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Attualità
Attualità, 12/2025, 15/06/2025, pag. 305

Israele - Palestina: quella pace impossibile

Gianfranco Brunelli

Inizio la conversazione con la storica Anna Foa a partire da un ricordo: una conversazione personale con il card. C.M. Martini.

 

Inizio la conversazione con la storica Anna Foa a partire da un ricordo: una conversazione personale con il card. C.M. Martini che mi diceva: «Sembra umanamente incredibile ma la pace a Gerusalemme non è possibile». Lo diceva con amarezza biblica, e mi colpì molto, come se Gerusalemme fosse il centro di tutte le speranze e di tutte le contraddizioni.

–Qual è il suo sentimento di fronte a quello che sta succedendo dentro a Israele e a Gaza?

«Le due cose sono molto collegate, ho un sentimento di partecipazione con Israele, ci sono stata anche se non a lungo, provo vicinanza e orrore per quello che considero un suicidio, un baratro in cui Israele sta cadendo. E ho un senso di orrore e disperazione per quello che sta succedendo a Gaza, sia in sé, sia perché chi lo sta compiendo sono gli ebrei israeliani. È una cosa che mi ferisce nella mia essenza di ebrea della diaspora. Capisco che è diverso per me se il male lo fanno i miei, anche se io non ho questo rapporto di maggior vicinanza agli ebrei piuttosto che ai non ebrei; anzi, spesso è il contrario, ma non ho questo rapporto di vicinanza con i corregionali che tanti ebrei affermano di avere, però mi fa molto male, perché è un mondo che conosco nel bene e nel male e che sta piombando in un degrado morale spaventoso, di cui forse non mi rendo conto fino in fondo».

–È come se Israele avesse dimenticato le proprie sofferenze…

«Non penso che le sofferenze rendano migliori o che insegnino a non causarle, come vediamo da quanto succede a chi ha subito abusi e sofferenze e spesso le ripropone. Cioè chi viene fuori da traumi e abusi non si placa, e produce altri abusi. Però possiamo dire che Israele ha dimenticato le sue radici universalistiche, umanistiche, la cultura ebraica, una grossa parte della propria storia religiosa (i profeti), anche se di “genocidi” (lo dico senza polemica) è piena la Bibbia (“uccidere tutti fino all’ultimo neonato…”). C’è questo afflato di amore verso il prossimo, di etica, e questo è stato, da parte del Governo e da molti, dimenticato. Non da tutti però.

Oggi ho letto un articolo su Haaretz, dove si riprendeva una ricerca in cui si affermava che l’85% degli israeliani è favorevole alla cacciata dei palestinesi, alla pulizia etnica. L’articolo scriveva che la ricerca era stata fatta male. Haaretz stessa se ne scusava. Ha causato molto dolore nel mondo, perché se quell’l’85% fosse vero, saremmo al capolinea di una qualsiasi possibilità di porre fine al massacro in atto o di arrivare alla pace».

–Si ha come l’impressione che il Governo Netanyahu abbia sequestrato la democrazia israeliana e che per motivi personali abbia fatto proprio il modello autocratico, purtroppo diffuso quasi ovunque, come sappiamo.

«Credo che il fatto d’aver portato al Governo esponenti religiosi estremisti e anche di matrice terroristica – pensiamo al ruolo di Ben-Gvir nell’assassinio di Rabin, e al fatto che crede di essere spinto da Dio a creare un grande Israele – sia sempre molto pericoloso, come il pensare d’essere mossi dal Signore, d’essere privilegiati, di avere un’elezione divina (concetto che bisognerebbe abolire). Ho la sensazione che i religiosi estremisti israeliani non abbiano mai amato la democrazia.

Ascoltai anni fa alla TV israeliana la dichiarazione di un rabbino importante che diceva che l’unica norma per Israele dovrebbe essere la Parola biblica e non la democrazia. Esiste una radice religiosa di tutto questo e come storica è quello che mi fa più paura, perché so che le guerre di religione sono le più sanguinose e quelle a cui è più difficile mettere fine, perché evocano moventi che toccano profondamente gli esseri umani».

Gli estremismi (contrapposti) vanno d’accordo

–Un analogo interrogativo è spesso emerso: perché si è lasciato crescere in questi anni Hamas?

