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Attualità
Attualità, 12/2020, 15/06/2020, pag. 381

Vivere tra i litigi

Verità, giustizia e miseria umana

Piero Stefani

Nella Sura della Vacca, la seconda del Corano, vi è un passaggio nel quale Dio comunica agli angeli la sua volontà di creare gli esseri umani e di affidare loro il compito di essere suoi luogotenenti sulla terra. Le creature angeliche restarono perplesse, prevedevano cosa ne sarebbe derivato: «Quando il tuo Signore disse agli angeli: “Io metterò sulla terra un mio vicario [khalifa]”, risposero: “Metterai sulla terra chi vi porterà la corruzione e spargerà sangue, mentre noi innalziamo la tua lode e glorifichiamo la tua santità?”. Rispose: “Io so ciò che voi non sapete”» (Corano 2,30).1

Perché Dio, che ha creato il mondo eccelso delle realtà invisibili, abbia voluto chiamare all’esistenza anche una realtà segnata dalla negatività come l’essere umano è, per tutti noi che non sappiamo, un problema declinabile solo in termini narrativi. Si tratta di una via, e in ciò non vi è nulla di sorprendente, percorsa anche dal Midrash giudaico. In questo caso, però, il racconto ebraico ha l’avvedutezza di essere meno radicale del passo coranico; la questione non è soltanto quella drammatica dello spargimento di sangue e della corruzione, c’è anche da mettere in conto una meno estrema propensione alle liti (o quanto meno ai malumori reciproci).

Si racconta che quando il Santo, benedetto egli sia, si accinse a creare l’uomo, gli angeli del servizio si divisero in due schiere; alcuni, in nome della misericordia, affermavano: si crei; altri, in nome della pace, sostenevano che era meglio che l’essere umano non fosse creato perché il mondo sarebbe stato pieno di litigi. Tra i sostenitori di quest’ultima tesi ci fu anche la verità (‘emet). Allora Dio che fece? Prese la verità e la gettò a terra.

Dissero gli angeli del servizio: «“Ma tu disprezzi il tuo sigillo”. Si rialzi la verità dalla terra come è detto: “Germogli la verità dalla terra” (Sal 85,12)».2 La scena immaginifica sembra voler comunicare tanto la tenace volontà divina di creare l’essere umano quanto la consapevolezza che ciò avrebbe comportato un prezzo da pagare di non lieve entità. Resta l’apertura, paradossale, legata alla verità che si riafferma attraverso la sua umiliazione terrestre.

Sta di fatto che, per definizione, è difficile smentire la verità: la terra è davvero piena di liti. La propensione ai litigi e ai dissapori è un dato antropologico che pare insuperabile in qualsiasi contesto. Anche quando un gruppo si mette insieme mosso dai più alti e condivisi ideali e da intenzioni nobili e sincere, a poco a poco la lima dell’incomprensione, del rancore, dell’ambizione personale, dell’invidia nei confronti dell’altro, della rivendicazione della propria ragione e della corrispondente stigmatizzazione del torto altrui comincia a compiere la sua opera sottilmente demolitrice. In effetti, a volte avvengono anche traumi repentini: il tessuto compatto, allora, si lacera di colpo.

In molte altre occasioni, però, il processo di logoramento è lento. Non c’è lo strappo sui pantaloni provocato da un oggetto appuntito bensì l’usura provocata dall’essersi seduti tante volte, giorno dopo giorno, sulla stessa sedia impagliata. La stoffa è diventata lisa e ben presto sarà bucata. Il tessuto strappato è rammendabile, resteranno i segni ma la tenuta è salva; la stoffa logorata non c’è invece modo di riaggiustarla, al più diverrà uno straccio.

È spesso così anche nella vita: a volte è dato ricomporre forti traumi (i quali lasceranno comunque il segno), mentre c’è ben poco da fare quando colui o colei con cui si è a lungo convissuti ci appare, con il trascorrere del tempo, un estraneo circondato da un alone di rancore.

Una chiave di lettura narrativa

Non è una grande scoperta constatare che tante volte gli scrittori sono guide più affidabili degli psicologi. Storia di una vita di Aharon Appelfeld (Giuntina, Firenze 2001) è un libro pieno di pagine memorabili; tra esse vi sono pure quelle che descrivono le dinamiche interne al circolo «La nuova vita» fondato nel 1950 dai superstiti della Shoah originari della Galazia e della Bucovina. Gli occhi dei soci avevano visto l’inenarrabile. Tuttavia si era chiamati a ricominciare a vivere dopo l’abisso.

