R. Jebreal, Genocidio
Quello che di noi rimane nell’era neo-imperiale
La parola tabù del nostro tempo drammatico non è tanto pace, ma genocidio. Se a nessuno sfugge il significato, è ancor più vero che fino a poche settimane fa nessuno aveva l’ardire di pronunciarla nel caso di Gaza, così da violare una sorta di autocensura linguistica, di refrattarietà lucida e consapevole.
Piemme, Milano 2025, pp. 304, € 19,90.
La parola tabù del nostro tempo drammatico non è tanto pace, ma genocidio. Se a nessuno sfugge il significato, è ancor più vero che fino a poche settimane fa nessuno aveva l’ardire di pronunciarla nel caso di Gaza, così da violare una sorta di autocensura linguistica, di refrattarietà lucida e consapevole. Sia da parte dei media sia del ceto intellettuale, non si osava infrangere quel divieto sociale e religioso che tratteneva dal ricorrere a tale espressione «senza ritorno».
A Rula Jebreal va riconosciuto il merito d’averlo fatto prima dell’estate 2025, senza timori reverenziali e con impeto di veemenza, nel momento in cui Gaza si è trasformata da tragedia umana a vergogna planetaria. Così si legge nell’incipit del volume: «Scrivo affinché nessuno, in futuro, possa dire di non sapere o che non poteva sapere».
Il libro non si configura tanto come esercizio di ricostruzione giornalistica: è un vero e proprio j’accuse contro il sistema mediatico e culturale, che coinvolge gli specialisti dell’informazione, e contro la stessa opinione pubblica internazionale, che preferisce chiudere gli occhi e fare spallucce, anziché spalancare gli occhi, denunciare l’immane tragedia che Israele ha inflitto e continua a infliggere al popolo palestinese, finendo per palesare la propria complicità.
Jebreal sferra un pugno nello stomaco ai lettori, uno di quelli che ti risveglia.
Genocidio non è soltanto un titolo forte: è un appello a un soprassalto d’umanità tra le macerie, un atto di denuncia che ha il coraggio di chiamare le cose col loro nome, anche quando il mondo sembra rifiutarsi di farlo.
Riprendendo un imprinting personale – «Dopo una vita trascorsa a interrogarmi (…) ho trovato la risposta tra le macerie nella mia terra martoriata» – l’autrice costruisce un testo che è al contempo un’autobiografia, un’inchiesta giornalistica, una riflessione politica e, soprattutto, un appello morale all’impegno concreto. Un manifesto corale che parte dal vissuto e si spinge fino ai vertici del potere, avvolgendo il lettore in un’analisi che non concede sconti né compromessi.
Nel corpo del libro, Jebreal analizza con ferocia il concetto di «genocidio» inteso non già come un’etichetta gridata per fare scalpore, ma come riferimento a un crimine riconoscibile secondo i criteri della Convenzione ONU del 1948: distruzione sistematica, intenzionale, pianificata. E lo fa per restituire dignità alle vittime, ma anche per inchiodare alla colpevolezza chi tace: Governi, opinione pubblica, istituzioni internazionali.
Ne emerge una critica feroce – ma argomentata con rigore e puntiglio – della retorica occidentale, capace d’erigere muri retorici tra i principi e la realtà. La «legge dei diritti umani» diventa un’arma coloniale, un certificato di buonismo che, al momento della verità, si sgretola. Gaza diventa il campo visivo dove si gioca questa guerra al contrario: dove l’io umanista occidentale, cieco e ipocrita, si ritrae davanti alle macerie della sua stessa credibilità.
Ecco allora l’abilità narrativa di Jebreal: non si limita a un resoconto, ma rifiuta il distacco. Il lettore è trascinato all’interno della tragedia come testimone, a volte come persecutore morale di se stesso. Non c’è spazio per il dolore pietistico, ma per la responsabilità, globale e personale.
Un passaggio particolarmente vibrante proviene dalla recensione da parte della testata on-line FideLiter, che riassume i dieci punti più pungenti del libro. Tra questi, colpisce la denuncia della complicità occidentale, il consolidamento di un doppio standard nel diritto internazionale, la proposta di un’alternativa possibile al paradigma fallimentare dei «due popoli, due stati»… E, soprattutto, la denuncia di una diplomazia che condanna a parole, ma favorisce con i fatti lo stesso sistema che vorrebbe reprimere.
Anche lo spazio politico globale viene chiamato in causa. Jebreal denuncia come Gaza – «il canarino nella miniera dell’autoritarismo» – sia diventata un laboratorio geopolitico: tecnologie di morte, sorveglianza, repressività vengono testate su un popolo per essere esportate altrove. Un paragone che suona inquietante ma necessario: un avviso per l’intero pianeta.
Il libro-denuncia non diviene mai un sermone. Anche quando ferisce, lo fa con eleganza. Secondo Articolo21, queste pagine imprimono un «marchio a fuoco sulla pelle. Doloroso ma necessario». E l’equilibrio tra vissuto e analisi – personale e universale – rende il testo leggibile, ma anche invadente, come dovrebbe essere un buon colpevolizzare consapevole.
C’è, infine, una speranza che resta aperta: non è un libro per rassegnati. L’autrice scrive perché «lo slogan “mai più” diventi una chiamata all’azione». Non un ricordo passivo, ma un impegno attivo. La parola d’ordine è «armi di resistenza»; l’obiezione morale diventa pratica necessaria, anche quando tutto sembra perduto. Non è retorica: è una sfida a riconquistare l’umanità, pezzo dopo pezzo.
Marco Vergottini