«Netanyahu ha sempre pensato che un movimento d’ispirazione religiosa fosse meglio di uno con ispirazione sociale o marxista, quindi che Hamas fosse meglio rispetto all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e ad Arafat. C’è qualcosa di simile tra fondamentalisti ebraici e fondamentalisti islamici. Netanyahu ha sbagliato il calcolo e non li ha tenuti sotto controllo, li ha riforniti di armi e attenzioni; ha spostato, prima del 7 ottobre, 26 divisioni militari sul fronte della Cisgiordania, che per lui e il suo gruppo ha sempre rappresentato il vero problema.

Gaza è sempre stata considerata una prigione a cielo aperto, con qualche morto e alcune violente rappresaglie (come quella del 2014) ma tutto sommato sotto controllo. La Cisgiordania era il luogo dove doveva nascere lo Stato palestinese e invece fare parte, nella prospettiva del grande Israele, di Israele stesso. Se Netanyahu non verrà fermato, in Cisgiordania si arriverà a una situazione molto simile a quella di Gaza:  senza bombardamenti ma sicuramente con l’espulsione dei palestinesi; già 40.000 sono stati espulsi dai campi profughi».

–Qual è la sua percezione dell’opposizione politica israeliana? Che cosa queste forze politiche divise al loro interno, potrebbero fare oggi per reagire a quello che sta succedendo? La soluzione ottimale sarebbe che dall’interno della democrazia israeliana ci fosse una reazione costituzionale.

«Sarebbe la soluzione che potrebbe sanare Israele e la sua ferita. Tutto quello che avviene dall’esterno non ha lo stesso impatto. Se la società civile potesse sollevarsi contro Netanyahu, ciò porterebbe a una buona soluzione. Ho la sensazione che ci sia stato un grande rifiorire di quella opposizione, dopo mesi di depressione, assenza, sconforto, scoraggiamento. Molti dopo il 7 ottobre hanno cambiato opinione sulla propria militanza per la pace: c’è stata la paura e lo sconforto, e l’idea che dopo quella mattanza non ci sarebbe stato spazio di dialogo e apertura.

Tuttavia mi sembra che negli ultimi due mesi qualcosa sia cambiato. C’è stata una grande marcia di palestinesi ed ebrei che portavano farina e pane a Gaza; non sarebbero mai potuti entrare ma il significato simbolico di un pezzo di società civile che si mette in marcia sotto il sole per portare aiuto cancellava tutto quello che non era stato fatto, come gesto di empatia nei confronti delle sofferenze dei palestinesi. Certo non è sufficiente per i morti e per chi ha perso la casa; ma a me è sembrato un gesto riparatorio.

La divisione che esisteva prima di questi ultimi due mesi era soprattutto tra coloro che ponevano al centro delle proprie posizioni il problema della distruzione di Gaza e quelli che pensavano agli ostaggi, questione giustissima; ma c’erano anche 50.000 morti. Oggi qualcosa si sta sanando, è un buon segno ma sul lungo periodo; penso che in qualche modo il tempo sia scaduto».

Portare in guerra anche le parole

–Uno degli effetti di questa vicenda, come ha detto nel suo libro Il suicidio di Israele (cf. Regno-att. 20,2024,617), è stato causato dal fatto che Netanyahu ha portato in guerra anche le parole. A mio avviso questo significa eliminare ogni possibile narrazione, racconto, distinzione (ad esempio su «semitismo», «antisemitismo», «ebraismo», «sionismo», «Israele», «Stato di diritto»…). È come se questa azione criminale avesse non solo creato i presupposti per un odio lunghissimo e per situazioni che si potranno rimediare con difficoltà solo nel lungo periodo, ma anche una guerra delle parole, uno dei guai più grandi, lo dico con rispetto delle vittime. Mancano le parole per evocare le distinzioni, i margini, i limiti, tutto viene consumato in una semplificazione che farà tanto male quanto le bombe…

«Sono d’accordo, anche in Italia la discussione si è arenata sul valore della parola “genocidio”, bandiera sventolata da una parte e dall’altra, e anche su “antisemitismo”: Netanyahu ha reso impossibile a un’intera generazione parlare di antisemitismo, aiutando anche chi diceva che l’antisemitismo non esiste.