Sopraggiunse il tempo normale e la lima si mise all’opera. Già nel 1953 giunse il momento del rinnovo delle cariche sociali. Cosa avvenne? «Le persone cercavano un pizzico di potere, qualche onore e, come succede in ogni organizzazione, a volte si dimenticava lo scopo per il quale era stata fondata (...) l’uno accusava l’altro e ci furono destituzioni e dimissioni, come se si trattasse di un normale circolo sociale e non di un circolo di sopravvissuti» (169).

Il circolo attuava commemorazioni, pubblicava libri, organizzava simposi, convocava sopravvissuti da regioni lontane, favoriva il mantenimento della cultura yiddish. Giunto il tempo di rinnovare le cariche, due ricchi commercianti si sfidarono con tutti i mezzi leciti e persino con la corruzione: «Invano la gente protestava: “È indecente, ricordatevi da dove veniamo e quale comportamento siamo tenuti a rispettare”. Gli istinti sono sempre più forti dei valori e delle fedi. Questa semplice verità non è facile da accettare» (171).

Le grandi catastrofi, a detta di Appelfeld, non mutano le persone; cupidigia, imbrogli, sotterfugi, astuzie non scompaiono, anzi a volte, per quanto sia vergognoso ammetterlo, addirittura s’intensificano.

È così, ma non solo così. Vi sono anche altri generi di persone. Si tratta di gente comune che non ama le discussioni, non cerca onori, non pretende nulla per sé. Queste persone «sedevano ai tavoli e i loro occhi irradiavano un semplice amore per l’umanità. Trascorrevano ore in vari ospedali e ospizi, ma trovavano il tempo di venire al circolo e portare candele in memoria dei defunti o il rinfresco per una festa. Una grande catastrofe generalmente distrugge ogni innocenza e onestà, ma loro non ne erano stati colpiti, anzi la Shoah aveva aggiunto luce alla luce che già possedevano» (169).

Vizi o debolezze?

La storia delle comunità dei credenti in Gesù Cristo è, fin dalle sue origini, piena di litigi. In questo vi è ben poco che la distingua da altre tradizioni religiose. Nelle Chiese i contrasti, le divisioni, gli attriti, gli scismi non sono stati meno numerosi che altrove. Non sarebbe difficile redigere un’antologia di passi neotestamentari accomunati dalla presenza di numerosi litigi e di meno frequenti riconciliazioni. Forse non sarebbe sforzo inutile.

I Vangeli, gli Atti degli apostoli, le lettere e i primi capitoli dell’Apocalisse forniscono al riguardo un copioso materiale. La scelta di mostrare sia la «miseria dei credenti» sia gli esempi nobili rafforzerebbe la consapevolezza di quanto sia grande, anche all’interno della Chiesa, il peso dell’«uomo vecchio».

I biblisti amano definire il diciottesimo capitolo di Matteo «discorso ecclesiale». Non è qualifica impropria. In esso vi è la grandezza di una presenza invisibile che accompagna due o tre riuniti nel nome di Gesù (cf. Mt 18,19-20); tuttavia molto più spazio è dedicato a descrivere o i tentativi, non sempre riusciti, di «correzione fraterna» (Mt 18,15-18) o il comportamento di chi, avendo beneficiato del condono di un enorme debito, esige spietatamente la riscossione del suo piccolo credito (cf. Mt 18,23-35).

Le comunità delle origini, i concili, il papato medievale, gli ordini religiosi, le diocesi, le parrocchie, i conventi, i monasteri sia di antica fondazione sia eretti nello spirito conciliare, le associazioni laicali si sono rivelati terreni in cui i litigi sono cresciuti prosperosi al pari della zizzania della parabola evangelica.

Spesso in questi ambienti, mentre quasi sempre si continua a litigare, si sente allora evocare il grande dolore che affligge i cuori, la bellezza della riconciliazione, il dono della misericordia, la necessità di una preghiera fervorosa e l’invocazione dello Spirito. È il lessico interno.

In altri contesti ci si appella alla fedeltà agli ideali originari, al servizio da svolgere nei confronti dei cittadini o di altri nobili cause. In realtà, in qualunque ambito ci si trovi, il richiamo alla nostra miseria antropologica è dotato di un grado di verità spesso maggiore di quanto non sia l’appello a nobili principi. Non bisogna volare troppo in alto; la verità, ci ricorda il Midrash, giace in terra. I veri amici fedeli, scrive saggiamente Appelfeld, sono coloro «che sanno che l’uomo non è altro che un ammasso di debolezze e di paure, e che non è il caso di aggiungerne altre. Se hanno una parola giusta la porgono come un pezzo di pane in tempo di guerra, e se non ce l’hanno ti siedono accanto e tacciono» (144).

 

1 Trad. it. di I. Zilio-Grandi.

2 Berešit Rabbah 8,4 (per la verità come sigillo, cf. 81,2), «Commento alla Genesi», 73.

Tipo Parole delle religioni
Tema Islam Teologia
Area
Nazioni

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