«Non ce l’ha fatta»
Attaccamento alla vita terrena
Da un certo numero di anni circola un’espressione in precedenza poco immaginabile. Per annunciare il decesso di un malato grave o di una vittima di un incidente, si ricorre alla perifrasi «non ce l’ha fatta». Essa corona, con rammarico, quanto era stato comunicato nei giorni precedenti, dicendo «sta lottando...».
Molti hanno prospettato il periodo pandemico in cui siamo immersi come un ammonimento; occorre lasciar cadere l’illusione di ritenersi perennemente sani all’interno di un mondo malato (per ripetere le parole di papa Francesco).
Ci domandiamo: l’invito riguarda anche l’abbandono di un linguaggio legato alla prestazione, esteso fino all’atto di congedarsi da questa vita? Nel mondo lavorativo, là dove domina la logica dell’investimento, è richiesto di fare. Ci sono obiettivi da raggiungere. Si programma e si esige dai collaboratori e dai dipendenti di essere all’altezza di quanto loro richiesto. Si apre in tal modo l’alternativa tra l’orgogliosa soddisfazione di essere riusciti a conseguire quanto prefissato e la frustrazione di non avercela fatta. La dinamica competitiva produce inevitabili scarti.
Questa forma mentis sembra essersi trasferita persino in un ambito, per definizione, estraneo a ogni produttività. Di fronte alla morte, se non ora certo in un imprecisato domani, l’esito ultimo sarà comunque quello di «non farcela».
La diffusione di espressioni come «sta lottando» o «non ce l’ha fatta» è inversamente proporzionale alla quasi totale scomparsa del termine «agonia». La parola «coma», che ha la radice di «sonno» (greco koma), è di uso corrente (compresa l’accezione farmacologica); di «agonia», in greco «lotta», si sente invece parlare sempre meno. L’espressione indica il periodo che precede immediatamente la morte, contraddistinto dall’affievolimento delle funzioni vitali; vale a dire che essa si riferisce a una lotta inevitabilmente contraddistinta da un «non farcela».
Colto sotto questa angolatura, il destino umano è perdente. Il ricorso al termine «lotta», per indicare un’inevitabile sconfitta, un tempo era spesso impiegato pensando a un «oltre».
Una preghiera cattolica, in passato assai popolare, terminava con queste parole: «Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi nell’ultima agonia. Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l’anima mia. Amen». Resta incerto circoscrivere la consapevolezza antropologica e teologica presente in una formula nella quale la rima baciata ricopre una funzione trainante. Rimane comunque il fatto che il verbo «spirare» è qui riferito all’anima, cioè alla realtà che, lungi dallo sperimentare la morte, si credeva fermamente avviata a trovare un riposo eterno in Dio.
Il riferimento all’«agonia» che chiude la preghiera rivolta alla «santa Famiglia» corrisponde alle parole finali dell’Ave Maria: «Adesso e nell’ora della nostra morte». Le due più diffuse preghiere cattoliche, il Padre nostro (che è ovviamente comune a tutti i cristiani) e l’Ave Maria, terminano rispettivamente con la parola «male»1 e con «morte». Hic Rhodus hic salta: un salto che nessun vivente è in grado di compiere con le sue sole forze. Soltanto grazie alla fede si crede che il «non farcela» si capovolga nella porta d’ingresso della vita.
L’Ave Maria
Tutti coloro che recitano coralmente il Rosario sanno che l’Ave Maria è divisa in due parti. La prima è ispirata alla Scrittura, la seconda alla tradizione e alla devozione. Le frasi iniziali derivano dal Vangelo di Luca. Sono rispettivamente le parole rivolte a Maria dall’angelo Gabriele: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,28) e quelle pronunciate da Elisabetta in occasione della visitazione: «Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno» (Lc 1,42). L’una e l’altra sono frasi rivolte a Maria di Nazaret.
Nel testo evangelico, esse non costituiscono una preghiera diretta a Maria: sono saluti nel senso più alto e pregnante del termine. A renderle preghiera è unicamente la loro integrazione nel contesto dell’Ave Maria. È avvenuta una specie di trasmigrazione che ha trasformato il saluto in orazione.
Ogni giorno, nella liturgia cattolica vespertina, si recita il Magnificat; il cantico costituisce una preghiera di Maria e non già una preghiera a Maria. Perciò nella recita del Vespro tutti i versetti sono ripetuti integralmente nella loro esatta formulazione neotestamentaria (cf. Lc 1,46-55). Qui non è avvenuto alcun trapianto.
Come scrisse Lutero nel suo commento al Magnificat: «Ella non vuole che tu venga a lei, ma per mezzo di lei a Dio».2 Queste ultime parole, invero, potrebbero essere impiegate convenientemente anche per l’Ave Maria, la quale però, a differenza del Magnificat, è una preghiera rivolta alla madre di Gesù.
