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Attualità
Attualità, 16/2020, 15/09/2020, pag. 449

Italia - Politica: dal populismo all’opportunismo

Elezioni regionali, referendum e partiti

Gianfranco Brunelli

Il referendum del 20 e 21 settembre, che deve confermare o respingere la legge di revisione costituzionale dal titolo «Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari», ha un significato politico. Non è solo uno slogan. O semmai uno slogan dagli effetti negativi sul piano istituzionale. Perché il taglio dei parlamentari non è una ridefinizione organica del ruolo del Parlamento per renderlo più autorevole ed efficiente, bensì un taglio di poltrone, senza un’adeguata legislazione che intervenga sui temi della rappresentanza, del modello elettorale e del funzionamento dell’Assemblea.

 

15 settembre 2020.

Un tempo – ed è stata una delle caratteristiche che ha attraversato la storia d’Italia – si chiamava trasformismo. Oggi potremmo definirlo del tutto negativamente: opportunismo. Ma è più o meno la stessa cosa. L’habitus politico inaugurato da Depretis, a metà Ottocento, allora con qualche valenza politica di fronte alla condizione di un passaggio complesso dello stato nascente, si è via via modificato in abitudine. Un costume comportamentale fatto di tatticismi compromissori, senza alcuna coerenza di pensiero o di visione e finalità generali, un’azione fine a sé stessa, a coprire talora anche affari di consorterie e clientele, a logica individuale e di piccoli gruppi che hanno come fine l’auto-mantenimento, una volta giunti in area di potere. Opportunismo da autoconservazione.

La nuova casta

Il movimento di Grillo, nato populista, in due anni di governo, con maggioranze politiche di segno opposto, si è velocemente trasformato in un gruppo di opportunisti. Di scarsa qualità, tra l’altro. Sanno di non essere più elettoralmente rilevanti nel paese e diventa per loro vitale rimanere al potere il più a lungo possibile, cercando di continuare a sventolare la bandiera della protesta e del populismo: la casta che fa l’anticasta.

Il referendum del 20 e 21 settembre, che deve confermare o respingere la legge di revisione costituzionale dal titolo «Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari», ha un significato politico. Non è solo uno slogan. O semmai uno slogan dagli effetti negativi sul piano istituzionale. Perché il taglio dei parlamentari non è una ridefinizione organica del ruolo del Parlamento per renderlo più autorevole ed efficiente, bensì un taglio di poltrone, senza un’adeguata legislazione che intervenga sui temi della rappresentanza, del modello elettorale e del funzionamento dell’Assemblea.

Il «taglione» trascina o spinge a un definitivo ritorno al sistema elettorale proporzionale. Né si discute del ruolo delle due Camere, vero cuore di una riforma organica. Il taglio dei parlamentari comporta circoscrizioni più ampie, troppo ampie per un rapporto tra cittadini ed eletti e una definitiva sudditanza di questi ultimi alle segreterie dei partiti.

Questa legge era del resto associata, nella prima stagione populista dei 5Stelle, al vincolo di mandato e all’istituzione del referendum propositivo. La vittoria dei «sì» è come se realizzasse in certo modo gran parte degli obiettivi. Di questo doveva occuparsi il ministro della democrazia diretta nel governo giallo-verde. Una concezione della democrazia alquanto diversa da quella liberal-democratica, nella quale governo e Parlamento hanno entrambi un ruolo fondamentale.

Mentre una «democrazia diretta» così concepita, con una linea politica e le stesse proposte legislative sancite in modo extra-istituzionale, filtrate da un piccolo nucleo di oligarchi del partito, attraverso l’azione cosiddetta diretta di agenzie esterne, quali la piattaforma Rousseau, rasenta un modello che somiglia più ai Soviet che alla parola e alla decisione data ai cittadini.

Il «sì» al referendum del 20 gioca su pulsioni populiste (per questo vince), ma dà un ulteriore contributo alla delegittimazione del Parlamento, già marginalizzato nella stagione precedente ed esautorato della sua funzione durante i mesi dell’emergenza COVID-19. Siamo giunti con la complicità di tutte le forze politiche a un Parlamento annullato di fronte a un governo debole.

Riforme: l’ennesimo fallimento

Quando all’inizio degli anni Novanta ci si mosse per un cambio del sistema politico in chiave uninominale maggioritaria, si mirava con un progetto istituzionale organico a discutere di un superamento del bicameralismo perfetto (con o senza taglio del numero dei parlamentari, la cosa sposta poco) e un rafforzamento del Parlamento, grazie a un ruolo effettivo degli elettori, di fronte a un parallelo rafforzamento del governo, accentuando il principio di decisione degli esecutivi, indispensabile per governare e riformare il paese.

Tuttavia, la storia delle riforme istituzionali in Italia è una storia di fallimenti, causati volta a volta da mutamenti politici del tutto strumentali.

Si pensi al fatto che il referendum in questione riguarda una legge voluta dalla maggioranza giallo-verde, anzi, punto strategico del «contratto di governo» tra Lega e 5Stelle nel maggio del 2018, alla quale dopo i 3 voti parlamentari contrari oggi si accoda il Partito democratico (PD), in nome della stabilità del secondo governo Conte, che poggia sulla paura di un ritorno di Salvini in area di governo.

