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Attualità
Attualità, 10/2021, 15/05/2021, pag. 337

La fede in uscita

Congedarsi dalla propria terra

Piero Stefani

Per il Corano, Abramo in principio fu idolatra (cf. 6,78-79; Regno-att 8,2021,269s). E per la Bibbia? La Scrittura è un Libro di libri (e non solo il Libro dei libri). La risposta dipende, quindi, da quale fonte scegliamo. Se si legge il libro di Giosuè ci sono, al riguardo, prospettive sulle quali conviene sostare.

Il popolo era già entrato nella terra di Canaan; deserto e Giordano erano alle spalle. Le mura di Gerico erano ormai crollate, i re sconfitti, il paese conquistato e diviso fra le tribù d’Israele. Giosuè sta per portare a termine la sua missione e, con essa, la propria vita. Colui che Mosè investì come successore convoca a Sichem una grande assemblea. Lì, davanti a tutto il popolo, Giosuè prende la parola e dichiara: «Dice il Signore, Dio d’Israele, i vostri padri, come Terach padre di Abramo e padre di Nacor, abitavano nei tempi antichi oltre il fiume e servirono altri dèi. Io presi il padre vostro Abramo da oltre il fiume e gli feci percorrere tutta la terra di Canaan, moltiplicai la sua discendenza…» (Gs 24,2s).

Segue il racconto di altre vicende fino a giungere alla schiavitù dell’Egitto, all’esodo e all’entrata in Canaan. Giosuè conclude il proprio dire ponendo agli ascoltatori una secca alternativa: «Se è cosa cattiva ai vostri occhi servire il Signore, scegliete chi volete servire: se gli dèi che i vostri padri servirono oltre il fiume, oppure gli dèi degli amorrei, nella terra dei quali abitate. Quanto a me e alla mia casa voglio servire il Signore» (Gs 24,15). Questi versetti affermano che Abramo nacque in una casa idolatrica. Si dichiara perciò implicitamente che pure lui dovette acquisire la fede nel Dio unico.

Il pericolo atavico e sempre ricorrente dell’idolatria si ripropone anche nella terra di Canaan. In un tempo remoto «oltre il fiume», l’Eufrate, gli antenati adorarono divinità straniere; oggi gli ebrei, al di qua di un altro fiume, il Giordano, vivono in mezzo a un popolo che presta culto ad altri dèi dotati di voce forte e attraente. Occorre scegliere. Il popolo non ebbe esitazioni e disse: «Guai a noi se abbandoniamo il Signore». Così facendo esso dichiarò la propria fedeltà al Dio dell’esodo (Gs 24,16-19).

La risposta all’idolatria è sempre una: essere tirati fuori dalle proprie origini. La vita viene alla luce quando si esce dal ventre materno in cui mai più si ritornerà; la fede nasce con Abramo chiamato ad allontanarsi dal proprio luogo natale e il popolo d’Israele si costituisce come tale allorché è tirato fuori dalla terra d’Egitto. Per rispondere all’«incestuoso» culto idolatrico della madre terra proprio dei popoli cananei, Israele ha una sola arma: la memoria dell’esodo che si spinge indietro fino a raggiungere Abramo, il protagonista della prima fra tutte le uscite.

La chiamata di Abramo è scandita da una successione di parole che, sulle prime, paiono non ben disposte: «Vattene dalla tua terra, dal tuo luogo natale, dalla casa di tuo padre verso la terra che ti indicherò» (Gen 12,1). L’ordine delle uscite, per certi versi, sembra capovolto. Se pigliassimo il riferimento spaziale, dovremmo per forza di cose concludere che prima si lascia la casa, poi la località di residenza e infine il paese.

Tuttavia, se si guarda l’intensità dei legami, la successione è di perfetta coerenza: abbandonare la propria famiglia di origine costa di più che rompere con la tribù o con la terra. L’aspetto spaziale in Abramo ha senso perché l’oggetto della promessa coinvolge sia una discendenza sia una terra. Si può essere però chiamati a uscire anche restando là dove si è.

Abramo rifiuta l’idolatria

Il libro della Genesi non afferma nulla di esplicito rispetto all’idolatria di Terach. Sostiene piuttosto che il padre di Abramo si era già mosso da Ur per andare verso la terra di Canaan; tuttavia a metà percorso si era fermato a Carran e là era tornato a essere stanziale. L’uscita s’interruppe a metà e gli idoli ebbero la loro rivincita. Con le proprie sole forze, «per la contradizion che nol consente», non è dato uscire da sé stessi.

Il primo libro della Bibbia è cauto rispetto all’idolatria degli antenati, dal canto loro i commenti giudaici divengono invece molto espliciti: Terach non era solo un idolatra, era addirittura un fabbricante di idoli. Tuttavia, proprio a partire da questa attività, il discorso si rovesciò. In quel lavoro risulta infatti palese l’intrinseca debolezza dell’idolo. La fragilità è rivelata dal suo essere fatto da mani d’uomo.

