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Attualità
Attualità, 6/2021, 15/03/2021, pag. 143

Francesco - Viaggio in Iraq: a riflettori spenti

La gioia della festa, le questioni che rimangono

Laura Silvia Battaglia

Una giornata in cui questa sonnacchiosa cittadina agricola di provincia è diventata il centro della cristianità mondiale, con migliaia di persone e di famiglie riverse nelle strade in processione, le teste fluttuanti sotto un mare di candele e di icone, la banda del paese ad aprire il corteo, giovani suore e preti ululanti «Viva il papa», su pick up trasformati in juke box da migliaia di decibel.

Amira Faris si dà una rassettata ai capelli, prima di mettersi in posa per il selfie. Le compagne le si radunano intorno a corolla, e allungano i colli da cigno per entrare nel frame dello scatto. Di foto, ne fanno almeno una decina perché oggi non si lesina su nulla. Questa è la parata più importante di tutta la storia della cittadina di Qaraqosh, nel giorno in cui papa Francesco arriva in Iraq, e bisogna sfoggiare i migliori abiti della festa.

Ai piedi Amira ha le scarpe col tacco, argentate; sulla bocca il rossetto carminio delle grandi occasioni; in una mano il telefono, nell’altra la bandiera irachena e un ramoscello d’olivo. «Siamo venuti tutti qui, siamo gli studenti dell’Università di al-Hamdanya. L’università è nata un anno fa ma sta andando benissimo». Basma Basim Saour è la direttrice del dipartimento linguistico e sfoggia il suo inglese: «Non potevamo mancare oggi, in una giornata simile. You are welcome, benvenuti!». Una giornata in cui questa sonnacchiosa cittadina agricola di provincia è diventata il centro della cristianità mondiale, con migliaia di persone e di famiglie riverse nelle strade in processione, le teste fluttuanti sotto un mare di candele e di icone, la banda del paese ad aprire il corteo, giovani suore e preti ululanti «Viva il papa», su pick up trasformati in juke box da migliaia di decibel.

Questa esplosione di gioia è frutto di anni di buio: vista con il senno del poi è una storia che arriva a compimento, ma appena sette anni fa, quando la furia delle milizie dello Stato islamico si è abbattuta su questa comunità, sarebbe apparso impossibile. Nel marzo del 2014 100.000 cristiani caldei e assiri si trovarono costretti a scegliere tra una vita di sottomissione e l’abbandono permanente delle loro case e dei loro beni.

Una visita impensabile

Sally, una giovane donna che ha vissuto da sfollata a Erbil fino al 2019 e che fa parte della comunità dei ritornati a Qaraqosh – circa 23.000 persone – ricorda che la violenza delle milizie non si esprimeva in termini di aut aut concilianti. Davanti alla nuova casa che ha affittato nella periferia della cittadina dove vive da vedova con la sua bambina, ricorda l’esatto momento in cui tutto, per i cristiani della piana di Ninive, è cambiato: «I miliziani giravano casa per casa con i loro pick up. Avevamo fatto appena in tempo con mio marito a caricare la macchina che ci hanno fermato. Mi hanno detto: o l’oro e la casa, o la bambina. Hanno dipinto una N (significa nazareno, ndr) sulla porta di casa nostra e ci hanno lasciato andare, ma non senza prenderci tutto quello che avevamo».

Il marito di Sally non si è più ripreso da quella violenza e un anno dopo è morto di infarto. Anche se la ferita è aperta, Sally ha vestito a festa la sua bambina e la porta in processione come una piccola Madonna Assunta, nel suo abito tradizionale nei toni del blu, del rosso, dell’oro.

Mentre il cielo si colora di arancio nel tramonto, un gruppo di ragazzi della parrocchia dei Santi Benham e Sara si prepara ad andare sul palco vestito di magliette rosse, sulle note delle ultime hit dei Gen Rosso. Padre George Jakola, deus ex machina della ricostruzione della cittadina, ancora non crede ai suoi occhi e alle sue orecchie, mentre le maestranze mettono a posto gli ultimi striscioni davanti alla Chiesa dell’Immacolata che le milizie avevano trasformato in poligono da tiro per le giovani reclute del terrorismo.

«Se qualcuno nel 2016 – quando siamo rientrati nella cittadina distrutta –  mi avesse detto che dopo qualche anno qui sarebbe arrivato il papa, non ci avrei creduto. Adesso mi devo ricredere: i miracoli esistono». E l’arrivo di Francesco suona e appare come un miracolo quando il papa entra nella Chiesa dell’Immacolata e i fedeli abbarbicati ovunque, sui muretti, sui pali, sui tetti, si ammutoliscono improvvisamente di fronte al grande schermo approntato sul tetto di fronte al convento delle domenicane.

Il silenzio è assoluto quando papa Francesco ricorda, per l’ennesima volta, le sofferenze di questa comunità ma anche la necessità del perdono. George Rasin, il fotografo cittadino, per l’occasione si è portato dietro la macchina fotografica più nuova che ha acquistato a Erbil, durante i due anni in cui ha vissuto da sfollato nel quartiere di Ankawa e si guarda intorno con sorpresa e felicità: «Sono il fotografo più anziano in città, ho documentato tutto. Proprio per questo per chi è testimone della storia, dimenticare è impossibile. Ma perdonare, come ci insegna questo papa, ecco ci si può arrivare. E lui ci dà una grande spinta in questo senso».

