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Attualità
Attualità, 14/2019, 15/07/2019, pag. 387

Pastorale - Sacramento della penitenza: immaginare un futuro

Nello specchio del Vangelo

Ladislas Orsy

La frase preferita da Yves Congar – uno dei più eminenti teologi del concilio Vaticano II – diceva che di tanto in tanto «la Chiesa intera» deve guardarsi «nello specchio del Vangelo». Di questo lavoro d’analisi il Concilio, naturalmente, ne ha compiuto molto, ma si tratta di un processo che non finisce mai. Più di 50 anni dopo, sotto il pontificato di Francesco, che proclama costantemente la necessità della misericordia, potrebbe essere il tempo opportuno per far sì che questo santo esercizio sia ripetuto per il sacramento della misericordia, la penitenza. 

La frase preferita da Yves Congar – uno dei più eminenti teologi del concilio Vaticano II – diceva che di tanto in tanto «la Chiesa intera» deve guardarsi «nello specchio del Vangelo». Di questo lavoro d’analisi il Concilio, naturalmente, ne ha compiuto molto, ma si tratta di un processo che non finisce mai. Più di 50 anni dopo, sotto il pontificato di Francesco, che proclama costantemente la necessità della misericordia, potrebbe essere il tempo opportuno per far sì che questo santo esercizio sia ripetuto per il sacramento della misericordia, la penitenza. Tanto più che il Concilio ha stabilito nella costituzione sulla sacra liturgia che «il rito e le formule della penitenza siano rivedute in modo tale che esprimano più chiaramente la natura e l’effetto del sacramento» (n. 72; EV 1/125).

In altre parole, il Concilio ha giudicato che l’attuale rito e le formule esteriori siano espressioni inadeguate del dono interiore della grazia e perciò il Concilio ha chiesto che la Chiesa cerchi una configurazione migliore per l’amministrazione del sacramento.

L’intento di questo mio articolo è di contribuire a questa ricerca nello spirito del passo evangelico che afferma: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). Farò questa estrazione riflettendo in particolare su tre punti: qual è lo stato attuale del sacramento della penitenza; che cosa c’è nella Tradizione al riguardo; che tipo di nuovo rito e di nuove formule possiamo immaginare in modo che rendano manifesta la magnanimità di Dio più di quanto lo facciano gli attuali; a queste considerazioni aggiungerò la testimonianza di un vescovo (cf. box a pag. 388).

Ieri e oggi

Rispondendo alla domanda del Concilio, nel 1973 la Congregazione per il culto divino pubblicò il decreto Reconciliationem. De novo ordine paenitentiae e nel 1983 papa Giovanni Paolo II promulgò il nuovo Codice di diritto canonico che includeva alcune delle norme riviste per la penitenza. Entrambi gli atti autoritativi, assieme ad altri documenti, miglioravano i riti e le formule introducendo alcune nuove norme disciplinari e orazioni ma l’insieme di tutti questi provvedimenti non fece molto nella direzione di una risposta all’autorevole richiesta da parte del Concilio.

Intanto negli ultimi 5 o 6 decenni, l’atteggiamento dei fedeli nei confronti della confessione privata è cambiato in forma drammatica. Le lunghe file di fronte ai confessionali sono scomparse e in molte chiese sono stati convertiti per altri usi. I papi e i vescovi, dando per scontato che il comportamento dei fedeli avesse preso la direzione sbagliata, hanno risposto con indicazioni correttive e forti esortazioni, fino al punto di dare il proprio personale esempio andando a confessarsi sotto lo sguardo di tutti. E a parte qualche successo locale e temporaneo non ci sono prove che essi siano riusciti a ribaltare il trend. Ogni tentativo d’amministrare il sacramento secondo nuove modalità, come ad esempio quella dell’assoluzione generale, a prescindere dal suo successo, è stato rifiutato (in questo articolo non scriverò a favore dell’assoluzione generale a motivo del suo carattere impersonale; non è in armonia con lo stile delicato di Dio).