Si legge nel Bereshit Rabbah (il grande Midrash omiletico alla Genesi) che un giorno Terach impose al figlio Abramo di vendere idoli al suo posto. Venne un uomo per comprare una statuetta. Abramo chiese al cliente quale fosse la sua età. Egli rispose che aveva sessant’anni. Al che l’acquirente udì questa replica: guai all’uomo che, raggiunta quell’età, vuole inchinarsi all’idolo che è venuto all’esistenza da un solo giorno. L’uomo si vergognò di se stesso e se ne andò.

Giunse una donna con l’intenzione di compiere un’offerta di farina. Abramo prese un bastone e ruppe tutti gli idoli tranne il più grande; dopo di che pose il randello in mano all’unico rimasto intatto. Tornò il padre e vide il disastro. Ne chiese la ragione. Il figlio disse che era insorta una lite per via della farina che tutti gli idoli volevano mangiare per primi. Allora il maggiore impose la legge del più forte. Terach gli disse, senza mezzi termini, che si stava prendendo gioco di lui.

L’episodio assume in seguito un tono più drammatico. Il padre afferrò infatti Abramo e lo consegnò a Nimrod (nella tradizione giudaica, prototipo del ribelle contro Dio, cf. Gen 10,8-12); quest’ultimo propose al futuro patriarca di prestare culto successivamente al fuoco, all’acqua, alla nuvola, al vento; Abramo aveva infatti via via contrapposto al primo elemento il successivo che sconfigge il precedente: l’acqua spegne il fuoco, il vento spazza via le nubi.

Alla fine il figlio di Terach disse: «Prestiamo culto all’uomo che sopporta il vento». Nimrod gli replicò: «Tu dici cose vane e io presterò culto solo al fuoco» e lo gettò in una fornace dicendo: «Starò a vedere se il Dio a cui ti affidi ti verrà a salvare» (un lettore cristiano, oltre ai tre fanciulli del libro di Daniele – Dn 3,8-50 – pensa inevitabilmente anche alla scena della crocifissione – Mt 27,40-44). Come era prevedibile, il racconto dichiara però che Abramo uscì indenne dal fuoco.

L’asciuttezza della narrazione biblica non dice nulla sull’originaria fede di Abramo: tutto iniziò con la chiamata. L’espansione proposta dal Midrash rende fin dal principio invece il figlio di Terach campione della lotta contro l’idolatria. È lui stesso a rompere con la propria origine. Così facendo egli non diviene tanto padre della fede, quanto modello di una lotta condotta in maniera autonoma contro gli idoli.

Se si ipotizza che Abramo partisse da un’originaria condizione di idolatra, egli se ne sarebbe perciò tirato fuori con le sue sole forze. L’eredità di questa visione avrebbe trovato ospitalità soprattutto nell’islam; di contro, nelle tradizioni bibliche, la svolta autentica avvenne soltanto a motivo di una chiamata.

La rottura dei legami precedenti

Il Corano riprende quasi alla lettera l’episodio degli idoli, della farina e del bastone. Dichiara pure che Abramo fu gettato in mezzo alle fiamme, ma Allah dispose che il fuoco fosse «fresco e dolce» (Corano 21,51-71).1 Si costituisce così un antagonismo frontale tra Abramo e suo padre, qui chiamato Azar. Qualche passo coranico afferma che il figlio cercò d’intercedere presso Dio a favore del genitore idolatra impenitente. Tuttavia altri versetti condannano il tentativo.

In essi si sostiene che quando Abramo comprese che il padre era nemico di Allah non sentì più alcuna responsabilità nei suoi confronti. La conclusione è che per i musulmani è precluso intercedere a favore di un genitore miscredente. La figura di Abramo è quindi evocata per una questione che rappresentava un nervo scoperto per gli arabi contemporanei a Muhammad, specie tra i primi convertiti, probabilmente propensi a intercedere per i propri genitori pagani.2

Nel Vangelo, quando in seno al popolo ebraico non esistevano più contesti scopertamente idolatrici, non si pone alcun problema analogo; in essi però risulta più che mai netta la separazione tra la chiamata alla fede e alla sequela e i legami costituitisi in ragione della nascita. Quando sua madre e i suoi fratelli lo mandarono a chiamare, Gesù, girando lo sguardo sulla folla, rispose a chi gli annunciava quella venuta: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,34s).

Ogni chiamata implica una rottura di legami. Quando lo si nega si dà sempre corso a processi regressivi. Nei tempi antichi gli antenati degli ebrei, al di là del fiume, servivano altri dèi, ma ora è lo stesso popolo d’Israele a ricevere da Dio il precetto: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). Dal Sinai in poi, il comandamento è rivolto a chi già aderisce al Dio unico. L’idolatria è una tentazione del credente. Soltanto lui infatti conosce il rischio di trasformare in idolo la propria fede. «La fede in uscita» è detto più radicale di quello che propone una Chiesa in uscita.

 

1 L’episodio viene ripreso anche altrove nel Corano: 6,74; 19,41-50; 26,69-104; 37, 83-98; 43,26-28; 60,4.

2 Cf. R. Tottoli, I profeti biblici nella tradizione islamica, Paideia, Brescia 1999, 45.

Tipo Parole delle religioni
Tema Teologia Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

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