2007, 227.

[4]     Ivi, 226.

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