La popolare forma vespertina della Liturgia delle ore era costituita dai rintocchi dell’Ave Maria (versione corrente del termine più completo Angelus). Allora i tempi della preghiera erano tre, da recitarsi prima dell’alba (pratica ormai scomparsa), a mezzogiorno (ora legata, quasi esclusivamente, al rito domenicale in piazza San Pietro) e alla sera. Quest’ultima è, non di rado, ancora percepibile nell’aria, mentre è meno recepita come invito alla preghiera.
L’antropologia culturale ci ricorda invece che, in passato, i rintocchi dell’Ave Maria erano vissuti, specie nelle campagne, come una forma di devota scansione temporale (si pensi al celeberrimo quadro di Millet).
La seconda parte della preghiera mariana per eccellenza, completata nel XV secolo, è, dal canto suo, espressione della tradizione ecclesiale: «Santa Maria madre di Dio» si radica nella definizione di Theotokos risalente al concilio di Efeso; mentre «prega per noi peccatori adesso e nell’ora della nostra morte» è tratto dalla sfera della devotio.
Colta in questa luce, la preghiera, nella varietà delle sue fonti, è straordinariamente «cattolica». Essa fonde in sé un substrato biblico, l’apporto di uno dei grandi concili accolti da tutte le Chiese cristiane storiche e una richiesta d’intercessione derivata dalla pietà cristiana.
Quando si percepivano i vespertini rintocchi dell’Ave Maria, a prevalere negli animi erano, probabilmente, le frasi più direttamente collegabili alla sera della vita. Si pregava Maria per ottenere una preghiera di Maria a favore di peccatori che dovevano misurarsi non solo con la morte ma anche con il giudizio.
Si pregava perché Maria pregasse «per noi». Più che per avere un congedo dalla vita il più possibile sereno, si pregava in quanto ci si riconosceva peccatori bisognosi di misericordia. Rispetto alla «santità» si ammetteva «adesso e nell’ora della nostra morte» di «non farcela», in tal modo ci si collocava perciò dalla parte del pubblicano della parabola evangelica (cf. Lc 18,9-14). Si pregava perché l’agonia, lotta perdente di persone peccatrici, si trasformasse in porta stretta aperta verso la salvezza eterna.
È abbastanza
«La morte, quando arriva, può essere anche dolce, / per le persone cariche di anni, / la cui mano non è più ferma, / i cui occhi sono stanchi, / la cui voce può dire ormai soltanto: / La vita è stata bella, / però ora è abbastanza».
Si tratta di un necrologio contemporaneo. Gerhard Lohfink, dopo averlo citato nel suo libro, Alla fine il nulla?, vi fa seguire alcuni passi tratti dal Canto della morte del poeta barocco Herzog Anton Ulrich von Braunschweig. ll testo è contraddistinto dal ritornello «è abbastanza» ripetuto sette volte. È l’abbastanza della stanchezza? A suo tempo Max Weber avrebbe detto che all’inizio del XX secolo gli anziani non morivano più biblicamente «vecchi e sazi di giorni» (cf. Gen 25,8; 35,29; Gb 42,17), ma semplicemente stanchi. Tuttavia alla fine del suo componimento l’«è abbastanza» è declinato in tutt’altro modo: «Così ora prendi, Signore, l’anima mia, / che depongo nelle tue mani e alla tua cura. / Scrivila nel libro della vita. / È abbastanza! Che io mi distenda e dorma».3
Non c’è più alcun «ne ho abbastanza», c’è soltanto il dispiegarsi dell’«è abbastanza» proprio della misericordia salvifica di Dio. Un congedo o un passaggio? Hic Rhodus hic salta. Siamo al cuore di quello che è dato sperare ma su cui è vano argomentare.4 Il Simbolo niceno-costantinopolitano snoda le sue proposizioni introducendole tutte con il verbo «credere» (Dio Padre, Figlio, Spirito Santo, Chiesa); quando giunge alla risurrezione dei morti e alla vita del mondo che verrà, il verbo però cambia repentinamente: ora si dice «aspetto». L’unico modo per credere nella vita eterna è aspettarla e l’attesa, lo si sa, la si vive, senza che sia concesso tematizzarla.
1 Nel mondo della Riforma la sua recita si chiude però con una dossologia.
2 Martin Lutero, «Il Magnificat tradotto in tedesco e commentato», in Scritti religiosi a cura di V. Vinay, UTET, Torino 1967, 465ss.
3 G. Lohfink, Alla fine il nulla? Sulla risurrezione e sulla vita eterna, Queriniana, Brescia 2020, 57s (di prossima recensione nelle pagine della rivista).
4 È coerente che molti scritti al riguardo comunichino l’impressione di non riuscire, consapevolmente, a stringere davvero il discorso. Cf. per esempio P. Ricca, Dell’aldilà e dall’aldilà. Cosa accade quando si muore?, Claudiana, Torino 2018 (cf. Regno-att. 2,2019,32).