Per tutto questo si è creato un vuoto immenso dentro la Chiesa; la misericordia arriva a intermittenza e non fluisce come dovrebbe secondo l’abbondanza divina. Il corpo di Cristo è denutrito di grazia sanante e per questo indebolito internamente. Di conseguenza non ha quell’energia necessaria per affrontare le crisi esterne. Alcune comunità potrebbero essere descritte come in uno stato di disidratazione spirituale: non si percepisce immediatamente ma è pericolosa. Il risultato: più lamenti che canti di gioia.

Nella storia della prassi della penitenza si possono distinguere 5 principali trend, anche se non sono una linea di sviluppo coerente. Sono scaturiti da fonti diverse e servivano a scopi diversi. Essi hanno iniziato a essere operativi in modo parallelo o intersecato fino a che il concilio di Trento impose un’uniformità (cf. anche l’ampio dossier in Regno-att. 6,2016,180).

  1. Il pentimento e il perdono amalgamati in una liturgia vivente. I fedeli si conformarono al monito di san Paolo: «Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice» (1Cor 11,28). Pertanto nel cristianesimo antico la liturgia della quaresima si sviluppò come una costante richiesta di perdono e la celebrazione della Pasqua divenne un’esplosione di gratitudine per il perdono divino. I regolamenti rimasero locali. Una prassi abbastanza comune che nutrì le comunità per circa 1200 anni.
  2. L’entrata nell’ordine dei penitenti. La parola «ordine» designò non un ordine religioso ma l’insieme di coloro che facevano «pubblica penitenza». Per unirsi a loro era necessaria l’autorizzazione del vescovo. La vera penitenza era l’esclusione dall’eucaristia. In generale, però, non erano ammessi alla penitenza pubblica i giovani e le donne. Comunque solo il vescovo aveva il diritto di riammeterli all’eucaristia. Il principio sottostante a questa prassi sembra che fosse quello previsto per le gravi offese pubbliche come l’apostasia, l’omicidio, l’incendio doloso, l’adulterio e altri (ogni vescovo teneva una propria lista dettagliata), ed era garantita una pubblica riparazione. Di origini antiche, la prassi venne abbandonata alla fine del V secolo. Il tentativo di farla rivivere d’imperio nel IX secolo non ebbe successo.
  3. «La penitenza tariffata». «Tariffata» significa che per ogni singolo peccato era prevista una specifica punizione proporzionata e meticolosamente calibrata. Il sistema nacque nei monasteri irlandesi nel VI secolo. La sua descrizione più semplice è che «ciascun penitente possa confessare i propri peccati a qualsiasi sacerdote» e ottenere l’assoluzione, condizionata da un’appropriata penitenza da eseguire. Quando i monaci missionari portarono la prassi nel Continente, incontrò una violenta opposizione, ma entro il XII secolo essa venne riconosciuta dai vescovi e dai loro concili locali come una delle legittime e principali vie per ottenere il perdono.
  4. Penitenza come dovere pasquale. Questa fu la prima effettiva norma universale emessa dal concilio Laterano IV nel 1215. Impose il dovere a ogni fedele di confessare i propri peccati a Pasqua al proprio parroco e a nessun altro. A parte l’intento della santificazione, la legge voleva smascherare gli eretici. Si stava diffondendo infatti una forma rivisitata di manicheismo che rifiutava la confessione. Dove i parrocchiani non si facevano vedere erano «sospettati di eresia» – un motivo per gli inquisitori per interrogarli.
  5. Consolidamento e codificazione con il concilio di Trento nel 1551. Il Concilio di Trento ci ha dato un gruppo di norme che tutti noi abbiamo interiorizzato sin dall’infanzia. Recentemente, comunque, è stato fatto un importante lavoro di valutazione e reinterpretazione delle determinazioni del Concilio alla luce di un contesto più ampio di quello che esisteva al tempo degli infuocati dibattiti sulla Riforma.

