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Attualità
Attualità, 4/2024, 15/02/2024, pag. 110

La firma. Una famiglia veneta fra due secoli

Mariapia Veladiano

È un romanzo in cui si casca come in un pozzo. Non ci si può fermare. E non a causa delle (moltissime) cose che accadono, ma perché ci si trova con una vivacità e una limpidezza straordinarie dentro agli avvenimenti formidabili che hanno determinato la storia italiana del Novecento.

È un romanzo in cui si casca come in un pozzo. Non ci si può fermare. E non a causa delle (moltissime) cose che accadono, ma perché ci si trova con una vivacità e una limpidezza straordinarie dentro agli avvenimenti formidabili che hanno determinato la storia italiana del Novecento. E anche perché di pagina in pagina aumenta lo sgomento assoluto per la storia che si ripete, oggi.

Pietro Galletto (classe 1929) ha raccontato nel romanzo La firma (Borla, Roma 1984) la storia della famiglia Ferraro, di Sandrigo, un paese del vicentino. Una vera saga che si distende fra il 4 ottobre 1880 e il 6 aprile 1935. Francesco (Cesco) Ferraro è nipote del notaio Francesco Ferraro, uomo retto, si sarebbe detto allora, non un «originale» in senso manzoniano, cioè non rivoluzionario e nemmeno innovativo, ma profondamente onesto, che sul giovane riversa tutta la sua saggezza, non potendolo fare sull’unico figlio Bortolo, viziato e senza qualità.

Cesco Ferraro corrisponde in pieno alle speranze del nonno. Proprietario terriero moderatamente ricco, sposa Isa Barca, l’accorta figlia di un commerciante di Dueville, un paese limitrofo, e l’assoluta onesta bontà e limpidezza dell’uno incontrano (e anche si scontrano) con l’abilità e una certa spregiudicatezza dell’altra. Sono anni in cui capita di tutto, lo sappiamo, e qui è interessante che il punto di vista del narratore è soprattutto quello di Cesco, uomo di fede, in costante ricerca del bene anche nel nuovo che avanza.

Troviamo, come dire, in scena, le idee del dibattito cattolico dell’epoca. Le ricadute dell’enciclica Rerum novarum, quelle dell’Opera dei congressi, la diffidenza verso Romolo Murri, gli opposti giudizi intorno ai fatti di Milano del 1898 e a Bava Beccaris, che Isa difende da buona borghese alla quale serve l’ordine per prosperare, e Cesco aborre.

È resa con straordinaria naturalezza e senza forzature la vivacità del confronto fra le idee progressiste e conservatrici nel mondo cattolico dei primi anni del Novecento, che avveniva attraverso la minuta penetrazione di giornali e riviste cattolici del tempo anche in queste realtà di paese tutto sommato periferiche: L’Operaio cattolico di Giacomo Rumor, Il Berico, La Riscossa «del battagliero arciprete Andrea Scotton» (82), L’Osservatore romano, L’Avvenire d’Italia. E agli occhi dell’informato Cesco Ferraro se le sconfitte coloniali di Dogali e Adua sono «punizioni divine per la politica dei governi massonici», anche le manifestazioni sociali di fine secolo derivano «dai peccati degli uomini, e, in questo caso, dalle cattiverie dei padroni» (83).

La storia famigliare e quella dell’Italia s’intrecciano senza sforzo e, attraverso le differenti posizioni politiche dei sei figli, possiamo conoscere il dibattito intorno all’interventismo e alla guerra, l’intraprendenza dei parroci e dei religiosi (i Giuseppini, i Servi di Maria), e poi, alla fine della guerra, la devastazione psicologica, sociale ed economica che i reduci, fra cui l’amato figlio, si trovano a vivere. Sullo sfondo la saggezza del nonno notaio sulle guerre: «Chi perde, perde, e chi vince, perde» (190). I Ferraro avevano accettato la guerra in realtà, ma «l’odio è per l’Austria non per il soldato dell’Austria» (203).

La firma a cui il titolo del romanzo fa riferimento è quella che Cesco Ferraro è invitato a mettere come garante del Piccolo credito vicentino, una delle numerose banche nate per iniziativa privata in risposta alla crisi dell’agricoltura di fine Ottocento, «una delle istituzioni più umanitarie lasciataci dall’Opera dei congressi» (141), secondo la definizione che ne dà don Luigi arrivato da Vicenza a perorare la causa.

Si tratta di salvare la banca da un fallimento che rovinerebbe i piccoli risparmiatori che le hanno affidato i loro soldi. È un’operazione del tutto estranea al suo mondo, ma quando si tratta di fare il bene Cesco non sa negarsi e poi «sarebbe una firma data al buon Dio», come gli ha detto il buon prete. La banca fallisce e i Ferraro sono rovinati, perché devono vendere i beni che facevano da garanzia al credito e però l’evento rinsalda i legami famigliari e nel tempo il benessere ritorna. E insieme anche i dispiaceri e i confronti infiniti sul bene, il ruolo dei cattolici in politica, la fede e il denaro, il ruolo delle donne (tutte le tre figlie studiano fino all’università), finché il fascismo dilaga e le discussioni s’accendono ancora di più.

Isa è una moglie dalla fortissima identità, è credente assai blanda e di certo la firma non l’avrebbe messa, ma non abbandona mai il marito e spesso sono i suoi colpi di ingegno (gli affari sono il suo pane) a salvare le cose, sconfessando nella pratica una delle più importanti lezioni di vita che il nonno notaio aveva impartito al nipote: «“Perché marito e moglie vadan d’accordo, cosa stimi sia di maggior importanza?”. “L’amore!”, rispose pronto Cesco. “Hai sbagliato. Metti a memoria per la vita: la salvezza di ogni vincolo umano è sempre la religione”» (23).

Molte pagine di questo sorprendente romanzo sono pura poesia della natura. Cesco ama la terra che coltiva e fa coltivare, la conosce, quando viaggia da Sandrigo a Castelfranco all’Altipiano di Asiago, a Millegrobbe sopra Luserna, oppure quando cammina sulla riva del vicino Astico, chiama alberi ed erbe per nome, riconosce la terra buona e quella che ha bisogno dell’uomo. La sua competenza, insieme al desiderio di far del bene dando in affitto terre nuove, lo porta a scelte incomprese, come quella di bonificare le torne del Bruson, un incolto senza speranza, coperto di alberi vecchi e di rovi.

E l’impresa, avviata sotto gli occhi increduli dei vecchi e dei bambini delle poche case intorno, va in porto, «quanta luce finalmente, su quella terra selvaggia!». Ed è contento Cesco, perché «prima di morire, bisogna pur vedere qualcosa di nuovo, che sia come speranza da lasciare a chi resta» (112).

Tipo Riletture
Tema Cultura e società
Area
Nazioni

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