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Attualità
Attualità, 4/2021, 15/02/2021, pag. 85

Stati Uniti - Il dopo Trump: prevarrà la democrazia?

Le ambiguità di una terminologia rivoluzionaria

James Miller

Trump non è stato un’aberrazione: ha solo rinverdito l’aspra e incivile guerra interna alla nazione degli Stati Uniti per stabilire se una netta maggioranza del suo popolo vuole o meno costruire una repubblica di uguali. La sfida che Biden ha di fronte è quella di affermare questo «ideale americano» contro la prospettiva opposta che Trump ha lasciato dietro di sé.

 

Trump non è stato un’aberrazione: ha solo rinverdito l’aspra e incivile guerra interna alla nazione degli Stati Uniti per stabilire se una netta maggioranza del suo popolo vuole o meno costruire una repubblica di uguali. La sfida che Biden ha di fronte è quella di affermare questo «ideale americano» contro la prospettiva opposta che Trump ha lasciato dietro di sé.

Nel suo discorso inaugurale del 20 gennaio 2021 Joe Biden, il 46° presidente degli Stati Uniti, ha dichiarato che «la democrazia ha prevalso» perché «la volontà del popolo è stata ascoltata, e si è tenuto conto della volontà del popolo».

Ma Biden ha anche ammesso, con giusta ragione, che «la democrazia è fragile».

Alla fin fine, anche quattro anni fa l’America ha regolarmente tenuto conto della «volontà del popolo». In base alle regole stabilite dalla Costituzione per calcolare quale sia «il popolo» in queste elezioni quadriennali e facendo in modo che il meccanismo del Collegio elettorale desse ai voti delle zone rurali più peso che a quelli delle zone urbane, Donald J. Trump ha legalmente incarnato la volontà del popolo americano per quattro intensi anni.

Forte del potere così ricevuto, Trump, una volta insediatosi, ha cominciato a infrangere le leggi, a dire falsità, a violare le norme e a sfidare chiunque cercasse di fermarlo.

Ricordo che, a quell’epoca, mi domandai se un presidente democratico avrebbe potuto avere la tentazione di maneggiare con uguale leggerezza il proprio potere esecutivo, ma per motivi differenti, quali l’impossibilità di portare avanti un programma radicalmente egualitario e antirazzista con il semplice ricorso alla legislazione. Dopo tutto, i poteri, già impressionanti, del presidente americano si sono accresciuti senza sosta nel corso del Novecento, grazie all’espansione dell’amministrazione statale e al controllo presidenziale sull’arsenale nucleare del paese.

La scorsa settimana mi sono ritrovato a riflettere su un’ipotesi simile ma in un contesto radicalmente diverso: i tumulti verificatisi al Campidoglio il 6 gennaio 2021. Tale evento mostra che attualmente, in America, si può immaginare una nuova ondata di violenza politica, esercitata sulla base dell’urgente richiesta di un presidente.

I critici di destra accusano sia Antifa sia i democratici che sostengono il movimento Black Lives Matter di tollerare la violenza politica, anche se gli scontri di piazza e i saccheggi sono stati relativamente rari nel corso delle proteste a livello nazionale, per lo più pacifiche, seguite alla morte di George Floyd, il 25 maggio 2020. Invece ora abbiamo visto un presidente che, con il fattivo sostegno di molti parlamentari repubblicani, ha deliberatamente creato le premesse per una rivolta popolare, inventandosi e ripetendo falsità a proposito di elezioni rubate. Queste falsità hanno spinto all’attacco del Congresso gruppi di manifestanti arrabbiati e di militanti ben armati.

Rivoluzione: armata, democratica

Ci sono ancora molte cose che non sappiamo a proposito di quanto è accaduto di preciso dopo che Donald Trump ha mobilitato i suoi elettori contro il Campidoglio per «fermare il furto». Ma alcune cose le sappiamo, dopo che l’ex capo della FBI e repubblicano di ferro, William Webster, ce le ha riassunte. Sappiamo che «un presidente degli Stati Uniti in carica, spalleggiato da numerosi membri del Congresso, con gli strumenti dell’inganno e dell’insinuazione», ha scelto d’«incitare alla violenza». Sappiamo che le parole del presidente hanno portato diverse persone a morire nel tentativo di contrastare «la volontà del popolo americano di scegliersi i propri capi».