Sono d’accordo e questa polarizzazione sulle parole è visibile soprattutto qui da noi. Ho cercato di dare un’origine, un senso ai termini, rivolgendomi soprattutto ai ragazzi delle scuole e delle università, che sentivo parlare senza usare correttamente le parole. Chiarire il senso dei termini è molto importante. Anche altri sono andati in questa direzione. Ma di fronte alle bombe e alla morte non so come possiamo arrivare a una spiegazione sensata e ragionata».

–Bombe e violenza sono l’emergenza delle emergenze, e vengono prima delle parole, ma se non ritroviamo le parole, non metteremo fine alla morte.

«L’hanno capito ormai tante persone, e per fortuna ci sono discorsi molto razionali. Anche nell’ultima manifestazione a Roma c’è stata più attenzione al valore delle parole; e anche politici dai quali magari non me lo sarei aspettato hanno detto: “Stiamo attenti perché le parole sono bombe”. Speriamo che questa attenzione continui a emergere, nonostante la disperazione.

Perché dal punto di vista umanitario la situazione è precipitata ancora di più: interruzione degli aiuti e fame sono cose che gridano vendetta. I bambini sono lì che muoiono di fame; non basta dire che ce ne sono anche altrove; ora sono lì che muoiono di fame».

Isolare Israele o sostenere l’opposizione a Netanyahu?

–Nessuna tragedia giustifica altre tragedie. Ho presente gli anni Trenta del Novecento: se allora le parole fossero state usate nel loro significato profondo, forse si sarebbero affermate meno ideologie totalitarie e ne sarebbero venuti meno mali. Le parole sono cura della vita e della storia.

Le chiedo: a suo avviso aiuta maggiormente l’opposizione politica a Netanyahu se l’Europa cerca d’isolare Israele, anche dal punto di vista scientifico o tecnologico (come hanno fatto ad esempio le università che hanno chiuso le relazioni con quelle israeliane), o se invece si cerca di favorire la sostituzione di Netanyahu?

«Quella dell’isolamento è una questione su cui ho molto riflettuto. La sua domanda va a scavare il problema essenziale. In passato, quando ancora la situazione non era degenerata, ero contraria al boicottaggio, perché pensavo, innanzitutto, che non fosse giusto boicottare le università, che fra l’altro sono state e sono all’avanguardia nell’opposizione a Netanyahu e che quindi questo sarebbe diventato un favore fatto a Netanyahu; e poi perché questo avrebbe suscitato una sensazione d’impotenza e anche di rinvigorimento del nazionalismo: “Come? Ce l’hanno con noi? Allora siamo isolati”. Un sentimento che era esattamente quello di cui Netanyahu aveva bisogno.

Ora, almeno su alcune cose, credo bisognerebbe fare una distinzione. L’Unione Europea dovrebbe cercare di distinguere alcuni luoghi, alcuni punti in cui c’è bisogno di fare una sorta di chiusura e di boicottaggio e invece sollecitare, invitare persone dell’opposizione, allacciare rapporti con quelli che si oppongono, insomma con i dissidenti: dovrebbe fare quello che il mondo occidentale non ha fatto con i dissidenti in Unione Sovietica, perché li ha abbandonati e non li ha appoggiati – e forse anche adesso sta ripetendo lo stesso errore –.

Infatti, non si può fare di tutta l’erba un fascio, bisognerebbe distinguere e appoggiare in maniera mirata l’opposizione israeliana, mantenendo però la possibilità di fermare alcuni accordi economici, o anche culturali, quando vanno nella direzione dell’appoggio della guerra. Penso sia molto difficile da fare, ma se l’Unione Europea riuscisse a farlo, darebbe un effettivo appoggio a Israele, alla società civile israeliana, perché non le darebbe la sensazione d’isolamento e non la spingerebbe su posizioni, diciamo così, nazionaliste».

–Anch’io ritengo che l’Unione Europea dovrebbe riuscire, attraverso l’azione delle università, a distinguere fra l’isolamento politico del Governo e quello in toto di Israele. Con alcuni provvedimenti mirati dovrebbe spingere Netanyahu a una diversa condotta della guerra, e porre in atto scambi a livello culturale e scientifico con quella parte della società civile presente nelle università israeliane, che invece si trova a essere essa stessa isolata nell’isolamento di Israele: è un modo per aiutare la società civile israeliana.

