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Attualità
Attualità, 8/2025, 15/04/2025, pag. 230

Il "Come se" di Santucci

Mariapia Veladiano

Luigi Santucci è un grande autore da rileggere. È nato il giorno esatto in cui la Prima guerra mondiale finiva ed è morto sulla soglia del nuovo secolo. 

Luigi Santucci è un grande autore da rileggere. È nato il giorno esatto in cui la Prima guerra mondiale finiva ed è morto sulla soglia del nuovo secolo. Che temeva molto, e che vedeva carico di «cataclismi etnici, coi vergognosi progetti di clonazioni e uomini in fotocopie, con i supremi trionfi d’imbecillità a cui i media voteranno l’uman genere...». Parole ricordate in un bell’articolo scritto dalla figlia Emma su Avvenire (11.12.2018), in occasione del centenario della nascita.

Il Novecento Santucci l’aveva attraversato da protagonista colto. È stato docente, partigiano, poeta, paroliere, saggista, scrittore. Scrittore cattolico, si disse presto di lui, e questo non gli piaceva proprio, lo scrisse e lo ripeté in molte interviste, un’etichetta che «serve ad alimentare confusione, pigrizia, archiviamento di personalità e problemi». Vero per qualsiasi etichetta. La scrittura è bella o brutta, niente altro.

E quella di Luigi Santucci è molto bella, e infatti nel 1967 il suo Orfeo in Paradiso vince il Premio Campiello. Segue una produzione generosa di poesie, racconti, saggi e romanzi che in molti modi e forme ruotano tutti o quasi intorno al tema religioso, in particolare al tema religioso per eccellenza: c’è vita oltre questa vita? Esiste speranza per noi viventi? E poi c’è l’altro tema che attraversa l’intera sua produzione, la morte della madre, tradimento primo, originaria impossibilità emotiva: se muore chi ti ha chiamato alla vita e amato d’amore inscritto nel corpo tuo, allora anche il corpo tuo è un tradimento radicale, definitivo.

Fra i romanzi di Santucci, Come se (Mondadori 1973) è fra i meno popolari e forse fra i meno amati dai critici che alimentavano l’etichetta cattolica. Intanto, si offre con una struttura estremamente complessa a causa della dimensione onirica, quasi delirante, del narrare. Protagonista è Klaus, lo incontriamo all’ospedale dopo un incidente di montagna. Al capezzale s’alternano medici e un prete che gli somministra l’estrema unzione e a ogni passaggio del rito lo troviamo a ricordare parti della sua vita.

Subito il narrare in terza persona con punto di vista rigorosamente interno si fa un calderone di ricordi, di emozioni, un disordine temporale che ci mette alla prova. Infine i temi. Sono tremendi. C’è la morte, lui Klaus sta morendo. Ma prima sono morti i suoi genitori, in un incidente di montagna. L’orfanilità lo accompagna tutta la vita, gli manca la madre (il tema della morte della madre!) soprattutto, ma Klaus trova una immediata fratellanza in Mico, il figlio della famiglia che lo ha accolto.

Famiglia magica. Il padre Giò (affidatario, adottivo, padre a tutti gli effetti) ha un negozio di strumenti musicali. È cieco, «per vedere meglio ciò che conta» (60). La madre Felicita è maestra, naturalmente credente, intelligente, piena d’umanità. E poi soprattutto c’è Mico, fratello appunto, non di sangue ma di più. Mico è accordatore, lui, Klaus invece sarà compositore. Mico, nel racconto estremo, onirico, senza filtri di Klaus morente è più che fratello, quasi amante ma non nel senso contemporaneo omoerotico, nel senso primordiale dell’uno indistinto.

Tutti in tutto. Klaus, orfano, vive tormentato dalla mancanza, l’ombra della morte lo precede, morte dei genitori, morte di chiunque possa essere amato. Mico è invece del tutto appagato, abitatore già bello e sicuro di un tempo e un luogo in cui non conta né giudeo né greco, né uomo né donna. Prende la vita, va soldato, torna brevemente perché ferito, condivide con l’amico la donna, l’affetto che gli ha conservato l’amore per la vita nella carneficina assoluta della Prima guerra mondiale.

Ma nasce una bambina e non si sa bene di chi sia.

Questo sarà gioia per Mico, che la riconosce sua e poi muore in guerra, e tormento per Klaus. La bambina si chiama Dafne e Klaus la ritrova sul letto di morte, figlia forse, di sicuro intrisa di musica e canto, decisa a strapparlo alla morte. E ci riesce, eccome ci riesce. È quasi come se dall’aldilà Mico gliela avesse inviata, angelo salvatore, carnale, così carnale da essere desiderabile come un’amante.

Il resto a chi vorrà rileggere. Ma pagine memorabili sono quelle in cui si racconta di Onkel Klaus, ovvero il barone Victor Franz Altenburger, unico parente rimasto al piccolo Klaus dopo la morte in montagna dei due genitori. È lui che trova una famiglia al bambino e che paga la sua educazione, in seminario. Sì, Klaus farà il seminario e lì, un inganno dietro l’altro, studierà mirabilmente musica e diventerà maestro compositore. E sarà sempre lo zio che dopo, quando Klaus uscirà dal seminario, riuscirà a completare la sua formazione musicale a Salisburgo.

Ateo perfetto, si definisce Onkel Klaus (cf. 36). È trasparente alter ego, uno dei tanti possibili, dell’autore che gli fa recitare un bel disincantato canto di morte per l’illusione tolemaica definitivamente affossata da «Schwein Kopernikus», Copernico, l’inimicus che ha spaccato in due la storia come un cocomero, un prima in cui l’uomo sovrano aveva per spettatore le stelle e un dopo in cui «siamo una cacca di capra nell’infinito» (41).

Ma c’è la musica. Fra Mico e Klaus una promessa: il primo che fosse morto avrebbe dovuto riprodurre un certo fischio, un suono noto, che testimoniasse che (se) qualcosa c’era (ci fosse) oltre la luce dei nostri giorni. «Basta una goccia di musica per fare uscire l’uomo dalla bestia» (76), aveva detto un giorno Klaus.

È per inseguire quel suono sicuramente sentito che Klaus s’avventura una notte in montagna e sì, potrà dirlo, sul confine dei mondi: «C’è musica anche dall’altra parte» (27).

 

Tipo Riletture
Tema Cultura e società
Area
Nazioni

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