In altre parole, sappiamo che Trump e i suoi sostenitori più militanti, dentro e fuori dal Congresso, hanno preparato con cura e successivamente tentato un rovesciamento rivoluzionario del governo costituzionale americano (cf. The New York Times, 16.1.2021, https://nyti.ms/3jrTjFr).

Un certo numero di simpatizzanti di sinistra di mia conoscenza in ambito accademico, come pure alcuni democratici e attivisti di vari movimenti, hanno speso la parola «rivoluzione» con una certa facilità negli ultimi anni.

Ma che cosa intendiamo con questo termine?

Naturalmente, do per scontato che quando ha partecipato alla corsa per la presidenza nel 2016 e nel 2020 Bernie Sanders abbia usato questa parola metaforicamente, per descrivere in che modo la sua visione democratica e sociale di un’America più giusta sarebbe stata una novità sul piano storico. Confido che Sanders avrebbe usato solo gli strumenti fissati dalla Costituzione per conseguire tale obiettivo politico.

Ma gli eventi del 6 gennaio non suggeriscono forse che una rivoluzione armata – quale molti di noi, attivi nella nuova sinistra degli anni Sessanta, a quel tempo stupidamente vagheggiavamo – ora è di fatto pensabile, nel contesto dei partiti e delle tendenze politiche dell’America di oggi?

Sappiamo che al presidente uscente piaceva inviare messaggi contrastanti, che erano abbastanza ambigui da consentire di essere smentiti. Ma il 6 gennaio Trump e i suoi sostenitori in pratica hanno preso alla lettera tanto quanto sul serio l’idea di un’insurrezione, di una rivoluzione armata.

Non solo: è evidente che Trump e i suoi seguaci sono andati piuttosto vicini a riuscirci, e tutto nel nome della «democrazia».

Per intenderci: la maggior parte degli attivisti che ho sentito parlare in televisione durante i tumulti del 6 gennaio sembravano credere sinceramente che stavano solo schierando le loro forze unite per salvare la democrazia americana. Credevano davvero che il Congresso fosse sul punto di ratificare un’elezione truccata. Non c’è dubbio che la loro convinzione si basasse sulla profonda fiducia, se non sulla fede, nelle affermazioni della suprema autorità laica del paese, il solo esponente del governo che possa proclamare che questa elezione rappresenta la volontà di tutto il popolo americano: il presidente degli Stati Uniti.

Dal loro punto di vista essi erano, e sono, dei patrioti, non dei traditori.

Attualmente ritengo che ci siano tre questioni da considerare a valle di questo incredibile episodio.

La prima, la più importante: dove ci collochiamo, a sinistra, rispetto alle nostre tradizioni rivoluzionarie? I tumulti del Campidoglio hanno mostrato con forza che una rivoluzione nel nome degli ideali democratici radicali rimane una possibilità politica sorprendentemente plausibile. Non è solo oziosa retorica, in particolare se il tuo leader è un presidente che rivendica poteri sovrani virtualmente illimitati nel nome del popolo.

Una Costituzione anti-maggioranza

Gli eventi di gennaio ci ricordano anche che la democrazia moderna, in effetti, non è nata in America ma nell’Illuminismo francese, sulla base di una spinta profondamente radicale, che con la forza delle armi ha affermato che ogni potere politico legittimo appartiene per diritto al popolo sovrano.

All’epoca della Convenzione di Filadelfia che espresse la nostra Costituzione pochi americani condividevano questa visione, in parte timorosi delle rivolte popolari armate che mettevano in discussione il governo delle élite. I padri fondatori costituirono una repubblica federale attraverso una Costituzione mista che prevedeva una Camera dei rappresentanti come espressione e filtro delle opinioni popolari, ma anche elementi aristocratici, assegnando speciali poteri ai cittadini proprietari di beni facendoli membri di un Senato, e poteri addizionali straordinari al suo governo federale, a una Corte Suprema e a un Collegio elettorale.

Per come venne strutturata, la Costituzione degli Stati Uniti era anti-maggioritaria: era una repubblica, non una democrazia, ed era rivolta a contenere le passioni politiche dei cittadini comuni.