«È difficile da realizzare concretamente. Ci vorrebbero persone e gruppi di lavoro dentro l’Unione Europea che siano bene al corrente di quello che succede in Israele e che sappiano fare delle distinzioni, vedano chi sono i veri dissidenti e li appoggino, in tutti i modi. Però questo non sta succedendo; ci sono ogni tanto delle voci nella stampa (l’altro ieri alla manifestazione di Roma ha parlato il ragazzo che ha rifiutato di andare a fare il servizio militare: tuttavia è troppo poco). Ha ragione a dire che occorrerebbe veramente dare enfasi all’opposizione, aumentandone il peso, perché in questo modo, l’aiutiamo a diventare più forte».

La diplomazia sta morendo, i coloni sono uno Stato a parte

–Mi pare che l’attuale presidente dello Stato d’Israele, Isaac Herzog, rispetto al primo ministro, abbia un ruolo molto consapevole. Anche se dall’Italia si ha come l’impressione che il Governo voglia limitarne le prese di posizione pubbliche.

«Sì, anche se talvolta ha anche fatto affermazioni in senso nazionalistico. Ha per esempio detto di firmare una bomba quando stava per essere lanciata… Insomma mi sembra un po’ intrappolato nella necessità di bilanciarsi. Comunque ha espresso delle posizioni dalle quali si capisce che vorrebbe distinguersi dal Governo; tuttavia mi sembra molto in difficoltà e in una posizione che conta molto poco; conta molto meno del nostro presidente Sergio Mattarella (cf. box qui a p. 308), che ha pronunciato frasi straordinariamente molto più forti di quanto sia consentito dalla diplomazia; e ultimamente si è espresso con grande efficacia. Ecco, queste parole non le abbiamo sentite da Herzog, nonostante si trovi nel bel mezzo di una guerra e in un contesto di violenza».

–Lo abbiamo visto anche in occasione della morte e dei funerali di papa Francesco: c’è stato come un ritardo cognitivo, diplomatico, forse per volere rimarcare alcune posizioni dello Stato di Israele non collimanti con quelle della Santa Sede; tuttavia, mi permetto di dire, questa è stata un’errata valutazione politica di quello che stava succedendo – anche a livello simbolico – sul piano internazionale.

«A me sembra che la diplomazia sia una delle cose che sta morendo. Anche la diplomazia è, come le parole, una delle vittime di questa situazione, non dico di guerra, perché la guerra sottintende due eserciti che si contrappongono.

L’abbiamo visto con Trump che umilia Zelensky: è come se le regole diplomatiche non contassero più niente, come se il diritto internazionale non contasse più niente; si possono arrestare persone nelle acque internazionali come se fossero nelle acque d’Israele.

Le regole diplomatiche non seguite in occasione della morte di papa Francesco si sono rivelate assolutamente vetuste di fronte a quello che succedeva: questo è il tipico modo di procedere del Governo di Netanyahu e dei fanatici messianici. Non hanno nessuna regola, né democratica né di altro genere; non hanno la minima idea di che cosa sia la diplomazia, il diritto; sono completamente fuori controllo, forse per il fatto di avere avuto per la prima volta il potere. Sono pericolosissimi».

–I coloni sono quindi un’arma potente all’interno della strategia di decostruzione del diritto e della democrazia.

«Certo, ai coloni illegali secondo il diritto internazionale, che vengono legalizzati, esaltati (ormai da anni) e mantenuti, viene anzi concessa la possibilità di aprire continuamente nuove colonie. Ma essi sono e non da oggi uno Stato dentro lo Stato. Ricordo i primi tempi in cui andavo in Israele vent’anni, trent’anni fa: in effetti, bastava guardarle, tutte circondate da filo spinato, armate e in grado di mandare via chiunque si avvicinasse. Già allora erano un piccolo Stato dentro lo Stato.

Oggi c’è un’assonanza tra questa situazione e la rottura delle regole che sta attuando Trump, quando vieta a cittadini normali di paesi estranei, di andare negli Stati Uniti: è una rottura delle regole tradizionali. La stessa cosa sta succedendo da tempo in Israele: però ormai hanno il potere nelle loro mani e tutta l’intenzione di usarlo».

 

a cura di

Gianfranco Brunelli

 

Tipo Articolo
Tema Politica Pace - Guerra Vita internazionale
Area AFRICA - MEDIO ORIENTE
Nazioni

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