George si fa interprete dei sentimenti più comuni ai cristiani della piana di Ninive, e anche alle domande, alle perplessità e alle richieste di sicurezza verso il governo da parte delle minoranze del Nord del paese (caldei, assiri, yazidi ma anche turkmeni, shabak, sabei) in altre aree. Di fatto è una materia politica, in piena discussione in uno stato che basa la sua nuova costituzione del 2006 e l’organizzazione del suo stesso parlamento su un sistema settario.

Proprio per questo, e per proteggere le minoranze, c’è chi ha avanzato la proposta di allocare i cittadini iracheni con queste caratteristiche nella piana di Ninive. La proposta è molto appoggiata da alcune figure politiche di rappresentanza dei cristiani assiri in parlamento.

Ma il cardinale caldeo Louis Sako non ci sta e ce lo dice chiaro e tondo, mentre fa il punto con il suo staff nella sede del patriarcato caldeo a Baghdad, dopo l’arrivo di papa Francesco: «La proposta di creare la piana di Ninive delle minoranze è un falso storico: noi cristiani abbiamo tutto il diritto sia di non essere cittadini di serie B che di vivere dove abbiamo sempre vissuto. Siamo cresciuti in mezzo a tutti gli altri iracheni e siamo preesistenti ai musulmani, così come lo erano gli ebrei. Ghettizzarsi o auto-ghettizzarsi è anacronistico e pericoloso. Se poi invece parliamo di un Iraq federale, allora è cosa diversa».

Dietro a un francobollo

Il punto politico sotteso a questa visita eccezionale risiede, infatti, proprio nelle rivendicazioni di identità e autonomia in questo paese-mosaico di etnie, religioni e istanze diverse. Ha fatto discutere l’emissione, da parte del governo semi-autonomo del Nord Iraq, del francobollo celebrativo della visita di Bergoglio a Erbil, che lo ritrae di profilo su un Kurdistan stilizzato che supera i confini iracheni per inglobare pure quelli siriani, iraniani e curdi: le reazioni, soprattutto da parte di Turchia e Iran – che hanno peraltro forti interessi nella regione – sono state vibranti.

Ma la provocazione del governo del Kurdistan iracheno è un messaggio soprattutto domestico all’annosa questione dell’autonomia locale tanto desiderata da Baghdad. Qui, la visita di papa Francesco è stata percepita positivamente dai cittadini di ogni ordine e grado ma è diventata l’ennesima occasione per dimostrare la corruzione delle dirigenze.

Al centro delle polemiche e delle accuse dei partiti di opposizione c’è infatti l’acquisto di 50 auto blindate che hanno fornito la sicurezza al papa, al suo staff e al seguito dei giornalisti ma le cui bolle di acquisto – per un totale di 102 milioni di dollari – sono state gonfiate dal personale del primo ministro. Bashir al-Chemi, imprenditore e leader degli attivisti che dal 2019 occupano piazza Tahrir a Baghdad per protestare contro le dirigenze, lo dice chiaro: «Questo papa qui è il benvenuto ed è stato molto bravo a lanciare un messaggio di pace, anche incontrando un leader spirituale come al-Sistani che è cosa assai diversa dall’incontrare i leader politici. Ma questa visita, se ha avuto finalmente il pregio di attirare l’attenzione internazionale sull’Iraq al di là e al di fuori di guerre e terrorismo, non risolve i nostri problemi domestici. E i nostri problemi domestici sono il malgoverno, la corruzione, la mancanza di trasparenza delle istituzioni, l’ingerenza dei paesi vicini nei nostri affari interni e lo strapotere delle milizie di ogni colore che s’interpongono tra i cittadini e lo stato e sono spesso appoggiate da membri dei partiti».

Al-Chemi la chiama «mafia irachena» ma nelle sue parole non c’è esagerazione: in questi giorni il paese è scosso dal brutale omicidio del poeta Hattab Jaseb, padre dell’avvocato e attivista per i diritti umani Alli Jaseb, già rapito dalle milizie nell’ottobre del 2019 e scomparso nel nulla.

Hattab non si era mai rassegnato a quel rapimento e aveva puntato il dito contro la milizia sciita Ansarullah al-Awfyyia che controlla la provincia di Maysan a Sud di Baghdad e silenzia chiunque contesti la sua autorità e le sue connessioni con l’Iran. La morte di Hattab ha scatenato la rabbia popolare con proteste congiunte di migliaia di persone nelle città del Sud, da Maysan a Karbala, da Bassora ad al-Diwaniyah.

Proteste che chiedono al governo di farsi sentire, di combattere le milizie anche a Sud, d’impedire abusi di potere e violazioni dei diritti umani.

Nell’arco di un paio di giorni, gli effetti positivi della visita del papa cattolico in Iraq sono passati in secondo piano.

 

Laura Silvia Battaglia

Tipo Articolo
Tema Francesco Vita internazionale Pastorale - Liturgia - Catechesi Islam
Area AFRICA - MEDIO ORIENTE
Nazioni

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