Ma non tutti gli americani furono soddisfatti di questa divisione costituzionale dei poteri. Quasi subito, in parte per l’influsso della Rivoluzione francese, alcuni americani sentirono il bisogno di dare vita a club politici (che a quel tempo erano illegali) che lottassero per dare più potere ai cittadini comuni. Questo movimento di base diede origine a un partito nazionale basato sui valori democratici, che cercò di mobilitare gli elettori bianchi di sesso maschile di tutte le classi sociali perché partecipassero più direttamente alla vita politica.

Da quando Thomas Jefferson fu eletto terzo presidente, essendosi presentato come democratico-repubblicano, i principi fondamentali del regime costituzionale americano sono stati sostanzialmente trasformati: in particolare negli anni Trenta dell’Ottocento, da parte dell’aggressivo suprematismo bianco e del populismo anti-elitario del presidente Andrew Jackson e dei suoi seguaci, e nei successivi anni Sessanta, quando gli americani combatterono una guerra civile essendo divisi sull’abolizione o meno della schiavitù e sull’estensione o meno della cittadinanza agli americani neri.

Il nostro è un paese nato da un’insurrezione anticoloniale; reso più democratico in base a successivi movimenti di base, talvolta razzisti come quello sostenuto dai democratici di Andrew Jackson, e risorto in questi giorni durante i tumulti del Campidoglio; nato di nuovo durante la guerra civile; e rinato ancora una volta nel corso della spesso efferata lotta per i diritti civili dei neri negli anni Sessanta del Novecento.

Che piaccia o no, la possibilità della violenza rivoluzionaria fa parte del DNA politico di questa nazione.

La seconda questione è che la posta in gioco degli eventi del 6 gennaio 2021 è esattamente il significato della moderna democrazia americana.

È stato un attacco al nostro attuale ordine costituzionale, ma non è stato un attacco alla democrazia in quanto tale, come viene devotamente affermato. All’opposto, è stato dichiaratamente un tentativo di proteggere una certa visione della democrazia in America, di «rendere di nuovo grande l’America». Il tutto è accaduto sotto la guida di un sedicente Cesare americano, di un comandante in capo che si stava comportando come un consapevole tribuno per le sue plebi, per la maggior parte bianchi arrabbiati desiderosi di far fallire il nostro permanente esperimento di creazione di una democrazia multirazziale.

La retorica idealista non è solo di sinistra

È necessario che progressisti, liberali e socialisti ricordino che noi non abbiamo il monopolio della retorica del moderno idealismo democratico. Il 6 gennaio un gruppo significativo di nostri concittadini americani ha assediato quello che percepivano come una fortezza lontana, il governo federale. Alcuni, a quanto sembra, erano pronti a prendere in ostaggio, o addirittura a uccidere, coloro che consideravano i loro nemici politici, compreso il vicepresidente Mike Pence e gli altri capi del Partito repubblicano che non erano disposti ad annullare la sostanziale vittoria di Joe Biden nel Collegio elettorale.

Sebbene tra gli insorti fossero presenti dei ferventi suprematisti bianchi e dei neonazisti, in maggioranza essi ritenevano di agire per conto del loro presidente. Hanno attaccato funzionari e istituzioni che, secondo loro, avevano usurpato il potere delle persone comuni, la cui legittima sovranità il loro presidente stava cercando di ripristinare.

Ma se Trump e i suoi sostenitori fossero riusciti a ribaltare l’elezione di Joe Biden, ci sarebbe stata una sinistra americana unita che rispondesse in modo simile, e con simili ragioni? Naturalmente nessuno può prevedere quando è che le circostanze straordinarie di una guerra civile giustificano misure straordinarie. Gli studiosi discutono tuttora se Abraham Lincoln violò la Costituzione quando sospese l’habeas corpus e intraprese determinate iniziative durante la Guerra civile senza l’approvazione parlamentare.

Dobbiamo ancora capire quali limiti, se ce ne sono, coloro che si dichiarano democratici, tanto a destra quanto a sinistra, sono in linea di principio disposti a osservare nel futuro.

