Una «cosa sono i ministeri o uffici ecclesiali (come il presbiterato o l’episcopato), che la Chiesa contingentemente affida ad alcuni fedeli, mediante il sacramento dell’ordine (imponendo loro le mani), e altra cosa è il sacerdozio, che il Nuovo Testamento riconosce proprio esclusivamente di Gesù risorto, al quale l’insieme dei cristiani (uomini e donne) partecipa per il sacramento del battesimo, senza alcun bisogno di facoltà particolari». Può essere considerato questo il perno della riflessione che qui proponiamo: una rilettura, condotta in libertà, con brillantezza e qualche esplicita annotazione umoristica, della Lettera agli Ebrei, in particolare per considerare criticamente, entro un più ampio ragionamento sul ministero, l’«esclusione programmatica delle donne dal sacerdozio e dalla celebrazione di alcuni segni sacramentali ecclesiali (cresima, eucaristia, remissione dei peccati, unzione degli infermi)». L’autore annota in apertura che si tratta di «riflessioni personali su alcune riforme di dottrina e di linguaggio che mi sembrano scaturire da un’ingenua, ma attenta, lettura del Nuovo Testamento, che rimetto tuttavia interamente al giudizio e all’insegnamento autoritativo della Chiesa, mia madre»; ma è difficile non rilevare, proprio in riferimento alla donna nella Chiesa, la forza delle conclusioni: non c’è altra ordinazione sacerdotale; le donne sono già sacerdoti.
La Terra Santa, luogo sacro per molti milioni di persone di tutto il mondo, è attualmente impantanata nella violenza e nella sofferenza dovute a un prolungato conflitto politico e alla deplorevole assenza di giustizia e di rispetto dei diritti umani.
«Nella vita, nella morte, nel dolore, nell’amore, cerchiamo parole e gesti in grado di esprimere qualcosa e non li troviamo. Spesso, anche le nostre stanche liturgie sembrano aver smarrito la sapienza di una ritualità che aiuta a dare forma e senso alla vita e ai suoi momenti topici. Eppure, proprio questo sarebbe uno dei regali che possiamo fare ancora al mondo, senza presunzione, ma coltivando quel che a nostra volta abbiamo ricevuto e che siamo chiamati a trasmettere: “Fate questo in memoria di me”». L’8 settembre è uscita la prima lettera pastorale di mons. Domenico Pompili alla Chiesa di Verona, dove è vescovo da poco più di un anno. Il documento introduce il fondamentale tema del silenzio, su cui la Chiesa di Verona è invitata a riflettere.
Il silenzio, proattivo e contemplativo insieme, è il mezzo per ritrovare un atteggiamento pratico diverso e capovolgere il nostro sguardo sulla realtà. In un mondo in cui il rumore sembra avere sempre la meglio e in cui le parole perdono di significato, «il silenzio libera dal peso di dover stare sempre sul chi-va-là, restituendoci a un’intensa percezione del mondo, lontano dal disincanto in cui si perde l’orizzonte».
È quindi il primo impegno da mettere in campo, riconoscendo la creatività e l’importanza di questo strumento, che può far nascere molteplici attività per aiutare a rinnovare il modo di vivere e di credere di una società, e soprattutto di una Chiesa, che sembra boccheggiare.
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