Ma il cambio di posizione politica del PD – che oggi, dopo un anno di governo con i 5Stelle, non ha più una identità politica ed è altresì privo di leadership – è divenuto piuttosto frequente. E di esito scarso, se non negativo.

Giusto un anno fa, dopo la crisi di governo ferragostana provocata da Salvini, e sulla scorta di un tatticismo di Renzi (allora ancora nel PD), che apriva ai 5Stelle, il segretario Zingaretti, dopo aver solennemente dichiarato in precedenza il suo fermo «no» a ogni intesa con i 5Stelle, per non farsi scavalcare da Renzi pronunciava i suoi solenni «punti fermi» per un governo PD-5Stelle: discontinuità alla guida del governo (dunque, dopo Conte un nuovo presidente del Consiglio); no al taglio dei parlamentari; no ai decreti sulla sicurezza.

Era comunque poco per formare un governo di completamento della legislatura con un partito che capovolgeva la propria alleanza politica e che aveva della democrazia una concezione opposta. E lo si è visto in ogni passaggio politico: dal MES alla questione Autostrade. 

In ogni caso: oggi Conte è il presidente del Consiglio; i decreti sicurezza sono stati emendati in maniera del tutto insufficiente; e siamo al referendum sul taglio dei parlamentari. Per così dire: una splendida azione finita in autogoal. 

La vittoria del «sì» al referendum è una scelta per una democrazia debole ed è una vittoria del populismo, ma a ben vedere essa comporta anche un ridimensionamento dei populisti (oggi opportunisti) che hanno voluto il taglio dei parlamentari in questa forma. Essi sono destinati in una gran quota a perdere il loro posto, e a esserne travolti. Il «sì» a ben vedere indebolisce le istituzioni e il governo.

La vittoria del «sì» isola ancora di più la classe politica dal paese. Rincorrere i populismi non fa che delegittimarla e invera la sua condanna.

Ma c’è, in ogni caso, uno sconfitto certo: il PD. Non ha voluto la riforma e vota, senza alcun dibattito interno e varietà di posizioni, il «sì». Non si può politicamente intestare alcun risultato. La Lega almeno ha giocato con qualche varietà di posizionamento (Giorgetti in primis), pur avendo sostenuto la riforma.

Se poi nel dopo voto si dimostrasse che nonostante le indicazioni dei vertici del PD gran parte della base ha votato per il «no», oltre alla sconfitta politica i dirigenti si troverebbero simbolicamente fuori dal partito.

Una buona affermazione del «no» (la cui vittoria mi pare difficile) ridimensiona populisti e opportunisti. Toglie dall’impasse il paese. Si può ripartire.

Veneto e Toscana regioni decisive

Il 20 e il 21 si vota anche per il rinnovo di 7 consigli regionali: Veneto, Toscana, Campania, Puglia, Marche, Liguria e Valle d’Aosta. Il voto regionale è politicamente rilevante quanto il referendum. Non solo per il risultato finale, che risponde alla domanda su quante regioni perde il centro-sinistra, ma perché all’interno del centro-destra misura la forza di due partiti, Fratelli d’Italia e la Lega, e la debolezza di Forza Italia. E soprattutto perché avvia il confronto dentro la Lega. Qui è determinante il risultato di Zaia in Veneto rispetto al suo stesso partito di appartenenza. Un’alternativa a Salvini nella Lega è il tema politico dei prossimi mesi. Salvini è la garanzia della permanenza di questo governo politicamente debole e inefficace. Senza Salvini si esce dalla stagnazione.

Nel campo del centro-sinistra, se il PD perde anche in Toscana (si danno per perse la Puglia e le Marche) si apre la questione della leadership e forse un minimo di dibattito politico. L’unanimismo attuale e l’assenza di un congresso vero fanno del PD un partito assai poco incline all’esercizio della democrazia, sempre più somigliante agli altri partiti, dove questa abitudine non c’è più da tempo. 

Aprire la questione della segreteria del PD significa aprire il dibattito sull’identità politica del partito. La tesi politica vetero-comunista dell’asse Zingaretti-Bettini porta a immaginare un ritorno al duo Democratici di sinistra (DS) e Margherita. Una visione oggi davvero settaria, nella speranza che una parte dei 5Stelle, quella legata maggiormente a una visione statalista e anti-industriale, li raggiunga. 

Dall’altra parte c’è il presidente della regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, che aspettando la sconfitta si è posizionato per un ritorno al primo Partito democratico, al partito a «vocazione maggioritaria», chiedendo a Renzi, a Calenda e a Bersani il rientro. Anche perché si capirà presto che per questi soggetti non c’è futuro. E d’altra parte un partito sotto il 20% è destinato al declino. Mentre sopra il 25% può ancora rappresentare un punto significativo di tenuta politica del sistema ed elettoralmente di aggregazione coalizionale.

Ma allora quel «sì» al referendum è non solo inutile, è dannoso.

 

Gianfranco Brunelli

 

 

cf .Regno

Sui temi recenti della politica italiana, cf. Regno-att. 12,2020,325; 2,2020,1; 20,2019,579; 16,2019,449; 12,2019,321; 6,2019,129; 2,2019,1; 12,2018,321; 8,2018,193; 6,2018,139; 4,2018,65.

 

Tipo Articolo
Tema Politica
Area EUROPA
Nazioni

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