La terza questione è che anche se Trump venisse prontamente incriminato dal Senato per aver suscitato un’insurrezione contro il governo, gli eventi del 6 gennaio, avvenuti in coda alla sua presidenza senza legge e senza verità, hanno stabilito un precedente. Di sicuro Biden, nel momento in cui dichiara che «la democrazia ha prevalso», non inquadra realmente la questione di che cosa significhi «democrazia» in America.

In un regime costituzionale quale è quello che Biden rappresenta, tutto alla fin fine si basa sull’opinione pubblica, e su come i nostri leader comprendono e cercano di tenere conto della «volontà del popolo». Tutti abbiamo appena visto con quale facilità un presidente può manipolare una considerevole parte della popolazione con la propaganda e l’uso continuo della menzogna.

Di conseguenza, i precedenti che Trump ha stabilito rappresentano per i suoi successori una tentazione permanente e una sfida morale, quale che sia la visione della democrazia americana che essi sostengono.

La maggioranza vuole la democrazia?

Ma c’è un altro esperimento, forse ancora più inverosimile da concepire (sebbene mi stia vagamente rifacendo a una strategia di cambiamento radicale che nel corso degli anni Sessanta la sinistra prese in seria considerazione, cf. The Nation, 8.3.2010, https://bit.ly/36T1e9M).

Se la sinistra americana fosse capace di far sedere nello Studio ovale un vero e proprio campione del cambiamento sociale radicale; se essa fosse nello stesso tempo capace di mandare a protestare nelle piazze i suoi militanti (alcuni magari armati, come le Black Panters e Kwame Ture – alias Stokely Carmichael – sostennero alla fine degli anni Sessanta, ottenendo il permesso della Corte suprema); e se la sinistra fosse capace di conquistarsi il sostegno di una massa critica di legislatori federali per contrastare seriamente le disuguaglianze e il razzismo strutturale che al momento fanno sì che la democrazia multirazziale in America sia più una fantasia che una realtà… se tutte queste condizioni si realizzassero, vi sarebbe una maggioranza di americani che si mobiliterebbe per dare corso a un nuovo inizio, impegnandosi sul serio in una nuova rivoluzione americana?

In tal caso, la sinistra americana riuscirebbe a compiere una meticolosa azione – del tipo di quella che la destra americana ha compiuto negli ultimi trent’anni – a favore di un cambiamento sociale di portata epocale, segnata da dimostrazioni e rivolte potenzialmente violente, mentre i soggetti ai vertici delle istituzioni mettono alla prova i limiti della Costituzione secondo quelle modalità che il quadriennio di Trump ha reso familiari, fino al suo tentativo di colpo di stato?

O forse, al contrario, i progressisti, i liberali e i democratici radicali della sinistra egualitaria in sostanza riaffermerebbero esplicitamente, come credo che dovrebbero fare se si trovassero in una congiuntura così critica, il loro impegno prioritario per lo stato di diritto, la realizzazione di politiche basate sui fatti e il dissenso non violento, come ha promesso Joe Biden il 20 gennaio?

Ma in tal caso non dovremmo forse smettere di usare la parola «rivoluzione» per descrivere le nostre aspirazioni politiche?

Sulla scia dei precedenti messi in campo dalla presidenza di Donald J. Trump, il 6 gennaio 2021si è materializzato sul Campidoglio un nuovo mondo di inquietanti possibilità po-
litiche.

Di conseguenza, dobbiamo pensare con temperanza, andando avanti, a come rispondere alla domanda che i più appassionati amici americani della democrazia moderna, sia della destra liberale, sia del centro liberale, sia della sinistra socialista, si sono posti sin dai tempi della Rivoluzione francese: che fare?

 

James Miller *

 

 

*  James Miller è docente di Politics and Liberal Studies, direttore di facoltà del corso di laurea in Creative Publishing and Critical Journalism presso la New School for Social Research di New York. L’articolo è apparso in Public Seminary, 21.1.2021, https://bit.ly/3aFVD7E e in Eurozine, https://bit.ly/3q2lxcj. Ringraziamo l’autore per la gentile concessione. Nostra traduzione dall’inglese.

Tipo Articolo
Tema Politica Vita internazionale
Area AMERICA DEL NORD
Nazioni