La nostra tradizione bimillenaria è tutto fuorché una mirabile sinfonia: ogni nota deve accordarsi armoniosamente con il tutto. Talvolta occorrono secoli perché ci si accorga di una nota dissonante e la si aggiusti.

C’era una volta...

Per quanto riguarda il futuro, invece che un’arida esposizione teorica, vorrei lasciarmi andare a un gioco d’immaginazione. Ci troviamo in un’utopia cattolica, presso la Parrocchia di tutti gli Angeli, nota per il suo coraggioso pensiero.

La parrocchia ha un regolare servizio penitenziale l’ultimo sabato d’ogni mese. Quando arriva il giorno, la chiesa è tutta illuminata e fiori freschi adornano l’altare. Il sacerdote va all’altare, con la veste delle solennità liturgiche.

La prima parte della liturgia è organizzata sul modello della liturgia della Parola prima dell’eucaristia. Ci sono letture dall’Antico e dal Nuovo testamento, tutte sulla misericordia divina che non viene mai meno. Poi il sacerdote lascia che la Parola risuoni nell’omelia (una buona opportunità per attirare l’attenzione sui peccati collettivi, che tutti commettiamo ma che a stento confessiamo, come il consumismo, il disprezzo sociale… chi riesce a elencarli tutti?).

La seconda parte è la recezione del sacramento. Come sottofondo c’è una musica lieve o un canto sommesso. Il sacerdote chiede a chi vuole ricevere il sacramento di venire davanti. Allora le persone, lentamente, una per una, vanno dal sacerdote di fronte all’altare e confessano con voce chiara e udibile dall’assemblea che hanno peccato contro Dio e contro il prossimo e chiedono la «remissione dei propri debiti». Il sacerdote dà l’assoluzione a ciascuno – uno per uno, non un’assoluzione generale – con parole e /o gesti – mentre l’intera assemblea vede e sente ciò che sta accadendo.

Al termine, una preghiera di ringraziamento e un inno di lode a Dio. Queste liturgie sono normalmente organizzate per 30-40 persone. Tra l’altro, occasionalmente la parrocchia prevede anche liturgie speciali per bambini, comunità religiose e persino professionisti come insegnanti, politici, bancari e anche per i sacerdoti della diocesi (a questa il vescovo non manca mai).

Tutti i visitatori della Parrocchia di tutti gli Angeli trovano qui qualcosa d’inusuale: in questo travagliato mondo a loro piace cantare canti di gioia.

In sintesi: le persone hanno fame della misericordia sacramentale e agli scribi è chiesto d’estrarre il proprio tesoro antico e nuovo e ai pastori di benedire una nuova direzione dove l’immaginazione si mescola con un’esperienza ricca di grazia.

Come conclusione potremmo compiere un esercizio: meditiamo e contempliamo come il nostro Redentore ha trattato la donna colta in adulterio: «Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”» (Gv 8, 9-11).

Lì, nello specchio del Vangelo, troviamo il consiglio sempre valido su come realizzare il mandato del Concilio. La nostra Chiesa manifesta la sua divinità soprattutto quando perdona il peccato.

 

Ladislas Orsy *

* Ladislas Orsy si, classe 1921, insegna Giurisprudenza al Centro giuridico della Georgetown University di Washington DC.

Tipo Articolo
Tema Pastorale - Liturgia - Catechesi
Area
Nazioni

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È capitato molti anni fa che io fossi invitato a un colloquio; c’era un vescovo in visita proveniente dal Sudamerica. «Parlerà del suo lavoro» – mi era stato detto –. E così fece. Tra i diversi argomenti, narrò come lui e la sua gente celebravano il sacramento della penitenza: con gioia evangelica e con un rinfresco. La chiacchierata è stata registrata; ciò che segue è la mia trascrizione alla quale ho fatto solo piccoli cambiamenti stilistici (pubblicata in Theological Studies 45[1984], 687s).